lunedì 21 gennaio 2013

Bazzani, Fabio, Lanfredini, Roberta, Vitale, Sergio (a cura di), La questione dello stile. I linguaggi del pensiero

Firenze, Clinamen, 2012, pp. 178, euro 19,80, ISBN 978-88-8410-180-8. 

Recensione di Pietro Camarda – 17/03/2012

Muovendo dalla possibilità di una comprensione intrecciata tra sapere e stile, in vista della messa a fuoco di una questione che sollecita i linguaggi del pensiero, l’interesse e l’attenzione che suscita la questione dello stile si dirige verso una multivocità di punti di vista che, intessuti in un unico tentativo (il testo in questione), si concretizza nel “prender le mosse da un qualcosa […] ed il qualcosa da cui si inizia è già di per sé sintomatico di uno stile” (p. 7).
La questione è quella dello stile, ma non c’è mai stato lo stile, perché vi sia è necessario scrivere nello scarto tra parecchi stili: se vi è stile ce ne deve essere più d’uno. 

Nell’indecidibile situazione limite tra la finzione e la realtà, il contenuto e la forma, il vero e il non-vero, si scatena il problema dello stile che, squalificando il progetto ermeneutico che postula il senso vero di un testo, si da a intendere come il declinarsi “vertiginoso” del possibile che, come un corpo senza organi, più potente di ogni contenuto, di ogni tesi, di ogni senso, inaugura e definisce la decisiva cesura e la rumorosa eccedenza provocata dal naufragio del concetto. 
Il problema che questo testo vuole esaminare è proprio quello dello stile inteso non soltanto come un oltre del discorso filosofico (e non soltanto filosofico), ma soprattutto come la forma essenziale del pensiero, dando voce a una alterità rispetto al discorso, come stile di una ulteriorità. Non si tratta soltanto di ricercare una forma del discorso filosofico, pronta per l’uso e il consumo del pensatore, ma è necessario tenere conto del legame tra il pensiero, così per come si esprime, e le sue possibili e differenti forme.
Parlare di stile in filosofia può significare due cose: si può parlare di filosofia dello stile e si è portati a orientarsi verso una filosofia del linguaggio o sul linguaggio; parlare di stile della filosofia invece, significa considerare il linguaggio non come l’oggetto della riflessione filosofica, ma come lo strumento per mezzo del quale un contenuto filosofico si mostra assumendo una determinata modalità espressiva (cfr. pp. 10-11). Lo stile sembrerebbe introdurre nel discorso un rumore, dei cortocircuiti rispetto alla purezza del pensiero, che interferiscono con la piena comprensione di questo: è necessario, quindi, per prima cosa, arrendersi alla propria lingua, che è già la lingua dell’altro e per ciò stesso estranea.
Gli interventi che compongono il testo sviluppano separatamente la questione dello stile, ma sono tenuti assieme quasi come un filo rosso che li lega inesorabilmente, nell’impossibilità di scappare allo stesso problema, dalla duplice operazione di riferire e affrontare il suddetto problema dello stile affidandosi alle analisi in e dei diversi pensatori, ma anche nella difficile impresa di dare vita ad uno stile di pensiero, e quindi di scrittura, che metta in luce proprio lo sforzo di descrizione del problema. Non è vero che se un discorso possiede un qualche valore di verità, questo si farà strada da sé indipendentemente da come viene espresso: in pratica, l’involucro stilistico sembrerebbe non avere nessuna influenza sulla verità di un discorso (cfr. p. 18). Come se, per esempio nell’argomentazione kantiana, potesse esistere un “puro pensiero” cui è possibile dare, dall’esterno, un rivestimento formale che non influisce minimamente su di esso! Invece, le trasformazioni e i mutamenti che tra forma e contenuto costituiscono un’unità inseparabile, dando vita ad uno spettacolo irripetibile, espressione concreta di un movimento autonomo, mostrano la crisi interna ad una impostazione metafisica del problema dello stile e ne denunciano i rischi e i limiti che emergono dalla fondamentalità del linguaggio. 
Heidegger, per esempio, sembrerebbe sviluppare la questione dello stile a partire dal fatto che ogni filosofia, quindi ogni pensiero in generale, introduce il suo linguaggio (cfr. pp. 66-67). È a questo punto che il linguaggio diventa un elemento ontologico che orienta alle interpretazioni sull’essere, da un lato strutturandone la conoscenza e dall’altro indicandone i limiti.
Si viene a configurare così un triplice legame tra esperienza, scrittura e filosofia, legame che cerca di ritrovare le condizioni che delineerebbero un orizzonte tale per cui “la scrittura diviene la forma di una filosofia che tenta di fornire una via d’accesso all’esperienza” (p. 76). Il linguaggio, scritto e/o parlato, può solo alludere al movimento dell’essere lasciando così sfuggire l’immediatezza dell’esperienza, oppure è diretto responsabile di quella parte oscura, tanto temuta dal preteso perseguimento di un ordine discreto del pensiero razionale, che esige dignità ontologica e che costituisce il come di un’esperienza di pensiero, e quindi di linguaggio, che non può pacificamente riposare nel significato delle parole.
Sembrerebbe quindi, per dirla con Nietzsche, che la questione dello stile induce ad un engagement del pensiero nella forma. Si tratta, non di un modo di pensare al di fuori della ragione, ma di una ri-modulazione del pensare secondo il fuori della sua stessa ragione: in altre parole, tra la libertà simbolica (letteratura) e la razionalità concettuale (filosofia), si viene a creare un campo di mezzo, neutro, che completa entrambi i campi.
Dalla parola alla scrittura, dal fiato al segno, attraverso il suo essere materia, la concretezza della traccia in quanto scrittura consente in primo luogo la distanza: si tratta di un movimento di esteriorizzazione, di oggettivazione materiale che, lascia una mancanza colmandola con i segni, ma ne istituisce un’altra inaccessibile alla nostra volontà che prende vita nelle strategie di narrazione. Accade qui che sia l’Io narrante deve riprendersi il proprio se stesso attraverso la decifrazione dei segni, sia l’Altro scopre se stesso nelle espressioni in cui la vita si oggettivizza. In questo gioco tra l’Io e l’Altro, come di un se stesso che si dice in molti modi, siamo di fronte ad un dilemma: lo stile come separabile dalla forma orale del discorso filosofico, oppure lo stile intrecciato a tal punto con la manifestazione empirica del pensiero da essere da quest’ultimo indistinguibile?
Quella prima abbozzata è solo una differenza di grado e non di principio tra parola orale e segno scritto, poiché non esiste cosa reale o astratta che non si costituirebbe per noi come fatto di testo, secondo Derrida, restituendoci così meraviglia per la nuova realtà portata in luce. Il linguaggio dei “metafisici”, infatti, si è andato costruendo a partire da una continua degradazione dell’origine fisica e primitiva del logos, fino alla costituzione dei concetti. La filosofia sarebbe, quindi, un processo di metaforizzazione o, se si vuole, di stilizzazione progressiva, tale per cui l’alterazione verrebbe a coincidere con l’origine del linguaggio. Dunque, stando a ciò, l’uso, anche se inconsapevole, di uno stile (metafisico o meno) avrebbe messo sottosopra tutto, non riuscendo mai a liberarsi della scena favolosa, mitica, che l’ha prodotto e che tuttavia resta attiva, tanto da insinuarsi in modo invisibile nella struttura filosofica tradizionale. La questione dello stile rischia di rompere la pienezza semantica alla quale e dentro la quale gioca, ma allo stesso tempo, sottolinea il momento della deviazione a partire da cui sembra che il senso erri, portandosi altrove.
Lo stile, quindi, è nel testo filosofico, più di quanto non la si noti (o meglio si faccia notare). È un fantasma per la filosofia, perché è assente ma è presente, è presente ed allo stesso tempo è assente: dunque come fare a capire quando è all’opera? Ma allora si potrebbe fare confusione: dunque, dove si potrebbe scambiare lo stile per il concetto? Questa è la malattia da cui la filosofia è, da sempre, affetta, dalla quale non è facile uscire, e che non è da rintracciare in un inizio di essa, come un punto a partire dal quale essa si presenterebbe con i suoi sintomi, ma è da ritrovare in ogni discorso filosofico che si avvale propriamente di uno stile.
Alla luce di tale trattazione che intende mostrarsi come l’avvio di una discussione intorno ad una riflessione sistematica sulla scrittura filosofica, volgendo l’attenzione sia agli autori, sia ai temi, si può desumere che il concetto di stile, in filosofia, acquista poco a poco una nuova funzione che, per le prospettive innovative che dischiude e le direzioni di ricerca che prospetta, è degno di essere collocato tra i concetti filosofici. Il testo in questione, oltre a mostrare la forza pungente di tali argomentazioni, intessuto sugli e degli interventi che lo animano, ha il merito di muovere dalla consapevolezza che lo stile rappresenti un elemento costitutivo del sapere tanto da intervenire a strutturarne intimamente il corso e gli esiti: nel confronto serrato con la questione dello stile, che induce il pensiero ad entrare completamente in gioco, in quanto parte integrante del pensiero stesso, lo stile distanzia, crea una voragine che nel suo allontanamento viene compresa in una pluralità di stili di pensiero.       


INDICE

Note introduttive dei curatori

I. AUTORI
Gianluca Garelli – La prosa della ragion pura, qualche considerazione sulla scrittura di Kant.
Giuseppe Panella – L’incubo urbano. Rousseau, Debord e le immagini dello spettacolo.
Tommaso Goli – Scrivere l’aurora. Forme della scrittura in Marìa Zambrano.
Amedeo Marinotti – La questione dello stile di Heidegger.
Cristina Tosto – Il testo scritto: un rendez-vous nel luogo dell’assenza. George Bataille.
Samantha Novello – La filosofia fuori di sé: “Le Mythe de Sisyphe” di Camus nel “laboratorio” francese degli anni Trenta e Quaranta.
Camilla Pieri – Filoosofia e letteratura in J. -P. Sartre.
Paolo Parrini – La pittura come scrittura filosofica. De Chirico e la metafisica.

II. TEMI
Luca Paoletti – “Chi sono io?”. La scrittura autobiografica tra desiderio e mancanza.
Adriano Bugliani- Perché scrivo.
Emanuele Coppola – Il pensiero e la sua veste. Osservazioni sullo stile in filosofia.
Gerardo Fallani – L’espressione spiritosa come punto di incontro tra linguaggio musicale e scrittura filosofica.

3 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Lavoro recensito, di curatori di molteplici saggi di autori, da premesse dimidiate approda a risultato di interrogazione radicale cui a sua volta critiche radicali, ma tal ultima deduzione non sviluppata in quel che di lavoro stesso emerge in recensione. Tuttavia tematiche cui indice accluso ne avviano, però non in se stesse. Difatti sequenze di esse disimpegnanti.

D'altronde di introduzione dei curatori invece recensore riteneva essenzialmente, adducendone medietà di fatto non concretamente essenziale e corrispondente a sostanzialità di protesta antispiritualista da operati —e da relativi sèguiti anche indiretti— ancora non autorefutati né abbandonati di Marx e di Engels.
Di ciò si nota in inversione di senso, emergente in recensione stessa, di affermazioni / reaffermazioni di Nietzsche e Heidegger, cui sensi stravolti da invertirne, resa possibile da non considerar preliminarmente stile in quanto tale: cioè, in astratto, anche concettualità e pure il concetto. Invece, in non astrarre, stile è distinto da concetto; ma filosofare non filosofeggiare ponesi in essere da astrarre qual poter conoscere indeterminato...


Dunque curatori di pubblicazione recensita seguendo intellezioni filosofeggianti... ma proprio queste sottoposte esternamente e passivamente a possibili od effettivi pregressi stili o stile pregresso!! Questi, questo, si palesano nella fattispecie cui questo mio commentare, ispirati o soggetti a stilistiche di sovietismo non sovieticismo.

Proprio il dedurre non da meraviglia ed il condursi solo ad essa, in filosofeggiare tipico, è modalità cui pregresse stilistiche sono logicamente finalizzantemente non indifferenti; ed in curativa (recensita) il condursi solo a margine e di margine... Poiché premesse curative da distruzioni incompatibili con decostruzioni, queste indirette di oggettualità non oggetti culturali intellettuali, per antagonismi da esterni ad Occidente, speranze di più facili appunto "cultural distruzioni"; eppure ugualmente al dividendo in sillabe una parola ed essa meno semplice, essendo decostruiti a distruzioni.


Occasione mancata da cura di pubblicazione (recensita), allora mancando consapevolezza tutta dei limiti, in concreta singolarità di stesso curare, di filosofeggiare rispetto a filosofare; da ciò, in cura recensita, interesse più perspicuo limitato a linguaggio ma da inizi non parimenti limitati, con limitazione per logica di riduzione, che compresenza di saggi nega

...in ciò dunque iniziativa editoriale superiore, anche eticamente, a lavoro fatto dai curatori.



MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Sorta di riassunto recensivo, offre nozioni ma in formulazioni storicamente dimidiate.
Provvedo dunque a rimediare, per altrui necessità:


In Aristotele forma e contenuto di espressione filosofica sono non in quanto spettacolo della vita stessa ma quale meraviglia della realtà vitale e non vitale. Ugualmente nella metafisica araba ed in metafisicalità moderna contemporanea di esistenzialismo.

La grecità era in prima filosofia (non filosofia prima) la assenza di modi di dire quale conoscenza non determinata dalla manifestazione della verità e dunque quale ricerca della verità stessa libera dalla verità medesima; ed in quanto tale filosofia era espressione poetica (poemi filosofici e di filosofia); ma ciò era in naturalità evidente (appunto, grecità essendone e di primordi storici).
In preistoria della filosofia, era esistere greco medesimo a dare vita ad una manifestazione di futuro, da forza naturale medesima, però essendo per un futuro potenziale in possibilità naturale, per possibilità-potenzialità anche, non pure viceversa.

Dopo Medio Evo, non solo arabo, era eventualità di artefazione, di filosofia qual invenzione non naturale. A motivare antimetafisica moderna, fu presto decadere di artefatti filosofici in astrazioni vuote non nulle. Hegelismo ne era in parte caduto; da ciò tentativo di Engels e Marx e tentativi engelsiani, marxiani, engelsisti e marxisti; cui in Germania stessa prendeva atto ontologia di Heidegger ma constatandone realtà qual non alternativa passiva o realtà qual estraneità alienativa per una: altra non alienazione, e in entrambi i casi entità non enti filosofici e provvisoriamente entro, non in!, filosofia. Per tal entità, stile manifestativo era fondamentalità del pensiero poi totalità di esso; così non denotatività non era nientità.
In successione cui improntava stalinismo da esternità a filosofie e filosofemi, tal non denotatività era a sua volta antidenotatività, per antioccidentalità che stimava nullo il divenire politico sociale occidentale entro cui si mostrava anche divenire filosofico, cui rifiuto quindi era di radici stesse filosofiche, rifatte ma artefatte da posteriorità contemporanità ad anteriorità antichità non occidentali, da confucianesimo in Cina. Tal movimento, antimetafisico, antioccidentale, dunque trovava base ma in orientalità a sua volta scaturita da incontro di saggezza cinese con filosofare occidentale. Maoismo ne sfruttò l'evento evitando che si conoscessero le storie intrecciate, in momentarismo poi epocalismo, comunisti totalitari, ma Manifesto di Marx ed Engels fu esautorato in Cina, qual stessa nullità od altra ovvietà, maoismo finendo prima del potere di Mao, questo smentito ed assunto in forme esteriori politiche - sociali. Confucianesimo continuò in Cina qual anche filosofia di saggezza diplomatica, in Occidente essendo ricondottine maoismi ed anche i maggiori marxismi, cui panteismi-religiosismi smascherati qual estranei. Engelsiani ridavano impulsi a marxismo ma senza più forze culturali occulte; da Oriente iniziando rifiuto filosofico di marxismo-engelsismo e recupero di culture tradizionali. Beffa di "Stalin" e stalinisti però non erano per valori intellettuali conoscitivi... Dunque sistema engelsiano-marxiano e sistematizzazione engelsista-marxista furono inibiti con crollo di Regime di Unione Sovietica, cui Russia non contraria. Ma in Dopo Guerra Freddo e in Dopo Guerra Fredda restavano in Occidente vuoti culturali provocati da materialismo fondamentalista comunista totalitario. Tali vuoti, non più per quella criminale beffa che fu responsabile di morti e sciagure, erano dunque circostanze e situazioni relative e condizionanti. In tal evenienza, non per interezza di eredi di cultura filosofica era disponibile tradizione di tal cultura; mentre chi non accettava esito di Guerra, avversava ritrovamenti culturali in specie filosofici. Ciò preponderantemente fino ad anno 2012, quando Post Unione Sovietica terminò del tutto.

...


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

... Sorta di riassunto recensivo, offre nozioni ma in formulazioni storicamente dimidiate. Provvedo dunque a rimediare, per altrui necessità:


...Prima e durante eventi di Guerra Fredda e relativo Dopo Guerra, ateismo moderno in filosofia europea-occidentale era sprovvisto di intera conoscenza di filosofia araba medioevale; e quando polemica atea antireligiosa in particolare anticristiana, atei non facevano uso di dirette argomentazioni circa "Intelletto Uno" che essi intendevano qual 'unica intellettualità', cui "Intellighentia" di pensiero Sovietico non totalitario non era identica ma oggetto di ricerca filosofica essendone.
Forza argomentativa leninista, pareva di ateismo intollerante ma non ne era; e di vuoti culturali del Dopo Guerra, era tal intolleranza atea la matrice. Per chi costrèttone, pensiero dicibile "malato" non era di vera storia della filosofia, ma di falsa, cui falsarighe non solo parzialità, alfine davvero assommanti a scarsa vitalità prodromo di rischi di malattie in società e civiltà. Già stesso, non medesimo, mancamento, notava possibile S. Kierkegaard e provvedeva di descrizione filosofica intellettuale esistentiva di realtà di pre-malattia, che Egli medesimo non mancò di notare in suoi tempi sociali e luoghi civili esser di teismo non monoteismo ma già notandone Egli stesso sèguito di assolutezza atea; e per evitare o per non far compiere pre-malattia non essendo necessità di limitare mentalità e menti, anzi di evitarne limitare... ma sembrandone il contrario, era invece in comunismo totalitario tal forte antivitale limitare. Condizioni di pre-malattia furono da medici trovate qual precausalità di famigerata "sindrome da immunodeficienza acquisita", cui altre diagnosi di fatto già tra fine Secolo Decimo Nono e inizio Secolo Ventesimo, quando mediche prevenzioni più forti e attive; ma appunto diagnosi ripetute dopo ed anche trovando gli antecedenti fenomeni, di codesti con difficoltà ed esiguità fatti i referti medici cui contenuti purtroppo da opinioni pubbliche di massa accantonati o persino fatti accantonare ed ovviamente senza neanche dovuti riguardi. Tal distrazione, derivò da materialismo-oggettivismo diffuso massivamente da sistema totalitario comunista per eccesso di ottimismo su poteri di vita moderna e per illudersi su materialismo economico, senza cioè intenderne non superiorità ad ecologia basata su valutazione di materie ed energie naturali. A reagire in Occidente, soprattutto in Dopo Guerra, non solo poteri capitalisti ma specialmente liberal - conservativi, non senza ripensamenti da veri e propri sconfitti, tra cui non vero leninismo né Lenin.


MAURO PASTORE