lunedì 9 gennaio 2012

Calabrò, Paolo, Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne

Reggio Emilia, Diabasis, 2011, pp. 150, euro 15,00, ISBN 978-88-8103-753-7

Recensione di Georgia Zeami - 14/05/2011

Le cose non si osservano soltanto, né si analizzano astrattamente. Come recita una felice espressione di Raimon Panikkar che dà il titolo al bel volume di Paolo Calabrò, le cose si toccano: esse non solo sfregano costantemente l’una contro l’altra costituendo la trama composita del reale, ma di più ci vengono incontro nell’esperienza, ci riguardano da vicino. Calabrò rilegge l’intreccio tra filosofia e scienze attraverso l’eccezionale concezione cosmoteandrica del filosofo indo-catalano Raimon Panikkar. 


Secondo una simile concezione, poiché la realtà manifesta uno spettro chiaroscurale che innesta lo stesso concetto di verità in una dinamica di occultamento e rivelazione, è necessario operare una conversione della nostra prospettiva, e cioè oltrepassare i confini del nostro sguardo nudo (p. 65) attingendo a piene mani la trama complessa e dinamica del reale. Quando Panikkar si domanda “perché dopo tutto dovrei rifiutare ciò che ascolto o, per esempio, ciò che vedo con minore evidenza […] E non può darsi il caso che le cose ‘supreme’ e le più importanti siano al di là del campo visivo proprio al mio occhio nudo e limitato” (ibidem), egli denuncia uno strappo fecondo non tanto tra il piano dell’essere e quello dell’apparire – ché altrimenti ricadrebbe nell’errore che tenta di fuggire, e cioè il ripristino di un infausto dualismo tra cosa in sé ed apparenza –, quanto tra il pensiero razionale e l’essere. Affermando la non coincidenza “tra ontologia ed epistemologia” (ibidem), il filosofo indo-catalano libera l’essere dal vincolo del pensiero razionale, la scienza dalla presunzione, per altro smentita dal progresso stesso, di esaustività e i fenomeni unici e singolari dalla gabbia dell’incomprensibilità. È una lettura a tutto tondo quella compiuta da Panikkar della relazione che il pensiero intrattiene con le scienze, lettura di cui Calabrò riesce a mostrare le implicazioni speculativamente più ricche.
Se in base a una semplicistica contrapposizione, infatti, il rapporto tra la filosofia e le scienze sembra destinato a una irrimediabile opposizione, a un sguardo più attento – attento e puntuale come quello di Paolo Calabrò – esse appaiono, invece, quali tentativi di comprensione della realtà che non soltanto intersecano gli stessi sentieri, ma ne condividono, secondo la lettura di Panikkar, il sostrato mitico-simbolico. Il primo tassello per tentare di comprendere questa inedita visione del rapporto si fa chiaro fin dalle prime pagine del testo, in cui Calabrò mette in luce il presupposto che anima la riflessione di Panikkar. Muovendo dalla convinzione che tra pensiero ed essere non vi sia affatto, come voleva una certa filosofia a partire da Parmenide, una identificazione, ma una relazione tale per cui il pensiero non esaurisce la complessità dell’essere, il filosofo, noto soprattutto per aver avviato un fecondo dialogo tra le religioni, ritiene che se per un verso la realtà si apra alla comprensione del singolo – e dei singoli saperi –, per l’altro non si esaurisca nella singolarità dell’interpretazione. Se, insomma, ogni uomo è capace di afferrare la totalità della realtà che gli si fa innanzi, allo stesso tempo, però, il disvelamento della realtà mantiene nel singolo una sua parzialità. Alla base di questa visione gnoseologica si trova una strutturata teoria ontologica, in base a cui la realtà è intesa non in senso unidimensionale, ma relazionale e pluridimensionale. Il divino, il mortale e il terrestre costituirebbero non solo le parti di una totalità – impensabili, inconoscibili e insussistenti l’una senza l’altra –, ma le dimensioni di cui ogni essere sperimenta in proprio le profondità. Riproducendo uno dei motivi più tradizionali della storia del pensiero, e cioè l’idea che la trama della realtà possa sintetizzarsi nella triade dialettica a cui molti nomi sono stati attribuiti – “Dio, anima, mondo”, “Padre, figlio e spirito”–, Panikkar sfida la filosofia a mettere in questione i propri stessi fondamenti (identificazione tra pensiero ed essere, universalità, contrapposizione oggettivo-soggettivo). Intesa come organismo vivente, infatti, la realtà non si piega alla stabilità di una definizione univoca, né esaurisce le proprie potenzialità nelle maglie comprensive di una disciplina – ragione per cui è priva di senso una visione di filosofia e scienza in termini di reciproca esclusione – al contrario si sviluppa costantemente come materia viva. In tal modo la posizione di Panikkar, in contrasto con alcuni dei nodi decisivi del pensiero occidentale – che a sua volta appare stretto a doppia mandata con una concezione scientifica prequantistica ampiamente superata – interseca le più recenti posizioni della fisica contemporanea. Il sentiero che si snoda è, perciò, duplice: da un lato Panikkar critica duramente la scienza moderna, intesa prevalentemente come modalità sperimentale della conoscenza scientifica, e dall’altro converge con alcune delle più recenti acquisizioni della fisica contemporanea.
Se complessa è la visione del cosmo di Panikkar, non meno lo sono, infatti, le sue posizioni rispetto al ‘carattere diabolico’ della scienza moderna. Non manca di certo nel giudizio del filosofo sulla scienza moderna una semantica dura e assertoria che se sganciata dal contesto generale delle sue riflessioni – come Calabrò testimonia riportando alcune stoccate di Sanguineti (p. 53) – rischia di essere totalmente fraintesa. Nell’affermare ad esempio che la scienza è “perversa” o che “non è conoscenza nel senso tradizionale” (p. 41), Panikkar non intende condannarla in modo inappellabile, né misconoscerne gli aspetti positivi. Piuttosto l’intenzione è quella di mettere in luce un andamento che ha permeato la società occidentale attraverso il linguaggio della scienza sperimentale. Dinnanzi al vuoto della metafisica e della teologia, gli individui hanno creduto non solo di poter affidare alla scienza l’interpretazione di ogni aspetto della loro esistenza, ma anche di assegnarle il compito di realizzare le più umane aspirazioni di felicità, progresso e abbondanza. La perversione della scienza di cui parla Panikkar, insomma, “non è morale, ma relativa al linguaggio” (p. 44). Prova ne è l’imporsi della semantica scientifica ad ogni aspetto della vita, in base a cui, ad esempio, viene considerato il tempo in meri termini quantitativi o fisici, e cioè come “un contenitore vuoto da riempire in modo ottimale” (p. 13). Pur essendo incolpevole moralmente, la scienza moderna genera, tuttavia, un impoverimento morale, dal momento che prosciuga o devitalizza (p. 45), secondo l’espressione originale del filosofo, le risorse creative dell’essere umano. 
Alla radice della perversione della scienza starebbe il primato assegnato nella modernità al procedimento sperimentale – è bene, dunque, osservare che il giudizio del filosofo è rivolto alla manifestazione effettiva della scienza che si esplica a partire dalla modernità. Inteso “essenzialmente come possibilità di dominio e di calcolo” (p. 51), l’esperimento non rivelerebbe affatto la natura delle cose, ma la stravolgerebbe. Da qui una netta contrapposizione tra la visione avvolgente dell’esperienza, che calando interamente il soggetto nelle trama della realtà comporrebbe all’unisono elementi distinti, quali la singolarità del vissuto, la memoria, l’interpretazione e il contesto culturale e ambientale (p. 52), e la visione fittizia e virtuale dell’esperimento scientifico che, di contro, isolerebbe il fenomeno da osservare dal contesto mondano – relegandolo, insomma, tra le mura di un laboratorio – ritenendo di trovar delle leggi immutabili, laddove, invece, la natura mostra un’eccedenza e una dinamicità resistente alle formule fisse. Forte della presunta oggettività del sapere scientifico, la perversione moderna degenera nella contemporaneità in volontà di universalizzazione della tecnologia e della mentalità scientifica al mondo intero. Il giudizio di Panikkar è estremamente duro in proposito – e nitido è il resoconto che di questa posizione fa Calabrò. Dietro la facciata politically correct della divulgazione universale del progresso e della globalizzazione del sapere si nasconde, infatti, come già una certa filosofia contemporanea aveva profetizzato, l’intenzione di occidentalizzare il mondo. È necessario guardare gli eventi in modo critico e disincantato, ci sembra di poter dire sintetizzando la posizione di Panikkar, e cioè saper leggere anche in quelle azioni apparentemente più nobili, come la lotta per l’alfabetizzazione, il rovescio della medaglia, che in questo caso potrebbe coincidere con “il genocidio delle culture orali” (p. 56). 
È il caso ancora della critica all’universalismo rispetto a cui il contributo di Panikkar rivela implicazioni troppo spesso ignorate da una certa tendenza alla globalizzazione che sacrifica sull’altare dell’integrazione lo specimen delle diverse culture. Da qui la doverosa differenza tra valori interculturali, e cioè principi che mutatis mutandis compaiono nelle diverse culture, di cui è giusto affermare la positività, e valori transculturali, intesi, a ragione, come astrazioni prive di fondamento, rispetto ai quali bisognerebbe indossare l’abito della “imprescindibilità del proprio punto di vista” (p. 70). Il rinvio ai punti di vista particolari non è, però, da intendersi come chiusura rispetto alla ricchezza di ciò che sta fuori, ma come riconoscimento di un’alterità inviolabile e irriducibile all’io. Quest’ultimo, a sua volta, non è inteso da Panikkar come monolite che interseca accidentalmente l’altro, ma come il punto d’incontro di relazioni in costante divenire. Definendo criptokantismo (p. 74) ogni concezione che isoli gli ‘oggetti’ e/o i ‘soggetti’ dall’interazione reciproca, il filosofo reputa, perciò, l’idea dell’esistenza della cosa in sé priva di senso a livello ontologico – sebbene ne riconosca il senso a livello gnoseologico come esigenza della mente “che ha bisogno di pensare e calcolare” (ibidem) –. “Che la cosa in sé non esista” – scrive Calabrò – “non è una questione di prospettiva filosofica o ermeneutica, ma un dato di fatto attestato dalla scienza. La cosa in sé non è mai stata indicata o sperimentata da nessuno”. E poco dopo: “per la sua stessa definizione […] non potrà mai essere sperimentabile, nell’atto in cui tale cosa in sé toccasse un qualsiasi strumento di misura, nello stesso attimo cesserebbe di essere ‘in sé’ per diventare ‘con lui’” (p. 76). Ora, sebbene la questione della cosa in sé sia senz’altro controversa, ci pare tuttavia insufficiente la ricusazione di Calabrò, il quale si appella ora alla veridicità della sperimentazione, poco prima, e giustamente, accusata di stravolgere la natura delle cose, per dimostrarne l’inesistenza. Un simile argomento rischia di tradire proprio quel presupposto che anima la riflessione di Panikkar e cioè che forse le cose supreme oltrepassano la nudità dello sguardo o la chiarità del dato di fatto. Affrettandosi a chiarire in nota che il problema di dimostrarne l’esistenza riguarderebbe, semmai, chi ne afferma la veridicità (p. 79), Calabrò assolve con troppa leggerezza, a me pare, dalla responsabilità di una ricusazione i detrattori della cosa in sé, i quali, invece, basti citare Hegel per tutti, hanno ritenuto la questione degna della massima attenzione. 
Sono altri gli argomenti convincenti della posizione di Panikkar e, perciò, del lavoro di Calabrò che, nell’incalzare delle pagine, indica nella dirompente ipotesi ontologica in base a cui “essere è un verbo e non un sostantivo” (p. 91) il vero punto archimedeo di una svolta filosofica. Solo mutando, infatti, il presupposto della filosofia – quel sostrato mitico-simbolico in base a cui l’essere è inteso come sostanza – è possibile incamminarsi su sentieri nuovi. Non si tratta, insomma, di ricusare il grande mito dell’oggettività e dell’universalità, ma di proporne di nuovi o riproporne di più antichi. Le une al fianco delle altre, nel rispetto di un’alterità capace di contenere davvero, e magari al proprio interno, la differenza, le varie prospettive filosofiche e scientifiche, sorrette da diverse configurazioni mitico-simboliche, potranno rimandare alla trama complessa del reale. Come nell’esecuzione di un brano musicale i componenti dell’orchestra, pur nella differenza dei ruoli e degli strumenti, concorrono alla creazione di un’unica sinfonia, allo stesso modo gli individui, filosofi e scienziati, possono prendersi cura della terra su cui abitano coltivandola e rendendola feconda, come suggerisce una poetica immagine di Panikkar (p. 95), offrendo ognuno il proprio personale, individuale contributo.


Indice: 

Prefazione, di Pietro Barcellona
Introduzione 
Parte prima 
1. Cosmoteandrismo 
2. Il mito e il simbolo: l’approccio alla realtà 
3. Pluralismo e verità 
4. Una filosofia contro la scienza? 
Parte seconda 
1. Pensare ed essere 
2. Critica dell’universalità 
3. Critica della “cosa in sé” 
4. Critica dell’oggettività 
5. Oggettivo e simbolico 
6. Il ruolo della soggettività 
7. Vitello d’oro 
8. La libertà della materia 
9. Anima mundi 
10. Il pensiero modifica il pensato 
11. Il tutto è maggiore della somma delle parti 
12. Teofisica: un progetto
Conclusione 
Bibliografia

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