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martedì 26 gennaio 2016

Vassallo, Nicla, “Il matrimonio omosessuale è contro natura” (falso!)

Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 140, euro 9, ISBN 978-88-581-1725-5

Recensione di Alessandro Bruzzone - 24/04/2015

In un fortunato pamphlet, L’arte di ottenere ragione, Arthur Schopenhauer definisce la dialettica (la dialettica eristica, precisamente) come l’arte di disputare ottenendo ragione con qualsiasi mezzo; compresi quelli che, programmaticamente, mirano a confondere la discussione o irridere l’interlocutore. Forse inconsapevolmente, di sicuro in barba a una tradizione ben più antica e consolidata (quella iniziata da Socrate, che intende la dialettica piuttosto come arte della chiarificazione concettuale), buona parte degli “esperti” nei dibattiti pubblici odierni (dalla politica ai media, e persino nelle università e nel 

lunedì 8 settembre 2014

Vassallo, Nicla, Conversazioni

Intervista di Anna Longo, illustrazioni di Francesca Biasetton, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 106, euro 10, ISBN 9788857511924

Recensione di Carla Fronteddu - 17/12/2012

“Si cresce dialogando” (p. 13), afferma la filosofa Nicla Vassallo, che dialogando con la giornalista e amica Anna Longo ha dato vita a Conversazioni, un agile testo di divulgazione del suo pensiero filosofico.
L'ambizione divulgativa del testo pone immediatamente un interrogativo: è possibile trasmettere un sapere altamente specialistico a un grande pubblico? Vassallo riconosce la posizione di molti colleghi che ritengono che la filosofia debba essere praticata solo tra le mura universitarie

giovedì 3 novembre 2011

Vassallo, Nicla, Per sentito dire. Conoscenza e testimonianza

Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 156, euro 17, ISBN 978-88-07-10467-1

Recensione di Daniela Di Dato - 07/07/2011

Una società globalizzata e informatizzata come la nostra richiede una conoscenza ampia ed approfondita dei mezzi e dei meccanismi con i quali vengono diffuse notizie di fatti ed eventi o inviati non meno importanti messaggi culturali e politici, essenziali nella vita democratica di un paese.
La conoscenza si basa su una fonte conoscitiva attualmente inesauribile e potenziata da molteplici strumenti che ci offrono la testimonianza di tutto ciò che ci circonda e ci riguarda. 


domenica 19 aprile 2009

Nicla Vassallo (a cura di), Donna m'apparve,

Codice Edizioni, Torino 2009, pp. 168, € 18,00 , ISBN 978-88-7578-125-5.

Recensione di Denise Celentano - 19 aprile 2009

Donne, stereotipi, sessismo, individualità, sesso, genere

Il libro rappresenta una risposta filosofica a più voci a stereotipi e modelli culturali che storicamente hanno espropriato le donne della loro soggettività, perpetrati attraverso il senso comune, i paradigmi scientifici e filosofici e il linguaggio stesso.
Partendo da tre prospettive tematiche (l’io, il rapporto con gli altri, il rapporto col mondo) il libro segue due esigenze teoriche di fondo: da una parte, la critica all'essenzialismo attraverso la promozione di un ‘pluralismo femminile’ rispettoso delle singole identità delle donne; dall'altra, il bisogno di sconfessare tutti quei clichés normativi che vorrebbero intrappolare le donne nella donna.
Diviso in sette capitoli scritti da autrici diverse, con un prologo e un epilogo di Nicla Vassallo, il testo si caratterizza per una struttura che rende giustizia ai concetti rivendicati: pluralismo e rispetto delle individualità.
Nella ricchezza degli spunti, è possibile rintracciare alcuni nuclei tematici essenziali..
Irrazionali. "Dato che in termini aristotelici a distinguere gli animali umani (ovvero gli esseri umani) dagli animali non umani è proprio la razionalità, ne segue banalmente e rischiosamente che, se sono irrazionali, le donne non sono esseri umani" (pag. 9): la rappresentazione sancita da Aristotele in campo filosofico sarà destinata a percorrere la storia della filosofia per i successivi millenni. La donna, emotiva, irretita nella natura, nella soggettività e nell’irrazionale, meriterebbe così un’estromissione dal sapere cui Vassallo attribuisce i caratteri della violenza: epistemologica, là dove le esclude come oggetti di conoscenza, epistemica, quando nega loro lo status di soggetti conoscenti (pag. 12).
Come osserva la curatrice nel Prologo, queste opinioni consolidate hanno la stessa consistenza filosofica di superstizioni e credenze, entrambe noti esempi di irrazionalità: curiosamente, la stessa caratteristica che si voleva attribuire alle donne. Ma “nel tentativo di rimediare, sarebbe erroneo rinunciare al concetto di razionalità” (pag. 8) che porterebbe di nuovo a un irretimento nell’irrazionale, dunque si rivela più proficuo mettere in discussione l’idea di razionalità che la storia della filosofia ci ha consegnato, liberandola dalla sua astrattezza. È quanto ciascun capitolo a suo modo si propone di fare, individuando nella necessità di riportare il pensiero alla concretezza un valido antidoto contro le persistenti rappresentazioni essenzialiste sulle donne.
Diffidenti verso tutto quanto non corrispondesse al loro modello di ragione, i filosofi hanno ricondotto l'empatia nella sfera dei sentimenti, fatta coincidere col femminile, sottodeterminandola indebitamente (mentre la razionalità, la cultura, la politica sarebbero appannaggio degli uomini). Al contrario, osserva Laura Boella, si tratta di un’idea "molto superficiale”(pag. 64): come mostra la fenomenologia, l’empatia “non è per definizione ‘buona’ (...) il suo esito può essere la prossimità, ma anche l'estraneità" (ivi), poiché "empatizzare non significa assimilare l'altro/a a sé o immedesimarsi in lui/lei, bensì attribuirgli/le un'esperienza autonoma e distinta" (pag. 54). Queste componenti liberano l’empatia dall'ambito del sentimento, rivelandone l’importanza non solo sul piano relazionale, ma anche sul piano cognitivo dell'autocoscienza, specie nell’accessibilità del diverso cui apre la possibilità con l'ausilio di quella capacità di superare i confini della percezione che è l'immaginazione, in uno "sperimentare se stessi al di là dei propri confini" (pag. 62), che è in definitiva il modo migliore per sottrarsi agli stereotipi e a rappresentazioni fuorvianti dell'altro, quindi anche della donna.
Natura. Il concetto di natura riveste un ruolo chiave nella riflessione critica delle autrici, consapevoli che l'operazione tradizionale di presentare come naturale ciò che ha una genesi culturale, porta a conferire i caratteri di ineluttabilità e necessità a dei modelli di donna che riconoscere come culturali renderebbe suscettibili di una messa in discussione. Parlare di natura, infatti, equivale a parlare di destino, della necessità irrevocabile che contraddistingue i fenomeni naturali dal mondo umano, morale, libero e aperto alla scelta, che pertiene all'uomo. Non a caso Francesca Rigotti conclude con un invito a pensare contro natura il suo capitolo sui rapporti tra maternità e filosofia. È infatti nel concetto di maternità che la parola ‘natura’ rivela un valore chiave: la natura in senso biologico, intesa come quell'insieme di caratteristiche fisiche che distinguono i sessi. La storia segnata dall'androcentrismo ha trasformato le caratteristiche riproduttive delle donne nelle loro caratteristiche essenziali, dando luogo a quella ingiustificabile equazione tra donna e madre che la distinzione tra “sesso” e “genere” introdotta dal femminismo ha contribuito a sfatare.
Madri: sul “partorire figli e idee”. È vero che "chi fa la scienza non fa figli" (pag. 122)? Come noto, l'alternativa ha sempre solo riguardato le donne, mai gli uomini. Ma, invita a pensare Rigotti, si tratta necessariamente di un aut-aut? Se la filosofia così come venne dipinta da Seneca o Platone, e come l’etimo della parola ‘astrazione’ suggerisce, è un'attività per uomini liberi da svolgersi in un tempo dilatato e senza interruzioni, al di sopra del ‘concreto’, come può conciliarsi con la cura di figli bisognosi di costanti attenzioni e completamente dipendenti? “Per fortuna la filosofia non corrisponde per natura o essenza a tale definizione"; "come non c'è una ‘natura umana’ e tanto meno una ‘natura della donna’, non c'è nemmeno una ‘natura della filosofia’, qualcosa che la filosofia sia ad aeterno e una volta per sempre" (pag. 43).
Muovendo dall'ipotesi di un parallelismo tra forme di vita e forme di conoscenza, Rigotti rintraccia nelle proposte teoriche di Sara Ruddick una linea interpretativa capace di fare della maternità uno ‘stile di pensiero’ adottabile anche da chi madre non è. L’amore e l’attenzione - intesa "come metodo di comprensione delle cose, da guardare appunto con intensità e attenzione finché non ne zampilli la luce" (pag. 38) - ne sarebbero i cardini, dal momento che l’esperienza (reale o immaginata) della maternità costituirebbe una fonte di particolari stimoli cognitivi; il rischio di una deriva essenzialista viene però scongiurato: “importante non è quello che le madri sono bensì quello che le madri fanno” (pag. 35).
Diversità. Come osserva Eva Cantarella nel primo capitolo, la storia ha costantemente rappresentato le donne in termini di diversità corporea, mentale, caratteriale, che ha fatto presto a tradursi in inferiorità ("la sola ragione che potevano possedere era la métis, l'intelligenza astuta, diversa e inferiore", (pag. 23)). Questa è stata rappresentata dalla mitologia greca ancor prima che i filosofi la consacrassero alla storia in forma teorica, rintracciando nella figura di Pandora non solo l’origine dell’infelicità umana ma anche l’inizio del genere femminile. In seguito, molti filosofi hanno accostato spregiativamente le donne al mondo animale, scorgendo in esse la sola funzione biologica della riproduzione sebbene mai dimentichi di attribuire all’uomo il ‘vero’ potere della generazione. L’effetto più immediato di ciò è stato, fra gli altri, quello del controllo della sessualità della donna all’interno di una polis che riflette nello spartiacque pubblico e privato le differenze tra uomini e donne, in quel contesto consegnate irrevocabilmente all’istituto del matrimonio e al rispetto della monogamia, in una subordinazione all'uomo ormai sancita dalla legge. Da allora, il concetto di diversità femminile conoscerà un primo riscatto solo col femminismo, quando “la teorizzazione della differenza non è stata più tradotta inesorabilmente in svalutazione del femminile” (pag. 23).
Relazioni. Costante nelle filosofie femministe è il tentativo di riscattare la corporeità e le relazioni umane dall'oblio di una storia della filosofia tradizionalmente votata all'astrattezza e al solipsismo del soggetto morale. È quanto discute nel quarto capitolo Claudia Mancina, proponendo una panoramica degli ultimi sviluppi della filosofia morale che hanno visto contrapporsi l'etica femminista alla teoria della giustizia rawlsiana intorno ai concetti di "esperienza, relazione, responsabilità, cura" (pag. 67). Pur condividendo col comunitarismo la critica all’atomismo del soggetto di Rawls, le analogie col femminismo non vanno oltre perché esso non comprende nel concetto di relazione i rapporti affettivi, che l’etica femminista ha mostrato essere così importanti nella costituzione del senso morale del singolo. In questo si evidenzia l'eredità della dicotomia tradizionale fra pubblico e privato che i comunitaristi omettono di criticare, e anzi confermano: essa ha portato per secoli a sottodeterminare l'ambito del privato, fatto di relazioni affettive e di cure ritenute meramente ‘naturali’, quasi che non rivestissero alcun ruolo nella genesi della moralità del soggetto. È dunque possibile rivalutare la corporeità da un punto di vista epistemologico e morale riconoscendo che "un corpo non è pura biologia, ma un campo di interazione di forze culturali e sociali" (pag. 72), ed è a partire da ciò che è possibile divincolare la procreazione dalla sua pretesa naturalità per riconoscervi la valenza morale e umana che invero possiede. Di qui la proposta di una ‘teoria relazionale dell'io’ (per certi versi analoga a quella proposta da Botti, 2007), critica verso l'astrattezza e l'individualismo nella filosofia, a favore di una moralità più situata, critica verso il concetto di "autonomia come indipendenza" (pag. 81). La riconosciuta valenza morale di quello che tradizionalmente veniva definito il ‘privato’ emerge in particolare nella questione dell'aborto: la donna, lungi dal rapportarsi al suo feto in nome di un'etica universalistica o di un qualche principio razionale, opera un autentico processo di ponderazione in relazione al suo contesto affettivo e personale, che sfocia in una scelta che ha tutte le caratteristiche della scelta morale.
Linguaggio e potere. Riflettere sul nesso tra linguaggio e potere maschile rappresenta un momento di ricognizione fondamentale per le femministe, che nelle loro analisi hanno svelato la falsa neutralità con cui le parole depositano le asimmetrie di genere. Quanto agli usi linguistici, Claudia Bianchi presenta criticamente le diverse posizioni che si sono distinte sul tema nell'ultimo secolo: il modello del deficit, per il quale le donne parlerebbero un linguaggio inferiore e deficitario rispetto a quello degli uomini; il modello del dominio, secondo cui il linguaggio è una manifestazione del potere patriarcale, tanto pervasivo da impedire l'articolazione di "immagini alternative del mondo" (pag. 91); il modello della differenza, che vede i due sessi caratterizzati da "aspettative discorsive diverse" (pag. 92), quindi da stili di conversazione diversi, quello femminile cooperativo e paritario, quello maschile gerarchico e competitivo; il modello dinamico, che rifiuta la facile opposizione tra identità maschile e identità femminile, e teorizza una intrinseca mutevolezza dell'identità di genere, pensando al linguaggio nella sua "dimensione performativa, di azione e non di semplice espressione" (pag. 94), in virtù del fatto che "il genere non è qualcosa che possediamo, ma qualcosa che facciamo" (pag. 94).
Soltanto un'integrazione tra i modelli può portare a ovviare ai limiti di ciascuno, come evidenzia l'autrice, che conclude: "gli stereotipi sono il punto di partenza di molti lavori su linguaggio e genere, anche di quelli che si propongono di refutarli" (pag. 98) tanto da realizzare una "sostanziale conferma degli stereotipi" (ivi); ne risulta significativamente che "enfatizzare le differenze può essere allora una reazione alla paura di vedere destabilizzate le identità di genere" (pagg. 98-99).
Donne e scienza. L'oggettività è quel requisito ritenuto indispensabile per praticare la scienza, teso ad espungere dalla ricerca qualsiasi elemento che potrebbe contaminarla, comportando una radicale omissione degli interessi, del contesto storico-culturale, dei valori morali, della propria soggettività per rapportarsi impersonalmente alla realtà. Per questo motivo, osserva Alessandra Tanesini, sembrerebbe quasi incompatibile col femminismo, portatore di interessi e valori particolari. Tuttavia è possibile sciogliere la contraddizione formulando un nuovo concetto di oggettività, consapevoli che il suo significato è cambiato nei secoli, quindi forse "è possibile pensare che il modo contemporaneo di concepire questa nozione non sia necessario" (pag. 104), di conseguenza anche le relative concezioni femministe potrebbero sostituire il modello vigente. Il femminismo, attraverso la figura di Haraway, ha visto nell’oggettività un'‘illusione’ capace di generare una pretesa "di onniscienza e infallibilità" tale da rendere "il soggetto cieco di fronte ai propri pregiudizi" (pag. 108), poiché la conoscenza è parziale - nel doppio senso di incompleta e non imparziale - e credere il contrario può portare a una falsa coscienza nello scienziato. Si apre allora la possibilità di ripensare l'oggettività, rivalutando i cosiddetti "vantaggi della parzialità" (pag. 112): riprendendo un'idea marxiana, si può sostenere che gli individui di classi sociali svantaggiate vedano meglio gli aspetti oppressivi del sistema e siano privilegiati dal punto di vista epistemologico rispetto alle classi avvantaggiate. Pur nell'imperfezione della proposta, resta importante avanzare dei modelli alternativi al modello dominante di oggettività che benché si presenti come "la forma suprema di neutralità è invece maschile" (pag. 112).
Sesso e genere. Prima di affrontare sul piano teoretico la questione del rapporto fra donne e scienza, le femministe vi si sono confrontate su un piano storico, focalizzando sui fattori che per secoli le hanno allontanate dai circoli scientifici costituiti da uomini che ne hanno sottovalutato o ostacolato le prestazioni, dando forma a una prassi fedele al luogo comune per cui le donne non sarebbero "brave in matematica". Sorge così un interrogativo: le donne in quanto donne fanno scienza in modo diverso dagli uomini? Per Garavaso, le basi concettuali che giustificherebbero tale "privilegio epistemico" (pag. 127) consisterebbero nella prospettiva essenzialista e nel determinismo biologico, entrambe insostenibili: in primo luogo, "nessuno è mai solo una donna o un uomo, ciascuno di noi vive molte identità" quindi l'essenzialismo, che pretende di spiegare le differenze presunte o reali tra i sessi, si rivela indebitamente semplificatorio, poiché, come afferma Vassallo nell'Epilogo, "ci costringe ad appellarci ad un'oscura entità, la donna, entro cui costringere a ogni costo le tante differenze tra donne e varietà di donne, per sconfessarle o addirittura cancellarle"(pag. 142); mentre il determinismo biologico, per il quale sarebbe il sesso a determinare nelle donne delle caratteristiche cognitive diverse, non riesce a spiegare le così tante ‘eccezioni’ di donne che hanno contribuito significativamente al progresso scientifico e culturale. Di qui la nozione di genere, per Garavaso "il prodotto più importante dell'elaborazione teorica femminista" (pag. 124) poiché vede "un processo di indottrinamento culturale" là dove la tradizione ha visto un determinismo biologico. Come suggerisce Vassallo, se si finisce col vedere nel sesso un fattore determinante nella definizione dei tratti cognitivi e comportamentali, "si finisce con il dover cedere anche alla tesi razzista secondo cui le razze sentono, pensano e conoscono in modo differente" (pag. 138), quindi alla tesi classista, alla tesi eterosessista e via dicendo."In fondo, la donna non è che pura apparenza, una finzione al servizio dell'androcentrismo (...), uno strumento normativo utile per costringere gli esseri umani a comportarsi in determinati modi, per legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre" (pag. 142).

Indice

Prologo
Così fan tutte di Nicla Vassallo
L'io
Capitolo 1
Essere diverse di Eva Cantarella
Capitolo 2
Essere madri di Francesca Rigotti
L'io e l'altro
Capitolo 3
L'empatia di Laura Boella
Capitolo 4
Il bene di Claudia Mancina
Capitolo 5
La parola di Claudia Bianchi
L'io e il mondo esterno
Capitolo 6
Oggettività di Alessandra Tanesini
Capitolo 7
Scienza di Pieranna Garavaso
Epilogo
Donna m'apparve di Nicla Vassallo
Bibliografia
Le autrici
Indice dei nomi


La curatrice

Nicla Vassallo è attualmente professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo Filosofia delle conoscenze (Codice edizioni, 2006), Filosofia delle donne (Laterza, 2007) e Knowledge, Language, and Interpretation (Ontos Verlag, 2008). Scrive regolarmente su Domenica, il supplemento culturale del quotidiano “Il Sole-24 Ore”.

lunedì 5 novembre 2007

Garavaso, Pieranna - Vassallo, Nicla, Filosofia delle donne.

Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 174, € 10,00, ISBN 9788842082361

Recensione di Barbara Romagnoli - 05/11/2007

Donne, femminismi, metafisica, epistemologia

Un saggio scritto a quattro mani con l’intento di farsi carico di quel dovere di cui parlava Virginia Woolf nel secolo scorso, ossia continuare a porre domande e ricercare risposte che possano trasformare e migliorare “la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne”. Per farlo è necessario che si tenga conto dell’autorevolezza della parola femminile e soprattutto che la “filosofia delle donne” sia presa in seria considerazione da quella tradizionale affinché possa nascere un dialogo fecondo e costruttivo per entrambe le prospettive di ricerca.
Pieranna Garavaso e Nicla Vassallo in una sorta di introduzione al loro agile testo spiegano chiaramente, già dalle prime righe, in che maniera intendono dipanare e sciogliere la tela di Penelope, quel lento fare e disfare che è divenuto simbolo di un lavoro che non ha mai fine. Bastano poche parole alle due autrici per mostrare perché ha senso parlare di filosofia delle donne, in che modo si fa e quali sono gli spunti più interessanti e costruttivi.
“Una filosofia delle donne è una filosofia in cui le donne parlano da protagoniste, è un discorso fatto da loro e che a loro appartiene; in essa le donne sono i soggetti del dialogo. È anche una filosofia sulle donne, che parla delle donne e degli argomenti che a loro interessano, in cui il mondo femminile diviene oggetto del discorso”, perché “è necessario produrre una filosofia delle donne, una filosofia che presti attenzione a come e a cosa pensano molte donne” (pag. 4-7).
Se infatti è indubbio che alle donne è stata preclusa per secoli la possibilità di dire la loro, è altrettanto evidente che “per cambiare un ambito di studio e renderlo più accessibile a gruppi sociali finora esclusi non basta aggiungervi qualche rappresentante degli esclusi e mescolare il tutto. Per un cambiamento autentico è necessario che si metta in atto un ripensamento profondo della disciplina stessa, chiedendosi se le metodologie usate finora siano accessibili a tutti e ugualmente fruibili e, se non lo sono, essere disposti a sostituirle o modificarle” (pag. 7).
Questo mutamento dello sguardo sulla e nella filosofia tradizionale, fatta a immagine e somiglianza degli uomini, è avvenuto certamente grazie alla moderna critica femminista che segnato un distacco con il pensiero precedente. Anche se non mancano nella storia dell’umanità figure di donne che hanno tentato di prendere parola sul mondo, si è dovuto aspettare la “rivoluzione” femminista per vedere agire un radicale distacco dalle opinioni filosofiche che hanno forgiato la modernità, almeno quella occidentale. Come sottolineano le due autrici ciò è avvenuto perché una delle novità delle filosofie femministe è la loro “interdisciplinarietà”, che è anche uno dei motivi per cui sembra difficile studiarle. Le riflessioni femministe muovono critiche feconde all’etica, introducendo la nozione di relazioni di cura, e alla filosofia del linguaggio, mettendo in luce i pregiudizi sessisti e patriarcali che sottendono al linguaggio.
Sono teorie che nascono dalla consapevolezza della differenza di genere, non in chiave essenzialista, ma più nel senso “performativo” suggerito da Judit Butler. Ossia considerare la differenza sessuale non come qualcosa di dato e fissato una volta per tutte - e magari riproporre una rappresentazione del sesso femminile speculare a quello maschile – ma invece tenere conto dei codici sociali e culturali che influenzano la costruzione del genere stesso e che producono “aspettative, reazioni e comportamenti”.
Questo nuovo posizionamento rispetto alle dinamiche tra i sessi, permette di mettere in discussione due ambiti fondamentali della riflessione filosofica generale: la metafisica o scienza dell’essere e l’epistemologia o scienza del sapere. Nel primo caso le teoriche femministe si chiedono se esista o meno una essenza donna e come è possibile conciliare una essenza comune con la singola identità di ognuna. Sul piano epistemologico invece si tratta di considerare le donne come soggetti conoscenti e cercare di capire se è possibile avere una prospettiva oggettiva.
Il testo di Garavaso e Vassallo, nella seconda e terza parte, interroga questi due ambiti sia attraverso una rilettura delle tematiche della tradizione sia analizzando le critiche e i nuovi concetti ai quali hanno lavorato diverse teoriche femministe. In particolar modo le autrici si sono mosse nella prospettiva analitica della filosofia di matrice anglosassone, ma hanno accolto anche diverse altre suggestioni (a riguardo è molto utile sia la bibliografia che i percorsi di lettura suggeriti a fine saggio).
Nel ragionare attorno alle tematiche della percezione del sè e della costruzione dell’identità, si evidenzia come la maggiore rottura del femminismo contemporaneo sia stata determinata dall’aver introdotto nella definizione del sé il suo essere corporeo, relazionale e narrativo. Al dualismo e individualismo del cogito cartesiano si risponde con una nozione che tiene conto della fondamentale importanza della materialità del corpo nella costruzione di sé e di un soggetto che pur autonomo e autodeterminato è fortemente radicato nel contesto sociale in cui vive e in cui si sviluppa.
Diventa così essenziale il sé narrativo, riferendosi al fatto che “la nostra identità sia costituita da una narrazione diacronica dei fatti della nostra vita”, quasi una sorta di autobiografia dove il sé costruisce se stesso “narrando la propria storia” (pag. 40). Muovendo da questa prospettiva le autrici affrontano la questione della conoscenza, di come la filosofia tradizionale abbia trattato le donne sotto il profilo conoscitivo ma anche di come sia necessario e possibile dare rilievo alle “dimensioni sociali della conoscenza”, così come è stato maggiormente evidenziato dalle teoriche femministe.
Garavaso e Vassallo entrano nel merito di alcune domande cruciali che sorgono nel dibattito contemporaneo, ad esempio ci si chiede che valore dare alle epistemologie femministe. Secondo le autrici, queste hanno senso se la nozione di genere diviene “l’ingrediente di primaria importanza, o perlomeno uno dei principali, nella affermazioni di conoscenza”. Ciò significa da un lato tenere conto, per evitare derive essenzialiste, che possano esistere molteplici generi; dall’altro, per scartare semplici generalizzazioni e dare spessore alle differenze, si tratta di ribadire che “nonostante siano differenti, le donne rimangono accomunate dal fatto di vivere in società sessiste, maschiliste e patriarcali” e che se è vero che “donne diverse hanno esperienze cognitive diverse (…), è altrettanto vero che ogni donna sperimenta su di sé una qualche forma epistemica di sessismo, maschilismo e patriarcato”. Questo può essere rivendicato solo a partire dalla tesi di fondo delle epistemologie femministe, ossia la socialità del soggetto conoscente, sia esso maschio o femmina, e l’interdipendenza epistemica, che non può essere sottovalutata, anzi “il contributo originale che una filosofia delle donne può apportare alla filosofia tradizionale consiste in una difesa più argomentata e in una comprensione più profonda della dimensione sociale dell’esistenza umana” (pag. 98).
Garavaso e Vassallo, in un’epoca complessa in cui si parla anche di morte dei femminismi, hanno messo a confronto con cura, facendole financo dialogare dove era possibile, la tradizione filosofica con le nuove correnti di pensiero femministe, utilizzando uno stile narrativo insolito per un saggio di filosofia. Il testo è infatti popolato di “protagonisti e protagoniste” che appaiono, mediante l’uso di nomi propri di donne e uomini, a mo’ di esempio non tanto di “eccezionalità” quanto per stimolare la voglia di conoscenza e la curiosità di entrare in contatto con altre storie di vita.
Accanto al noto Immanuel (Kant) c’è Vita (Sackville West), conosciuta forse solo dagli addetti ai lavori, ma soprattutto altre donne, comprese le autrici, che hanno avuto quella “stanza tutta per sé”, necessaria per conoscere e riflettere a partire dal proprio posizionamento di genere, perchè “c’è bisogno di una filosofia delle donne innanzitutto per le donne, per l’altra metà del genere umano. Ma c’è anche bisogno di una filosofia delle donne per la filosofia stessa, perché essa necessita di rappresentare la più ampia varietà possibile di punti di vista”.

Indice

La tela di Penelope
L’identità delle donne
La conoscenza delle donne
Una stanza tutta per sé
Cos’altro leggere
Bibliografia
Ringraziamenmiti
Protagoniste e protagonisti
Le autrici
Indice dei nomi


Le autrici

Pieranna Garavaso è professoressa ordinaria di Filosofia presso l'Università del Minnessota, Morris. Si interessa di filosofia della matematica e del linguaggio, con particolare attenzione alle critiche femministe alla filosofia della scienza.

Nicla Vassallo è professoressa ordinaria di Filosofia della conoscenza presso l’Università di Genova e visiting professor di Epistemologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Autrice di numerosi volumi e pubblicazioni in italiano e inglese, ha recentemente curato Filosofia delle conoscenze  (Torino 2006). Fa parte del Consiglio Scientifico del Osservatorio Nazionale sulla Salute della donna e del Festival della scienza. Scrive regolarmente su Domenica, il supplemento culturale de Il Sole-24 Ore. Tra i suoi interessi di ricerca ricordiamo, oltre la filosofia della conoscenza e l'epistemologia, le filosofie femministe, la metafisica, la storia e la filosofia della logica, il naturalismo filosofico e lo scetticismo.

giovedì 9 novembre 2006

Vassallo, Nicla (a cura di), Filosofia delle conoscenze.

Torino, Codice edizioni, 2006, pp. 114, € 15,00, ISBN 88-7578-056-0.

Recensione di Margherita Di Stasio – 09/11/2006

Epistemologia, estetica, filosofia della religione, filosofia della scienza, etica.

La quarta di copertina riporta un'affermazione di Luigi Luca Cavalli Sforza: «Un libro per chi desidera riconciliarsi con la filosofia.» E questo è forse il modo migliore per descrivere questa raccolta a cura di Nicla Vassallo. Filosofia delle conoscenze offre, grazie all'altissimo livello dei saggi che raccoglie, uno sguardo tanto ampio quanto puntuale su un panorama epistemologico in cui ai problemi legati alle modalità con cui si può conoscere si affianca la disamina delle nostre possibilità di conoscenza nei principali ambiti della vita. Il prologo, Non può morir chi al saver s'è dato, e l' epilogo, Intrecci, ambedue della Vassallo, costituiscono la cornice entro cui si inseriscono quattro contributi su temi specifici: Conoscenza estetica di Maurizio Ferraris, Conoscenza religiosa di Christopher Hughes, Conoscenza scientifica di Giulio Giorello e Conoscenza etica di Eugenio Lecardano.
In Non può morir chi al saver s'è dato la Vassallo, con la chiarezza e la semplicità che contraddistinguono questa studiosa nel trattare il complesso e sfaccettato tema della teoria della conoscenza, su cui probabilmente è oggi la voce italiana più competente, introduce il lettore ai problemi fondamentali dell'epistemologia fornendo gli strumenti e gli spunti di riflessione per affrontare adeguatamente i contributi che seguono. Fra tre tipi di conoscenza di cui si precisa la distinzione - «la conoscenza diretta (per esempio “conosco Leonarda”), la conoscenza competenziale (per esempio “so cucinare”), la conoscenza preposizionale (per esempio “so che la Gallura è avventurosa”)» (p. 9) - viene riconosciuto un ruolo preminente alla conoscenza proposizionale come marca della nostra umanità: «E’ infatti la conoscenza proposizionale che distingue noi esseri umani dal regno animale» (p. 11). Per quanto questa possa sembrare un'affermazione tutto sommato banale, è probabilmente il sottolineare la continua tensione di ciascuno verso la conoscenza, l'individuazione della necessità del sapere come pervasivo delle esperienze quotidiane del soggetto che da una parte portano il filosofo di professione a «riconciliarsi», nella terminologia di Cavalli Sforza, con questo tipo di indagine, e dall'altra suscitano l'interesse in chi si accosta a queste tematiche. Questo è lo spirito del libro, mantenuto in tutti i saggi che lo compongono e ben esplicitato in queste parole del prologo: «Non è solo che quasi ogni essere umano sperimenta il bello, un qualche bisogno di soprannaturale, il bene, mentre confida nel fatto che la scienza riesca a proporci un ricco corpus conoscitivo che riusciamo a condividere senza troppi problemi; è anche che, grazie all'esperire estetico, religioso, scientifico ed etico tentiamo di forgiare la nostra concezione di noi stessi e del mondo che circonda e, al contempo, di conferire significato alla nostra vita.» (p. 19)
Andando più nello specifico, dopo un confronto fra mimetica ed estatica, Maurizio Ferraris, nella ricerca di un altro sentiero che conduca alla definizione della conoscenza estetica, sottolinea l'importanza della sensazione, come centrale per l'esperienza estetica, «ma non basta, e quel che manca, se dovessimo condensarlo in una parola, è il sentimento.» (p. 36) Si giunge così ad affermare che vi è la possibilità di una conoscenza estetica che trova la sua definizione nella somma di tre elementi fondanti: «Il fatto, ben rilevato sin dagli albori della riflessione sull'arte, che l'arte sia imitazione; il fatto che un elemento sensibile sia imprescindibile sia per l'arte che per la scienza; la circostanza, infine, che i sentimenti non siano momenti irrazionali in cui il soggetto gioca con se stesso, ma pezzi del nostro rapporto col mondo.» (p. 40)
Christofer Hughes pone al centro del suo saggio la possibilità «dell'esistenza della conoscenza religiosa, e non di quali sono gli oggetti di questa conoscenza.» (p. 48) La complessità e la peculiarità di questo tema emerge dal fatto che, dalla disamina sia degli argomenti contro la conoscenza religiosa sia di quelli a favore, non è possibile giungere ad affermazioni conclusive circa lo status epistemico delle credenze analizzate: in entrambe i casi ci si trova davanti ad argomenti che «riescono solo a convincere chi è già convinto della loro conclusione.» (p. 59) Hughes sceglie dunque di focalizzare la sua attenzione sull'esperienza religiosa, tematica cui recentemente è stato dato notevole rilievo in ambito analitico soprattutto ad opera di William Alston, e su questa base, con un equanimità di giudizio, sfortunatamente troppo rara nella filosofia della religione, perviene alla conclusione che «la conoscenza religiosa, sempre ammesso che esista, è in tutto e per tutto a posteriori.» (p. 62) Questo accomuna un’eventuale conoscenza religiosa alla conoscenza scientifica, ma con un grado di problematicità intrinsecamente diverso; infatti «la conoscenza scientifica dipende per la sua esistenza dall'esistenza e dall'affidabilità dell'esperienza sensoriale che è universalmente condivisa e della cui affidabilità nessuno che sia sano di mente può dubitare. La conoscenza religiosa (se esiste) dipende invece per la sua esistenza dall'esistenza e dall'affidabilità dell'esperienza religiosa e non sensoriale, cioè da un'esperienza che non è universalmente condivisa e sulla cui affidabilità molte persone nutrono seri dubbi» (p. 62).
Il breve quanto denso intervento di Giulio Girello, più che descrittivo o introduttivo alla tematica della conoscenza scientifica, appare quasi avere un intento programmatico. Giorello sottolinea con forza come la ricerca scientifica debba avere un carattere comunitario, in quanto per sua natura costituisce «un'impresa troppo grande per un uomo solo, ma non per un'intera comunità che non conosce confini spaziali e nemmeno limiti di tempo» (p. 68). La razionalità scientifica, che trova il suo posto in uno spazio situato fra le pretese assolutistiche del dogmatismo da una parte e dello scetticismo dall'altra, più che il viatico verso una conoscenza oggettiva è la guida attraverso un percorso che si dipana tra congetture, confutazioni e conferme. E se, sulla scorta di Popper, le nostre conoscenze non sono altro che opinioni rivedibili, Giorello ci propone di non chiederci tanto quali siano le basi di queste opinioni quanto come esse siano rivedibili in un quadro che «presuppone il cambiamento dell'impostazione classica del rapporto fra etica e conoscenza, o se si preferisce fra fatti e valori» (p. 76). Per la ricerca scientifica, e non solo, due valori divengono cardini fondamentali: «La tolleranza dell'errore e la proliferazione delle alternative.» (p. 76)
Eugenio Lecaldano propone un excursus che mira a dimostrare come «l'identificazione dell'etica con la conoscenza è erronea.» (p. 79) Dopo un'approfondita analisi delle proposte di avanzate in campo etico dal cognitivismo naturalistico sia riduzionistico che non riduzionistico, Lecaldano si rivolge al sentimentalismo in cui la moralità è connessa con la capacità tutta umana di provare un interesse per le sofferenze altrui che ci spinge a cercare di lenirle o evitarle, in quanto «questa nostra naturale tendenza ad essere affettivamente coinvolti in presenza delle sofferenze altrui dà senso, applicazione ed estensione ai concetti morali» (p. 92). Da questa prospettiva diviene possibile elaborare un'interpretazione compiutamente naturalistica dell'etica che definisca la moralità come espressione di emozioni e sentimenti. L'etica dei sentimenti viene adottata per attuare un abbandono della concezione dei valori in termini assoluti e poter dunque percorrere «una nuova strada dell'etica caratterizzata dall'autonomia, dal riconoscimento della pluralità e diversità delle prospettive e dal prevalere dell'attenzione per le condizioni fisiche ed emotive, piuttosto che per le esigenze di una razionalità astratta e impersonale» (p. 94), come viene ben mostrato nell'applicazione di questa prospettiva nei due casi di bioetica che chiudono, anzi coronano, il saggio di Lecaldano.
L'intento di questa raccolta, ovvero valutare la possibilità o l'impossibilità delle conoscenze prese in esame «con tutta la pacatezza necessaria [...] – come scrive la curatrice - perché a premerci qui è il semplice desiderio di gettare le basi per un confronto epistemico tra estetica, religione, scienza ed etica, non di fare discorsi pomposi o retorici» (p. 19) è sicuramente riuscito, dando vita ad un contributo di indubitabile spessore alla nostra epistemologia.

Indice

Prologo
Non può morir chi al saver s’è dato
di Nicla Vassallo

Capitolo 1
Conoscenza estetica
di Maurizio Ferraris

Capitolo 2
Conoscenza religiosa
di Christopher Hughes

Capitolo 3
Conoscenza scientifica
di Giulio Giorello

Capitolo 4
Conoscenza etica
di Eugenio Lecaldano

Epilogo
Intrecci
di Nicla Vassallo

Bibliografia
Autori
Indice dei nomi


L'autrice

Nicla Vassallo, considerata uno dei massimi esperti di filosofia della conoscenza, attualmente è professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Genova e Visiting Professor di Epistemologia presso l’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. È Book review editor della rivista Epistemologia, membro del comitato redazionale di Iride, del dizionario on-line Foldop e della rivista on line Rescogitans, fa parte del comitato scientifico di O.N.DA e di 2-R. Collabora al supplemento culturale de Il Sole-24 Ore.

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lunedì 12 settembre 2005

Filosofia della comunicazione, a cura di Claudia Bianchi e Nicla Vassallo.

Roma-Bari, Laterza (Manuali), 2005, pp. xiv+177, ISBN - 88-420-7650-3.

Recensione di Nicola Balata – 12/09/2005

Filosofia della comunicazione

1. La domanda e le sue articolazioni.

L’intenzione fondamentale di questo volume collettaneo dedicato alla “filosofia della comunicazione” è quella – per usare le parole delle sue curatrici – di “capire se il termine ‘comunicazione’ ha un senso o più sensi, e se sì perché”; in altre parole, “di comprendere che cosa deve essere la comunicazione per essere realmente tale, così come di comprendere perché comunichiamo e perché dobbiamo, se dobbiamo, comunicare” (p. xii).

Quelli che vengono indagati sono gli strumenti “essenziali” di cui si serve la filosofia per pensare il fenomeno della comunicazione, inteso “nella sua manifestazione prevalentemente linguistica in quanto l’unica propria solo agli esseri umani” (ibid.). A tal fine, è proprio alle scienze del linguaggio che si rivolge l’attenzione della filosofia, e più precisamente, a discipline come la sintassi, la semantica, la pragmatica, la semiotica, l’ermeneutica e la retorica, o ancora all’epistemologia (p. xiii).

Quella affrontata in questo testo è una questione di natura eminentemente filosofica, che tuttavia riceve – a scanso di ogni equivoco – una riformulazione molto ben definita, e perfino “tecnica”, qual è quella di una nuda ma rigorosa “analisi concettuale” del termine nelle sue diverse sfaccettature ed implicazioni (p. xii).

A essere indagata è così anzitutto la “forma della comunicazione”, ovvero l’insieme delle “regole sintattiche” che, per sé prese, sono “in certa misura indipendenti dall’informazione lessicale”, ovvero dalla conoscenza dei significati delle parole” (p. 3). Vi si dedica Andrea Moro nel saggio di apertura, nel quale viene illustrata e discussa, con riferimento ai risultati della ricerca nel campo delle neuroscienze, la premessa della concezione chomskyana del linguaggio, secondo la quale “il linguaggio umano, e in particolare la sintassi, non [è] un fenomeno di natura convenzionale ma [ha] una guida biologicamente determinata” (p. 9).

Si rivolge poi l’attenzione alla comunicazione dal punto di vista del significato che essa veicola, sulla base dell’“assunto che vi sia un legame strettissimo fra linguaggio, pensiero e comunicazione, da un lato, e conoscenza e comprensione, dall’altro” (p. 18), come si legge all’inizio del saggio di Eva Picardi sulla semantica.

Si analizzano quindi i “meccanismi”, le “strategie”, i “complessi sistemi di aspettative”, che non solo “rendono possibile la comunicazione” (p. 43), ma mostrano anche come essa, contrariamente a quanto vuole una concezione consolidata, sia caratterizzata da una “pluralità di dimensioni”, e obbligano il filosofo a fare i conti “con la psicologia, le scienze cognitive e i modelli di rappresentazione e di elaborazione dell’informazione” (p. 44): ne discute Claudia Bianchi nel saggio dedicato alla pragmatica.

A chiarire il significato della comunicazione come forma particolare di “relazione sociale”, capace di “significazione” o di “senso”, si dedica Ugo Volli nel saggio dedicato alla semiotica, “disciplina dei segni” che ha alle sue spalle ormai una “lunga tradizione.” (pp. 68-69).

Sulle ragioni per le quali ogni “gesto comunicativo” sia nel contempo sempre una “richiesta” di senso, e rechi ogni volta con sé una domanda particolare di “interpretazione”, si ferma Maurizio Ferraris nelle pagine dedicate all’ermeneutica, che si chiudono peraltro con uno “smascheramento” della celebre affermazione di Nietzsche, circa l’impossibilità di affermare l’esistenza dei “fatti”, oltre la totalità delle interpretazioni (pp. 109-110).

Frans H. van Eemeren e Peter Houtlosser affrontano, nei termini propri della riflessione contemporanea, la questione antichissima di cosa renda possibile un’argomentazione  “persuasiva”, cercando peraltro di mostrare come “una riflessione matura sull’argomento non può fare a meno di un approccio dialettico e della filosofia critica che lo sottende” (p. 111).

Una serrata riflessione sulle condizioni che fanno sì che la comunicazione venga considerata come “una fonte privilegiata” di conoscenza (p. 135), è infine quella che viene svolta nel saggio di Nicla Vassallo sull’epistemologia, con il quale si chiude il volume.

2. L’etica presupposta.

Questa pluralità di voci e di piani di analisi costituisce senza dubbio la ricchezza e anche la complessità del testo. Va detto che si tratta di un libro straordinariamente denso di implicazioni e rimandi, che investono ambiti disciplinari talora anche molto lontani da quelli presentati o esplicitamente citati. È un libro in questo senso “difficile”, che spesso, per necessità, procede per definizioni e formulazioni categoriche (ma che in effetti non giovano a restituire alla filosofia la sua immagine di sapere “povero”, “che non sa”, che procede per interrogazioni, e sempre con tensione dialogica e critica) e che anche per questa ragione va letto con attenzione.

Al lettore – soprattutto quello inesperto di cose filosofiche – si consiglia quindi una lettura meditata, guidata finché possibile da uno sforzo personale di “riformulazione concreta”, capace di attingere proprio a quegli ambiti disciplinari – l’antropologia, la sociologia, l’economia, la psicanalisi, insomma le scienze umane e la storia, in tutta la loro concretezza e pluralità e ricchezza di analisi – che, con scelta consapevole, sono stati fin dall’inizio spinti ai margini del discorso svolto in queste pagine.

Il lettore è invitato a non incorrere nell’errore in cui  pure non di rado si incorre, soprattutto quando ci si imbatte in testi di sintesi com’è il presente, che consiste nello scambiare l’insieme degli “strumenti”, degli “attrezzi” concettuali e metodologici di cui una disciplina si serve, con il suo stesso concreto operare: essendo evidente infatti che questo e quelli non sono la stessa cosa.

Credo sia qui il rischio insidioso che si nasconde fra le pagine di questo “manuale”. E credo che esso sia una diretta conseguenza di quella sorta di “manchevolezza” o “parzialità”, per altro “voluta”, che caratterizza l’impianto generale del testo, e verso la quale le curatrici molto opportunamente richiamano l’attenzione del lettore fin dalla prefazione al testo; dove si legge: “Le discipline che crediamo essenziali per comprendere che cos’è la comunicazione sono sintassi, semantica, pragmatica, semiotica, ermeneutica ed epistemologia. Quale disciplina manca? Salta subito all’occhio: manca l’etica e manca volutamente, non perché l’etica della comunicazione non sia necessaria, ma perché è nostra convinzione che [queste discipline] siano capaci di mostrarci, anzitutto singolarmente e poi anche nel loro complesso, che cosa deve essere la comunicazione e, quindi, anche che cos’è la buona (o la cattiva) comunicazione” (p. xiii).

Si tratta di una osservazione pertinente, ed utile soprattutto ricordare come la natura delle domande filosofiche – così come è il nostro caso qui – investa sempre il piano dell’etica, investa cioè e ponga in questione la dimensione essenziale di quel soggetto che chiamiamo “uomo”, nel suo essere un soggetto libero (ed è solo per un soggetto libero, si potrebbe ripetere kantianamente, che ha senso interrogarsi dal punto di vista dell’etica).

Resta la perplessità circa la scelta di limitare il campo di osservazione essenziale del filosofo all’ambito esclusivo delle “scienze del linguaggio”, e per conseguenza di affidare per intero al lettore il compito più gravoso, cioè riformulare per proprio conto la domanda sulla natura della comunicazione “nel suo complesso”, e cioè da un punto di vista “etico” – ma perché allora non anche “politico”, e “storico”, nella accezione più filosofica che vorremo riconoscere a questi termini?

Fra i temi che, da questo punto di vista, avrebbero certo meritato una maggiore attenzione, il tema delle tecniche (a cui si fa un rapidissimo cenno nella prefazione), occupa un posto privilegiato.

3. Il contributo delle neuroscienze.

Un’ultima considerazione riguarda il saggio di Andrea Moro, in particolare l’interessante trattazione che l’autore dedica ai risultati della ricerca nel campo delle neuroscienze, sottolineando l’importanza che questi risultati hanno dal punto di vista dell’assunto fondamentale della teoria del linguaggio di Chomsky, e cioè “di quella prospettiva di indagine che a partire dalla metà del secolo scorso ha cambiato radicalmente la nostra concezione del linguaggio” (p. 3). La conseguenza principale di questo richiamo ai dati della ricerca empirica è quella di poter mostrare appunto la plausibilità dell’ipotesi circa la natura “non convenzionale” del linguaggio umano: “Per chi si occupa di comunicazione, questo dato di fatto diventa decisivo: è come se l’architettura delle lingue naturali avesse dei limiti massimi entro i quali potersi muovere” (p. 10). Appare pertanto “ragionevole assumere la posizione che appare oggi più aderente ai dati empirici: qualunque sia la funzione che ha il linguaggio, qualunque sia l’esperienza che sta alla base dell’apprendimento del linguaggio da parte di un bambino, qualunque sia la storia evolutiva di questo tratto della natura umana, esistono limiti biologicamente determinati entro i quali la struttura deve e può svilupparsi” (p. 15).

Questa ipotesi e l’argomentazione che la sorregge sono affascinanti, tanto più se si pensa alla possibilità di integrarle con un’ipotesi in certa misura complementare, qual è quella avanzata e discussa, con il contributo di studiosi di diversa formazione (ricordo fra tutti l’interessante saggio di Jean-Pierre Changeux, autore di fondamentali testi di sintesi nel campo delle scienze neurologiche, fra cui il ben noto L’uomo neuronale, edito in Italia da Feltrinelli), nell’interessante volume, curato ormai quasi una ventina d’anni da Derrick De Kerchkove, The Alphabet and the Brain. The lateralization of writing. Secondo l’ipotesi di De Kerchkove, si dovrebbe poter dimostrare che l’interazione con l’ambiente e con le diverse forme di educazione e pratiche pedagogiche, e in particolare con le diverse “tecniche” che queste pratiche privilegiano (si pensi al lento e capillare processo di alfabetizzazione, cui il bambino è sottomesso per un periodo lunghissimo, che si protrae per tutta l’infanzia e la giovinezza), gioca un ruolo determinante nella “formazione” dell’architettura neuronale di ciascun individuo. Detto in altri termini, esse porterebbero con sé forme mentali, strutture e modi di pensiero e di percezione della realtà, fra loro sostanzialmente differenti.

Indice

Prefazione, di Claudia Bianchi e Nicla Vassallo
Combinare espressioni: sintassi, di Andrea Moro
Afferrare pensieri: semantica, di Eva Picardi
Capire e farsi capire: pragmatica, di Claudia Bianchi
Analizzare testi: semiotica, di Ugo Volli
Interpretare discorsi: ermeneutica, di Maurizio Ferraris
Persuadere: retorica, di Frans H. van Eemeren e Peter Houtlosser
Conoscere attraverso parole: epistemologia, di Nicla Vassallo
Bibliografia
Gli autori
Indice dei nomi

Bibliografia

AA.VV., “The Alphabet and the Brain. The lateralization of writing”, a cura di Derrick de Kerckhove, Berlino, Springer Verlag, 1988, XVI, 455 p.
Jean-Pierre Changeux, “L’uomo neuronale”, Milano, Feltrinelli, 1983, 364 p.
Carlo Sini, “Etica della scrittura”, Milano, Il Saggiatore [La cultura], 1992, 227 p.
Raffaele Simone, “La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo”, GLF Editori Laterza, [Economica Laterza], 2003, [Seconda edizione], XVI, 152 p.

Gli autori

Claudia Bianchi, insegna Epistemologia e Teorie della comunicazione presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Frans H. Eemeren, insegna Analisi del discorso, Teoria dell’argomentazione e Retorica all’Università di Amsterdam.

Maurizio Ferrarsi, insegna Filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino.

Peter Houtlousser, è Lecturer al Dipartimento di Analisi del discorso, Teoria dell’argomentazione e Retorica all’Università di Amsterdam.

Andrea Moro, insegna Linguistica generale all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Eva Picardi, insegna Filosofia del Linguaggio presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna.

Nicla Vassallo, insegna Epistemologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Ugo Volli, insegna Semiotica del Testo all’Università di Torino