lunedì 16 maggio 2016

Carnevali, Barbara, Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio

Il Mulino, Bologna 2012, pp. 222, euro 20, ISBN 9788815239495.

Recensione di Antonio Allegra – 01/03/2014

“Nessuno ha accesso  diretto all’interiorità altrui […] nessuno può darsi agli altri in modo immediato” (p. 1): la tesi espressa nella prima pagina del libro di Barbara Carnevali ne rappresenta il nucleo. Ma si badi a non fraintenderlo. Il suo punto decisivo è che l’accesso non è diretto e il darsi non è immediato.


Detto altrimenti, non si tratta di (ri)proporre una filosofia dell’inesprimibile, dell’interiorità sepolta, ma proprio al contrario di rivendicare da un lato le ragioni di ciò che, talvolta ostentato e in certe circostanze accuratamente progettato, costituisce comunque il solo materiale attraverso cui conosciamo e interpretiamo gli altri; dall’altro, le ragioni di questo stesso progettare e calcolare l’effetto sugli altri di ciò che si dice o che si indossa, come strategie attraverso le quali si sceglie come darsi.
Da ciò segue necessariamente il leitmotiv polemico del libro. Se le cose stanno così non ha alcun senso – almeno, alcun senso filosoficamente profondo, mantenendo al massimo un valore occasionale e puntuale –  la diffusa diatriba, di stampo approssimativamente romantico, in favore del naturale e dell’autentico anche e soprattutto nelle relazioni umane.  Il fenomenismo delle relazioni umane non “riposa su una perversione del giusto ordine della comunicazione” (ibidem), ma al contrario è esattamente la maniera in cui avviene fisiologicamente la comunicazione; non si tratta di una corruzione di un ordine originario della trasparenza, perché la trasparenza, semplicemente, è umanamente impossibile. (Resta la questione della condizione prelapsaria, ove Adamo avrebbe posseduto un linguaggio in cui res e verba aderivano; ma in ogni caso è certo, almeno nell’ortodossia cristiana, che tale condizione è naturalmente inattingibile).
Insomma, la rete del nostro mondo sociale è totalmente costruita a partire da apparenze, o se il termine suona a suo modo brutale, da relazioni sensibili. Esse sono la base tanto delle grandi costruzioni di senso condiviso, a livello di rappresentazioni ideologiche o di tendenze storiche, quanto delle relazioni personali e intime, basate in ultima analisi su quanto (certamente, spesso con buone ragioni) crediamo di sapere e capire dell’altro. In effetti, ciò non ha alcun significato disfattista rispetto alla possibilità di ricavare nozioni corrette nel rapporto tra persone, esattamente nella misura in cui è possibile inferire correttamente, a partire da una serie di proposizioni, che chi parla con me ha sete, oppure non crede alla metafisica di Aristotele. Ma appunto si tratta di inferenze a partire da tracce lasciate apparire, non di impossibili prese dirette con l’interiorità altrui.
E ciò è in più di un senso assolutamente salutare. La estroversione di sé, costituita dall’ampio apparato di abiti, mode, frasi, maschere sociali indossate, etc., consente a ciascuno di noi di avere in ultima analisi uno spazio interiore irriducibile, e alla convivenza sociale di mantenersi senza che le reciproche autenticità producano conflitti. In fin dei conti tutto è superficiale, nel senso che le superfici che abbiamo a disposizione significano e proteggono al tempo stesso. Ovvero: tutto è interfaccia, in certo modo, perché lo strato delle apparenze esprime una certa versione dell’interiore e contestualmente lo preserva. Il sistema della moda, ad esempio, proietta una certa immagine di sé inevitabilmente calcolata e necessariamente esposta allo sguardo altrui, e al tempo stesso scherma il sé, sia dallo scrutare altrui che, più prosaicamente, dalle intemperie.
Non è un caso che Rousseau, l’autore più avverso a tali prospettive, e che ha avuto un ruolo decisivo nel loro diventare sostanzialmente inattuali dopo l’epoca d’oro del barocco, esprima questa sua ostilità come un’ostilità nei confronti delle arti. Tutti questi fenomeni di proiezione e competizione, di natura intensamente sociale e impensabili fuori da dinamiche propriamente umane, sono infatti in diretto contrasto con la sfera del naturale; o meglio, lo attraversano e intersecano in modo tale da rendere impraticabile ogni polarizzazione semplice e manichea in favore del naturale stesso. Il naturale umano, come molti hanno osservato, non può essere pensato prima e sopra di questo costante lavorio delle arti. E la società è il luogo della mediazione, del compromesso, dell’aggiustamento: l’alternativa non può esserne che la solitudine dell’io che si pretende nudo di fronte a se stesso, o la comunità perfettamente organica. Entrambe opzioni che lasciano più di qualche dubbio sia sul piano della praticabilità, sia su quello dell’auspicabilità. In qualche modo la stessa nostalgia per il mitico “valore di scambio” originario, nasconde che proprio il perverso “valore d’uso” è il valore effettivamente umano (p. 30, con riferimento critico a Debord).
Tutto ciò, insomma, dovrebbe contribuire a far intendere che “sono le immagini stesse che ci fanno esistere altrove” (p. 42), in una normale fisiologia dell’apparire che inerisce al nostro essere sociale ben prima di qualsiasi alienazione. O, detto più radicalmente, l’alienazione è una proprietà normale ed inaggirabile delle immagini prima che una qualificazione morale da combattere, e pertanto è assurdo rimproverare alle immagini di essere quello che sono. In qualche modo, ciò ricorda anche l’inanità della pretesa di collocarsi nel mondo senza giudicare: le persone si sottopongono l’un l’altra costantemente a un complesso ed interminabile processo di valutazione, interpretazione, e giudizio.
Mi sembra molto acuta la considerazione dell’autrice (p. 74) che la sfera pubblica di stampo habermasiano o genericamente deliberativo, prima anche di poterlo diventare e anzi proprio per poterlo diventare, è effettivamente una “dimensione estetica”, una sfera dell’apparire in cui i soggetti si fanno reciprocamente presenti, proprio e necessariamente, nell’apparire. Qualunque neutralizzazione si scontra incessantemente con la propria stessa genesi, che è tutt’altro che neutrale in quanto non è mai avalutativa. Ogni immagine è “stimata”, ossia carica di stime sul suo valore, sul suo senso, etc. È lo stesso implicito che accompagna la nostra esistenza sociale allorché ci interroghiamo sulle “figure” che man mano facciamo. Talvolta in primo piano e acuto, più spesso solo accennato o in sottofondo, si tratta comunque di un interrogativo che la dice lunga sulla nostra consapevolezza di essere “esposti”, di proiettare apparenze che vengono costantemente interpretate e giudicate.
È interessante che quest’analisi implichi che le società del prestigio non siano affatto tramontate con l’Ancien Régime (ove certo i meccanismi in questione si squadernano in maniera netta). Sulla scorta di Goffman, uno dei riferimenti più forti dell’opera, Carnevali mostra come le dinamiche della presentazione, dell’affermazione e del riconoscimento siano ubique e tutto sommato piuttosto identificabili, una volta che si impari il loro codice simbolico. Possiamo aggiungere che questo permette di comprendere la motivazione profonda dell’ostilità contemporanea a quest’ordine di idee. Il fatto è che la stima e il prestigio possono come tali distribuirsi solo in un’attività di tipo agonistico e soprattutto in maniera gerarchica, perché sono concetti comparativi, inutili senza differenze. Ciò, ripeto, non li fa meno presenti nelle società democratiche, ma agisce come una nascosta e potente contraddizione performativa al loro interno. E forse rappresenta il vero punto cieco delle democrazie e il luogo ove esse trovano la propria antinomia.
Al di là di questo, un altro corollario interessante è la priorità della sfera simbolica, che è ben lungi dall’essere una dimensione solo sopravveniente su quella materiale. Anche se le letture di stampo ingenuamente “marxista” sono disusate, la sottovalutazione dell’estetica in favore della dimensione presuntamente materiale continua a esercitare un condizionamento pervasivo, e non solo nelle interpretazioni naif. Invece, prendere sul serio la natura simbolica degli esseri umani comporta che le questioni legate al riconoscimento, il cui ambito d’azione è totalmente legato alle apparenze, abbiano un primato decisivo che a ben vedere è confermato da tutto quello che accade nelle dinamiche politiche e sociali contemporanee.
Il libro di Barbara Carnevali offre una meditazione assai intelligente sui temi che ho cercato di riassumere. A dir vero, ed è un ulteriore pregio, è in realtà uno dei pochi testi ad analizzarli: il suo sforzo è dunque ancora più meritevole. A mio avviso avrebbe forse potuto essere composto in maniera più organica: i capitoli, sempre dotati di osservazioni acute e di spunti culturali variegati, sono piuttosto autonomi, mentre avrebbero potuto succedersi in maniera più funzionale all’elaborazione e sviluppo della tesi.


Indice
 
1. Apparire. La società come spettacolo
“Vanity Fair”
2. Oltre la maschera. Moralisti e romantici
Nostalgia per l’immediato
3. Figura. L’immagine sociale
Immagini in esilio
4. Il gusto degli altri. Fisiognomica sociale
Impressioni d’atmosfera
5. La mediazione estetica e l’illusione romantica
Forma e società
6. “Sensorium societatis”. Sfera pubblica e dimensione estetica
Il peso degli sguardi
7. Esposizione, mondanità, pubblicità
Il mondano
8. L’immaterialismo sociale e il prestigio
Potenza dell’aura
9. L’estetica sociale. Un programma filosofico
Intersezioni
10. Due battesimi e un divorzio. L’uomo economico e l’uomo estetico
Salvare le apparenze
11. Estetismo ed estetizzazione. Patologia e fisiologia del sociale
Contro il valore estetico
12. “Social design”
13. Il manierismo snob. Mimesi, moda, bovarismo
14. Il fascino discreto dell’aristocrazia. Proust e il corpo della nobiltà
Indice dei nomi

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