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lunedì 22 aprile 2013

Furlanetto, Claudia, Villata, Eliana (a cura di), Animali, uomini e oltre. A partire da La bestia e il sovrano di Jacques Derrida

Milano, Mimesis, 2011, pp. 204, euro 18,  ISBN 978-88-5750-941-9

Recensione di Leonardo Caffo – 27/09/2011

Esistono due Derrida, o meglio, come per Wittgenstein, esistono due fasi di Jackie Derrida: la fase del grammatologo – “nulla esiste al di fuori del testo” – e la fase da pensatore della vita e della morte. Fase, quest’ultima, più matura e complessa del filosofo algerino, che lo portò a ragionare sui confini dell’umano e dunque sull’animalità o meglio, come disse durante i seminari che compongono il monumentale volume La bestia e il sovrano (Jaca Book 2001), sulla “sottomissione della bestia (e del vivente) alla sovranità politica”. 

giovedì 29 novembre 2012

Derrida, Jacques, Hélène Cixous, per la vita

Genova-Milano, Marietti, 2012, pp. 192, euro 24, ISBN 978-88-211-8538-0

Recensione di Francesco Tampoia - 16/06/2012

È Derrida il più grande filosofo dopo Heidegger, oppure Derrida è un letterato, un retore, un sofista, uno scrittore autobiografico imbevuto di sterminate letture filosofiche e letterarie, oppure, ancora, il Socrate del XX secolo, un nuovo Socrate, un Socrate che scrive e coinvolge in un  vorticoso flusso eracliteo, ove spesso si sente il bisogno della stabilità parmenidea? Questa la domanda, le domande che alcuni lettori e/o filosofi si pongono alla lettura di alcune pagine derridiane. Il volumetto Hélène Cixous, per la vita conferma che tali interrogativi non sono peregrini.

martedì 21 aprile 2009

Derrida, Jacques, Marx& Sons. Politica, spettralità, decostruzione.

Milano, Mimesis, 2008, pp. 295, € 18,00, ISBN 978-88-8483-638-0.
[Ed. or.: M. Sprinker (ed.), Ghostly Demarcation. A Symposium on Jacques Derrida’s Spectres of Marx, Verso, London-New York 1999].

Recensione di Francesco Tampoia – 21/04/2009

Filosofia politica

Il volume, come da titolo nell’edizione originale del 1999, riporta gli interventi al simposio e le risposte di Derrida in margine al libro Spectres de Marx del 1993.
Il primo saggio, “Il sorriso dello spettro”, è di Antonio Negri il quale si chiede se il progetto di decostruzione derridiana possa essere marxista o avere in qualche modo a che fare con il marxismo. Marx ha usato spesso la figura dello spettro; nella sua opera abbiamo una sarabanda di spettri, basti pensare alla scrittura in chiave spettrale dell’Ideologia tedesca. Ma che fare, oggi, degli spettri marxiani? Marx, mentre parlava di spettri, un secolo e mezzo fa, mentre decostruiva il Capitale, invitava, allo stesso tempo, a spazzar via i fantasmi e il capitalismo, invitava i soggetti produttivi a entrare nella scena della non-spettralità. In Spettri di Marx Derrida esorta a ripensare Marx e suggerisce che “bisogna assumere l’eredità del marxismo, assumere quel che è più vivo, cioè, paradossalmente, quel che continua a mettere ancora in cantiere la questione della vita, dello spirito e dello spettrale, la-vie-la-mort al di là dell’opposizione tra la vita e la morte. Bisogna riaffermare questa eredità, trasformandola anche radicalmente, se sarà necessario” (Spettri di Marx, Raffaello Cortina, 1994 p. 73). Ma Negri risponde che l’invito di Derrida non è sufficiente, che nella trasformazione (decostruttiva) di Marx Derrida resta prigioniero della medesima ontologia che critica. Il gioco decostruttivo spinge Derrida verso una sorta di misticismo, di chiusura e di addomesticamento, mentre la lotta tra gli spettri del marxismo e gli spettri del capitalismo non è finita. Per rispondere costruttivamente alle rinnovate forme della disciplina del capitale e dello sfruttamento del lavoro immateriale è necessario fare appello alla nuova forza sociale dell’intellettualità di massa, “la decostruzione insiste – senza agganciare la pratica oppure sfuggendone dopo aver identificato il discrimine possibile della giustizia – verso solitari orizzonti trascendentali… Peccato, perché Spettri di Marx rappresenta una formidabile introduzione a una nuova pratica” (p. 21). Peccato che Derrida abbia sorvolato su un certo spettro di Marx, quello della XI tesi su Feuerbach: “i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi, si tratta ora di trasformarlo”.
Al breve saggio di Pierre Macherey segue “La lettera rubata di Marx” di Fredric Jameson. Jameson ricorda che, nel suo iter intellettuale, da una prima vocazione filosofica Derrida si è incamminato in direzione di una più letteraria, ultima fase di ricerca, ma non ha attenuato il suo interesse per la politica europea e mondiale. Il volume Spettri di Marx ruota sulla nuova accattivante figura: “la nuova figura, o meglio il nuovo concetto figurato, di spirito o di spettro, è di genere diverso rispetto alle figure che proliferavano nei primi testi di Derrida” (p. 38). Spesso si ha l’impressione che Derrida privilegi il confronto e la narrazione dei testi filosofici più che l’argomentare, l’interpretazione più che la ferrea logica del linguaggio scientifico, la teoresi più che la prassi. Tanto che viene da chiedersi: è possibile vedere in Spettri di Marx il tentativo derridiano di sintonizzare il marxismo come prassi alla luce della decostruzione? Dalla metà del secolo scorso fino agli anni settanta sono state proposte differenti filosofie marxiste, diversi innesti tra marxismo e esistenzialismo, fenomenologia e marxismo, etc… Tentativi falliti secondo Derrida, tentativi che si sono risolti in ontologia, clamoroso l’esempio del diamat. La spettralità, invece, è qualcosa di nuovo, qualcosa che sfida il buon senso, si pone al di qua e al di là di ogni ontologismo, al di sopra o al di sotto di ogni banale binarismo, non implica l’esistenza degli spiriti, “ afferma solo, se si può pensare che parli, che il presente vivente è meno autosufficiente di quanto vuol far credere; che faremmo meglio a non contare sulla sua densità e solidità, poiché in circostanze eccezionali esse ci potrebbero tradire” (p. 47).
A questo punto, in Spettri di Marx, Derrida sposta l’indagine sul tema della religione in Marx, e argomenta che l’attacco marxiano alla religione è un gesto di sovversione politica, vale soprattutto come sovversione politica. Jameson condivide la tesi derridiana e aggiunge che Marx ha compreso che la modernità, nel momento in cui si illude di aver chiuso ogni discorso del sacro, segue inconsciamente il feticcio delle merci, ha compreso “che il tentativo di conquistare e di realizzare la concretezza tramite l’espulsione degli spettri conduce solamente alla costruzione di un’entità ancora più immaginaria che viene scambiata con il mio ‘Io’” (p. 68). In cuor suo avrebbe voluto liberarsi dei fantasmi, ha pensato che fosse auspicabile farlo, ma ha avuto dubbi e sospetti, e ha assunto una posizione essenzialmente critica nei confronti della modernità.
Collegato al tema della religione è quello della promessa di un a-venire, tema comune sia a Marx sia a Derrida. Derrida esordisce dicendo che ogni forma di utopismo, messianismo etc. contiene in nuce una spinta rivoluzionaria, e, allo stesso tempo, un senso di impossibilità e di speranze infrante, sensazione che si ritrova anche in Benjamin. Ma proprio qui risiede la fecondità della figura chiave dello spettrale: gli spettri ci sono sempre, bisogna parlare con gli spettri, anche se non esistono, anche se non sono più, anche se non sono ancora.
Warren Montag nel saggio “Spiriti armati e disarmati: Spettri di Marx di Derrida” parte dalla constatazione che il libro di Derrida significa che Marx non è del tutto morto, anche se, oggi, si registra una diffusa credenza che il mercato e lo stato capitalista rappresentino il vero e unico modello economico e sociale di esistenza. Certo lo spirito di Marx, invocato da Derrida, è molto diverso da quello ricorrente nella letteratura pro o contro Marx, “è lo stesso spirito che rompe gli argini teoretici del Capitale, che si versa ai suoi margini e alle sue note, che parla con oscura ironia della discrepanza tra le nobili finzioni che hanno accompagnato l’ascesa del capitalismo i suoi pomposi cataloghi dei diritti umani” (pp. 80-81). Derrida è consapevole di ereditare questo difficile lascito in un’epoca in cui la discrepanza tra la retorica trionfalistica del liberalismo (economico e politico) e la realtà del mondo che esso domina è la più grande mai vista, è consapevole, allo stesso tempo, che la spettralità nel marxismo rappresenta la sua potenza, il suo essere né presente né assente, né vivo né morto, né attuale né inattuale, né reale né immaginario. Non intende difendere Marx a tutti i costi, vuole cercare di esserne degno erede, cosa non semplice, visto che gli spiriti di Marx sono tanti, visto il collasso dei regimi comunisti nel XX secolo.
Per Terry Eagleton, “Marxismo senza marxismo”, la decostruzione derridiana è stata sin dal principio un progetto politico, ma ambiguo, a due facce, l’una prudentemente riformista l’altra estaticamente di ultra-sinistra. In sede di analisi critica Derrida è dalla parte del marxismo, in sede propositiva non è disponibile ad accogliere le positività storica del marxismo, e si atteggia, piuttosto, come l’ultimo post-strutturalista, che non è interessato a un socialismo effettivo.
Aijaz Ahmad all’inizio del suo “Riconciliare Derrida” si chiede che tipo di testo sia Spettri di Marx. È un testo performativo, letterario, o altro? Indugia poi sul celebre colloquio di Amleto con il Fantasma del padre morto, e afferma che Derrida ha sperato che il collasso del materialismo storico coincidesse almeno con il trionfo filosofico e accademico della decostruzione. Dopo aver criticato la destra, Derrida, sempre secondo Ahmad, passa a criticare la sinistra e tutte le forze organizzate che si sono ispirate a Marx, e discute, infine, il concetto di promessa nella forma messianico-escatologica. Sembra si sia ispirato al tentativo di Benjamin di riconciliare il marxismo con il misticismo ebraico, in realtà ci propone la ri-scrittura delle riflessioni sull’Angelo della storia, “ma privata della collocazione di Benjamin all’interno del misticismo ebraico (questa è forse la ragione della sua necessità di separare il ‘messianico’ dal messianismo; tutto ciò che resta del tormento di Benjamin è il linguaggio, il gioco retorico di un’emancipazione allo stesso tempo secolare e messianica …. È un sollievo […] che il messianismo di Derrida affermi di essere libero da ogni determinazione metafisico-religiosa” (p. 119-20). Verso la fine del suo intervento, Ahmad conclude polemicamente: “che cosa ce ne facciamo, infine, di questo atto di riconciliazione tra il marxismo e la decostruzione, che presuppone l’abbandono di tutte le categorie familiari al marxismo politico, e che caratterizza questa conciliazione non solo su basi, per loro stessa ammissione, messianiche, ma anche colme di un potente immaginario religioso, benché Derrida affermi ripetutamente che il ‘messianico’ non è religioso?” (p.124).
Tom Lewis in “La politica dell’hantologie” fa ampio riferimento ai saggi di Ahmad e Jameson e nota, schematizzando, che gli obiettivi principali di Derrida sono: il ripudio del materialismo storico, la rinuncia alla rivoluzione sociale. Derrida ripudia il materialismo storico perché esso ha avuto in sé una forte spinta ontologizzante (Lenin) che ha aperto la strada a Stalin; non accetta la rivoluzione sociale perché essa inevitabilmente porta alla soppressione dell’individuo. Il suo ideale di società prende la forma di una Nuova Internazionale “appena pubblica […] senza coordinazione, senza partito, senza patria, senza comunità internazionale […] senza con-cittadinanza, senza appartenenza comune a una classe” (Spettri di Marx, p. 48).
In “Lingua amissa” Werner Hamacher approfondisce il concetto di messianico senza messianismo che, diverso dal fenomeno religioso come pare lo abbia inteso Marx (sovrastruttura), deriva dalla stessa struttura della merce. Una innovativa analisi della merce, supportata dalle idee guida della lettura derridiana di Marx, “deve essere un’analisi della sua spettralità – vale a dire contemporaneamente un’analisi della fenomenicità della merce e di ciò che eccede questa fenomenicità, della sua spettralità e parafenomenicità” (pp. 192-193). Gli scambi e le trasformazioni possono essere effettuati solo con il medium della lingua merce, ossia della merce denaro; ma la lingua merce è mistificante e feticizzante, è “un fantasma perché non è in grado di esprimere l’esser-prodotti dei prodotti, ma solo la loro forma stabile, non la storicità dei prodotti, ma solo la loro perpetua oggettività, non la singolarità delle attività, ma solo la loro funzione astratta” (pp. 201-202). Derrida ha scoperto nello spettrale qualcosa di passato, ma provocato da qualcosa a venire, da qualcosa di prominente, ma sempre già in arretrato, qualcosa che reclama i propri diritti qui e ora. Anche se lo spettro si presenta/non presenta con fattezze più teoretiche che pratiche riesce a tenere in piedi la messianicità. La promessa (il messianico) è come una fessura del tempo, e “il marxismo è storicamente la prima promessa che ha affermato l’universalità illimitata della libertà e della giustizia, la prima e l’unica non influenzata da razzismi, nazionalismi, culti o ideologie di classe, ma che al contrario ha promesso un mondo comune a tutti e a ognuno il suo mondo” (p. 237).
L’ultimo capitolo del volume riporta la replica di Derrida agli interlocutori del Simposio.
Derrida ricorda che, ancora una volta, è in gioco il rapporto politica/filosofia, la questione del politico e del filosofico in relazione a Marx, la fenomenicità del politico, la filosofia come onto-teologia. Rivolto a Terry Eagleton, forse ultimo campione del marxismo novecentesco, Derrida significativamente ricorda i disastri del marxismo in Russia e altrove, afferma che la sua posizione si esplicita in due tempi, de-politicizzazione e ri-politicizzazione, giudica con vivacità, a volte con durezza le tesi di Ahmad. Hamacher ha posto giustamente in rilievo il posto della religione in Marx, Ahmad, invece, non coglie affatto questo riferimento e si ostina a credere che la questione religiosa sia definitivamente chiusa e risolta. Nel sostenere a più riprese di non aver mai inteso abbandonare un certo suo engagement politico, Derrida propugna l’ideale di una Nuova Internazionale, non tanto astratta e utopica come può apparire. La Nuova Internazionale deve muoversi giorno dopo giorno secondo le circostanze, deve essere soggetta a ogni istante a una nuova valutazione delle urgenze delle implicazioni strutturali, innanzi tutto dalle situazioni singolari, deve essere immune da calcolabilità assoluta, “è a questa condizione, alla condizione costituita da questa ingiunzione, che c’è – se c’è – azione, decisione, responsabilità politica: ri-politicizzazione” (p. 269).
Marx & Sons si chiude con un aside rivolto al compagno di letture spinoziane Antonio Negri. Derrida con un sorriso chiede a Negri un compromesso: accettare tutti e due l’ontologia come una password, un termine convenzionale che consenta di parlare insieme un linguaggio criptato alla maniera dei marrani. Potremmo, in filosofica compagnia tra marxisti-marrani, comportarci come se parlassimo ancora la lingua della metafisica o della ontologia ben sapendo che non ne resta più nulla. Perché la scelta del marrano? Semplicemente per il fatto che Derrida più volte si è presentato, in passi autobiografici, come un Marrano. E, del resto, chi può dire che Marx stesso, liberato dall’ontologia, non fosse un Marrano? Gli stessi figli di Karl forse non lo sapevano o non lo sanno, e nemmeno le sue figlie. Potremmo, allora, cercare di imparare a vivere in giustizia a partire dagli spettri, senza cadere in una sorta di patria ontologica della spettralità. Perché in una qualsivoglia unica patria ontologica, lui J. Derrida non se la sente assolutamente di vivere.

Indice

Nota dei traduttori
Antonio Negri, Il sorriso dello spettro
Pierre Macherey, Marx dematerializzato, o lo spirito di Derrida
Frederic Jameson, La lettera rubata di Marx
Warren Montag, Spiriti armati e disarmati: Spettri di Marx di Derrida
Terry Eagleton, Marxismo senza marxismo
Aijaz Ahmad, Riconciliare Derrida. Spettri di Marx e la politica decostruttiva
Rastko Močnik, Dopo la caduta. Le nebbie sul “18 Brumaio” delle primavere dell’est
Tom Lewis, La politica dell’hantologie in Spettri di Marx di Jacques Derrida
Werner Hamacher, Lingua amissa. Il messianismo della lingua-merce e Spettri di Marx
Jacques Derrida, Marx& Sons


L'autore

Jacques Derrida (1930-2004), filosofo e critico letterario di origine ebraica, noto come il fondatore del decostruzionismo, è riconosciuto come uno dei massimi filosofi del nostro tempo. Numerosa e molto varia la sua produzione saggistica. Tra le sue opere più note: La scrittura e la differenza, Della grammatologia, La voce e il fenomeno, Margini della filosofia, Glas, Dello spirito. Heidegger e la questione, Politiche dell’amicizia, Aporie, Oggi l’Europa. L’altro capo, Spettri di Marx, Quale domani.

Links

http://it.wikipedia.org/wiki/Jacques_Derrida (pagina della Wikipedia italiana dedicata a Jacques Derrida)

venerdì 26 settembre 2008

Jacques Derrida, Incondizionalità o sovranità. L’università alle frontiere dell’Europa, a cura di Simone Ragazzoni.

Milano, Mimesis, 2008, pp. 45, € 10,00, ISBN 9788884836748

Recensione di Francesco Tampoia  - 26/09/08

Filosofia politica

Nella sterminata, difficilmente controllabile produzione derridiana alcuni biografi e storici, anche se altri evidenziano la continuità del percorso filosofico- teorico, parlano di terza e ultima fase orientata verso le tematiche religiose, sociali e politiche. In quest'ultimo caso, allo scopo di stendere un filo sia pure esile e tortuoso, una sorta di percorso tematico, ma anche cronologico, si consiglia di partire dal noto Politiche dell’amicizia, che porta nel titolo il termine politica, poi di sfogliare Oggi l’Europa. L’altro capo, Spettri di Marx e Moscou aller-retour, infine Quale domani e altri numerosi interventi minori e d’occasione, in cui Derrida, alla luce della sua speculazione filosofica, fugando ogni dubbio sul suo personale engagement politico, pone la questione del politico e del potere in modo più attuale e raffinato che in passato. Il testo da recensire è certamente uno scritto minore, riproduce la Conferenza pronunciata da Derrida il 3 giugno 1999 presso l’Università Pantion di Atene in occasione del conferimento della laurea honoris causa. La chiave di lettura dell’intera conferenza è offerta dallo stesso Derrida in esergo : “Possibilità di un im-possibile al di là della pulsione di morte, al di là della pulsione di potere, [...] al di là della sovranità, un al di là incondizionale. Non sovrano ma incondizionale” (J. Derrida, Etats d’ame de la psychanalyse).
Simone Regazzoni nell’Introduzione, un vero e proprio saggio, anche se non del tutto centrata sulla Conferenza, si perita in una documentata presentazione dello status quaestionis, fa riferimento a G. Agamben, a R. Esposito, a M. Foucault e scrive che “altra è la ricostruzione genealogica dell’dea di sovranità; altra l’idea stessa di sovranità nel suo legame alla vita e alla morte; altro infine è l’obiettivo della decotruzione che mira a tracciare le coordinate di uno spazio im-possibile al di là del principio e della pulsione di potere e, a partire da qui, [ Derrida] tenta di elaborare l’idea di una forza senza potere, il tutto nel contesto di una incondizionata fedeltà all’idea di democrazia a venire” (p. 10). La sovranità, correntemente intesa, è concepita come una macchina di morte per servire il vivente, mentre il concetto-spazio di sovranità che Derrida propone va a situarsi al punto di saldatura, ai margini di elementi differenti: l’ontologico, il teologico e il politico. A Derrida non interessa tanto riscoprire una fondazione democratica (Nancy) o di altro tipo per supportare la sovranità, preme, invece, dopo il richiamo alle radici greche, alla teogonia di Omero e Esiodo, alla teologia politica da Bodin e Hobbes, porre sotto esame il principio fantasma di onnipotenza, che abbiamo visto circolare nel corso della civiltà occidentale, un principio di potere non neutro, bensì maschile, virile, fallico. In Stati canaglia il principio di onnipotenza è chiamato ipseità, potenza dello stesso, e, situato in confronto e/o opposizione all’incondizionalità, evidenzia l’aporia incondizionalità-sovranità, aporia discussa anche in Università senza condizione, e qui esemplarmente riproposta nel luogo suo proprio, più idoneo alla decostruzione della sovranità e della istituzione che dà corpo all’incondizionalità senza sovranità. Ma in compagnia di Derrida ci chiediamo: è possibile una condizione di incondizionalità alla lettera, senza potere? La risposta di Derrida è positiva, purché detta condizione di possibilità dell’impossibilità, si traduca e sia non senza forza, o meglio sia una debole forza messianica, senza messianismo o alcuna connotazione religiosa. Leggendo l’apertura della Conferenza la memoria corre al testo Oggi l’Europa. L’altro capo per il richiamo all’oggi “Che cosa accade oggi, nel mondo, e più vicino a noi in Europa? Che cosa accade a questi limiti che si chiamano frontiere? A questi fronti virtuali che disegnano tutte le frontiere? Frons nomina ciò che fa fronte [fait face], nel punto più alto della testa e del capo (κεφαλή, caput), al di sopra dello sguardo, all’altezza capitale di ciò che è capitale, la capitale, il capitale stesso” (p. 29). Dal capo alla testa, alla fronte e al fronte e infine alla zona sopra gli occhi come zona di frontiera. L’Europa ha un confine fisico-geografico più o meno definito: se penisola dell’Asia è in continuità con essa a Est; il confine più a Sud-Sud-Est è invece sfilacciato, molto mobile e controverso. Derrida, siamo nel 1999, ricorda che vi è una guerra europea in Serbia, ma anche mondiale in un momento in cui “non riconosciamo nemmeno più i nostri vecchi concetti e il nostro vecchio immaginario del partito o del campo, del fronte e della frontiera, della guerra, propriamente, del diritto di guerra e del diritto delle genti, e nemmeno del crimine di guerra, nel momento in cui i nostri concetti di politico, di Stato e di nazione, di diritto internazionale sono continuamente sollecitati…” (pp. 30-31). Senza perdere di vista l’hic et nunc, quasi volendo più emotivamente coinvolgere l’uditorio, riafferma che l’Università non è soltanto una istituzione, un luogo fisico, è stata ed è uno spazio reale e nel contempo ideale in cui si svolge una missione per l’appunto universale. A partire dalle sue origini greche l’università europea e mondiale non è altro che l’archivio e la legge, l’ordinamento civile. Pensiamo per un momento alle leggi di Atene cui Platone nel Critone dà la parola. Nel dialogo platonico sono in gioco le leggi, il cittadino e lo straniero, l’ospitalità politica, la sua etica e la politica della frontiera. Le leggi si rivolgono a Socrate, vogliono farsi sentire, pur non avendo una forza di coazione, uno strumento materiale per imporsi, perché Socrate è un cittadino libero e può ubbidire alle leggi come può disubbidire.
Oggi non siamo ai tempi di Critone e Socrate, eppure come Europei abbiamo una unica coscienza politica e ne avvertiamo la responsabilità, sentiamo di essere coinvolti nelle vicende serbe alle frontiere della Grecia. Lo siamo perché si tratta di partecipare e lottare per i diritti universali dell’uomo. Come possiamo interpretare ed esercitare la nostra responsabilità universale di universitari greci ed europei? Facciamo parte degli stati-nazione d’Europa e del Nord America, ma cosa significa per noi la sovranità? Che valore ha per noi l’Europa fisica, delle frontiere e lo stato nazione? Lungo il corso della storia le frontiere sono state sempre labili, oggi “La quasi-guerra mondiale è anche la guerra sul World Wide Web, conteso tra i poteri di Stati-nazione o coalizioni di Stati-nazione egemonici, corporazioni di capitali sovranazionali (capaci, da due o tre lati, di tutte le manipolazioni possibili) e cittadini o non cittadini di tutti i paesi, resistenti, oppositori, dissidenti che possono così, grazie a questi stessi poteri tecnici delle e-mail e di Internet, liberarsi dai poteri dello Stato o del capitale, e liberare così una certa affermazione democratica, cosmopolitica, se non addirittura meta-cittadina” (p. 36). Più avanti riprendendo il filo del discorso Derrida chiarisce “La mia questione e la mia ipotesi concernono ancora il fronte e la frontiera, il divenire-fronte della frontiera, ma questa volta in modo più discreto, fragile, anche difficile, sulla linea di una frontiera tra due concetti che spesso si ha difficoltà a dissociare: l’incondizionalità [inconditionnalité] e la sovranità” (p. 37). Incondizionalità e sovranità sono rappresentazioni vicine a ciò che chiamiamo libertà; ma al tempo stesso eterogenee. L’idea di Università di cui parla Derrida presuppone il diritto alla verità senza condizione. E nell’Università non vi è limite, o non vi dovrebbe essere limite alcuno all’esame critico. Non vi sono condizionamenti di sorta all’attività del libero pensiero. Mentre nello status di guerra le parti in campo per af-frontarsi si ispirano al principio fantasma arcaico della sovranità, nell’Università lo scontro delle idee si svolge in un luogo di discussione e di affermazione senza limite, ove si può rispondere operando “con rigore l’analisi critica e genealogica, io preferirei dire la decostruzione in corso del sovranismo, dei fantasmi della teologia politica e dell’ideologia stato-nazionalista che, come sempre saldate insieme, comandano più o meno lucidamente” (p. 40). In questo stesso luogo di discussione libera si può portare avanti un vero discorso sui diritti dell’uomo. Certo si tratta di “ decostruire all’infinito ma anche denunciare i meccanismi, le astuzie, le menzogne tramite cui questo rispettabile discorso dei diritti dell’uomo si aggiusta, in modo ingiusto o selettivo, alle mire egemoniche delle superpotenze statuali-nazionali. Esse non rinunciano alla propria sovranità. Quando lo ritengono opportuno non rispettano nemmeno le organizzazioni del diritto internazionale che esse istituiscono e continuano a dominare” (p. 41). Decostruzione del principio di sovranità, quindi, non molto diversamente da come la pensarono gli illuministi, e critica del fondamento di origine religiosa e sacrale, anche quando la sovranità divina o monarchica viene trasferita al popolo in una repubblica o democrazia che si suppone libera e autodeterminata. Riecheggia, in queste note, il messaggio rousseauiano del Contratto sociale, che Derrida si affretta a citare, la celebre distinzione tra ‘volontà generale’ e ‘volontà di tutti’, la consapevolezza che la volontà sovrana del popolo si pone in competizione con la sovranità del monarca. Qui Derrida aggiunge che la contrapposizione tra le due sovranità può trovare nel popolo il suo portatore. Ma, per viverle e sostenerle, il popolo deve appropriarsi della incondizionalità senza sovranità, della condizione ‘senza potere, ma senza debolezza. Senza potere, ma non senza forza, foss’anche una certa forza della debolezza’.
Appoggiandosi apparentemente a una sorta di anarchismo, Derrida chiude con le seguenti parole: “Piuttosto che ritirarsi dietro le frontiere sicure di un campo, di un campus inoffensivo e protetto da autorità invisibili, questo pensiero dell’Università deve preparare, con tutte le sue forze, una nuova strategia e una nuova politica, un nuovo pensiero del politico. E della responsabilità politica” (p. 44).
In una fase di approfondimento post-decostruzionista, riappare il limite del pensiero politico derridiano, quello di non riuscire a nascondere i suoi caratteri elitistico-utopici, anche e/o perché smussati e diluiti, per scelta fatta, nella prospettiva dell’impossibilità, di una democrazia a-venire.

Indice

AL DI LA DELLA PULSIONE DI POTERE di Simone Ragazzoni 
Diritto di vita e di morte 
Il fantasma, il principio e la pulsione 
Incondizionalità o l’iperbole impossibile della sovranità 
La forza debole del messianismo 
INCONDIZIONALITA O SOVRANITA'
L’Università alle frontiere dell’Europa di Jacques Derrida


L'autore

Jacques Derrida (1930-2004), filosofo e critico letterario di origine ebraica, noto come il fondatore del decostruzionismo, è riconosciuto come uno dei maggiori filosofi del nostro tempo. Numerosa e molto varia la sua produzione saggistica. Tra le sue opere più note: L'écriture et la différence, De la grammatologie, La voix et le phénomène, La dissémination, Marges de la philosophie, Glas, La Vérité en peinture, La Carte postale: de Socrate à Freud et au-delà, De l'espirit: Heidegger et la question, Limited, Inc, Du droit à la philosophie, "Circonfession," in Jacques Derrida, Politiques de l'amitié: suivi de l'oreille de Heidegger, Apories: mourir--s’attendre aux "limites de la vérité", Adieu à Emmanuel Lévinas. Oggi l’Europa. L’altro capo, Spettri di Marx, Moscou aller-retour, Quale domani.

sabato 22 dicembre 2007

Derrida, Jacques, Toccare, Jean-Luc Nancy

Trad. it. di Andrea Calzolari, Genova, Marietti 1820, 2007, pp. 401, € 35,00, ISBN 9788821185649.
[Ed. or.: Le toucher, Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000]

Recensione di Francesco Tampoia - 22/12/07

Filosofia teoretica (gnoseologia)

“Più che di un libro su Jean-Luc Nancy, si tratta di un accumulo. Questa caratteristica non dice la sola particolarità di questo testo, ma mostra una cifra di quello che vorrebbe presentarsi come un corpus filosofico. Ne va qui di quella che comunemente chiamiamo filosofia. Questo testo, nella partizione che lo costituisce, è irriproducibile, irripetibile. Non può essere supportato da chiavi di lettura, che lo introducano o ne anticipino i motivi salienti. Nella sua esclusività esso chiama la parola a deporsi nel tocco del proprio corpo e, dopo una lunghissima deviazione, a fare il verso a se stessa” (p. 396). Questo l’addendum al libro, simile a una postilla o a una postfazione, di Riccardo Panattoni e Gianluca Solla, che forse il lettore tradizionale, avverso il divieto di leggere-cercare chiavi di lettura, avrebbe preferito sfogliare all’inizio del volume.
Si viaggia in compagnia di Aristotele, che in Perì Psyches (422b) si domanda se il tatto sia più sensi o un senso solo, e quale sia il sensorio proprio della facoltà tattile. Dalla Psiche di Aristotele al Corpus di Nancy, la movenza, il cammino del pensiero, si dipana alla ricerca del senso del tatto, della consistenza del corpo e dello spirito secondo la definizione freudiana “Psiche è estesa, partes extra partes, non è che dispersione di posti indefinitivamente spezzettati in luoghi che si dividono e non si penetrano mai. Nessun incastro, nessuna sovrapposizione, tutto è al di fuori di un altro fuori” (pp. 23-24). Psiche, insomma, è la piegatura di un divenire dentro del primo fuori. Forse Ovidio nelle Metamorfosi, forse Canova nel suo celebre gruppo scultoreo, forse i pittori (Giulio Romano, fra gli altri) nei loro dipinti sono riusciti a rappresentarci perfettamente la solitudine di Psiche, la sua corporeità che non si tocca, che si può al massimo immaginare, ma non pensare. Nel famoso dipinto Il ratto di Psyche di William Bouguereau, ispirato al noto episodio della mitologia, appare la fanciulla Psyche sul punto di essere rapita dal suo innamorato Cupido: è abbracciata dal bel dio dell’amore, le loro due figure sembrano un tutto unito, i loro corpi insieme formano un complesso lirico. E poi i fluttuanti drappi sul corpo di Psiche, il silenzioso spiegamento delle ali di Cupido che completano la composizione, adagiata su una sottile, sofisticata enfasi in diagonale. Ma il dubbio resta: si può immaginare un toccare che toccherebbe qualcosa di inesteso? Se Psiche ha un corpo, è corporea. Resta, tuttavia, intangibile.
Il filo del discorso, nel suo avvolgersi, ruotare, riaggomitolarsi si gioca dall’inizio alla fine sulle metonimie del toccare, che Derrida vuole offrire con ammirazione all’amico-discepolo Jean-Luc Nancy. Nancy sa che pensare il toccare non può e non deve significare toccare. “Il passaggio concettuale, se così si può dire, dell’argomentazione tra l’estensione del corpo (facilmente comprensibile per il senso comune, attributo essenziale della sostanza corporea per Descartes, componente eidetica di ogni cosa materiale e di ogni res trascendente e tangibile per Husserl) e l’estensione della psiche o del pensiero (estensione paradossale e ribelle all’intuizione, alla percezione, alla coscienza), è ciò che in tutte e due eccede la misura. E dunque la misura comune. È dunque la misura comune. È la loro comune incommensurabilità” (p. 39). Su questa storica discussione e/o spiegazione non rifugge dal confrontarsi con Descartes. Essendo l’anima unita al corpo, a tutto il corpo, siamo di fronte a una contraddizione doppia: non è plausibile pensare che lo spirito sia estensione nella ghiandola pineale, né pensare l’estensione come un punto. E non è del tutto peregrino ricordare la definizione geometrica di punto che certamente Cartesio ha davanti (il punto è ciò che non ha parte alcuna, cioè che non occupa spazio alcuno), che anche Kant accoglie, fedele per tutta la vita alla geometria euclidea.
Ma riprendiamo il lungo cammino sul senso del tatto. I sensi sono cinque, tre oggettivi (tactus, visus, auditus), due soggettivi (gustus, olfactus). Secondo certi criteri il primo è il tatto perché è il solo senso della percezione esteriore immediata, quindi più certa. Questo ha pensato e scritto Kant in Antropologia dal punto di vista pragmatico: il senso del tatto, il valore “conoscitivo” del tatto si prova esemplarmente nella mano, la mano dell’uomo. Questo, muovendo da altri contesti, hanno pensato dopo di lui Husserl e Heidegger. Aristotele con la sua prosa da anatomista ha scritto che “il tatto è il solo senso che sia indispensabile all’esistenza del vivente in quanto tale. Gli altri sensi non sono destinati ad assicurare l’essere dell’animale o del vivente, ma soltanto il suo ben-essere (435b20-25). Ma senza il tatto, l’animale non potrebbe esistere” (p. 68).
In Corpus, Nancy designa il toccare come un rapporto a sé del mondo, del nostro mondo. Scrive che il nostro mondo (Corpus) si tocca da sé, si tocca per diventare mondo, ma anche per uscire da se stesso. È il Corpus dell’umanità cristiana o addirittura abramica, giunto oggi alla fase di un autosuperamento che forse gli è profondamente proprio. Nel Cristianesimo è centrale la presenza del Corpus, inteso come carne, basti ricordare l’incarnazione, la transustanziazione, la nascita e il rigetto, la sacralità del pane e del vino, hoc est enim corpus meum. E Nancy con la sua ricerca avvia la sua personale decostruzione del Cristianesimo, la sua decostruzione dell’anima. Dire di Psiche che è estesa, pertanto, significa ricordare che rimane o dovrebbe rimanere, in quanto corpo, tangibile. Significa, ancora, ricordare che la sua estensione non è quella di Descartes né quella di Kant.
Bisogna toccare senza toccare, cioè saper toccare senza toccare, senza troppo toccare, “in questo corpus del tatto non si tratta tanto di fare una lista categoriale delle operazioni che consistono nel toccare quanto di pesare, cioè pensare, ciò che in mille modi si dona al tatto, cioè il corpo, il corpus, in quanto esso pesa. E dunque che, in un certo modo pensa” (p. 98). Pensare il peso, e dire la pesantezza del pensiero, non è un chiasmo letterario. Nessuno può negare l’affinità tra pensiero e peso, tra leggerezza e pesantezza, essa è confermata da spostamenti semantici, quali denken e danken, thinking e thanking.
Verso la fine degli anni ‘80 del secolo scorso, nell’evoluzione del pensiero di Nancy il corpus viene indagato, toccato, quasi violato dalla techne. Derrida allude all’operazione di trapianto di cuore subita da Nancy. E riprende la sua e di Nancy analisi cristiana del tatto: “Tutti i vangeli presentano il corpo cristico non solamente come un corpo di luce e di rivelazione, ma, in modo non meno essenziale, come un toccante e toccato, come una carne toccante-toccata” (p. 132). I Vangeli sono in tal senso, se si esclude il Vangelo secondo Giovanni, una sorta di aptica generale. Fin troppo evidenti le tracce, sparse nell’opera dei padri cristiani, in Agostino, e via di seguito. La vita di Gesù è piena di episodi in cui il toccare è decisivo, per Gesù toccare è anche comunicare, mettersi a diretto con-tatto con gli uomini.
Nella seconda parte del volume Derrida, che fino a questo momento ha per lo più commentato Nancy, sente il bisogno di proporre alcune storie esemplari della “carne”. Cerca di farlo con alcune tangenti, che meglio rappresentano la sua fenomenologia del toccare, il suo modo tattile di fare filosofia. “Una tangente tocca una linea o una superficie, ma senza tagliarla, senza una vera intersezione, in una sorta di pertinenza impertinente. Tocca in un sol punto, ma un punto che non è nulla: limite senza spessore e senza superficie” (p. 169). Ritorna al tatto, ai sensi, e si chiede: che ne è, a questo punto, della divisione dei sensi? Aristotele ha detto: si può vivere senza vedere, udire, gustare, sentire (nel senso dell’olfatto), ma non si sopravviverà mai un solo istante senza essere a contatto, in contatto. L’essenza del tatto è l’attività motrice e la mano ne è l’espressione privilegiata, più alta. Anassagora, prima di Aristotele, ha trattato diffusamente della mano, ha detto che le mani permettono all’uomo di essere il più intelligente degli animali, ma il modello di uomo che Anassagora ha in mente è l'uomo che ha le mani e le usa, l'uomo tecnico che proprio in quegli anni in Atene si imponeva a pieno titolo nel contesto sociale. Nancy, invece, tende a lasciarsi alle spalle la tradizione: “A me sembra che Nancy rompa con queste metafisiche aptocentriste, o comunque ne prenda le distanze. Il suo discorso sul tatto non è intuizionista, né continuista, né omogenista, né individualista. Richiama prima di tutto la divisione, la partizione, la discontinuità, l’interruzione, la cesura: la sincope” (p. 201).
Husserl, in Ideen II, ha trattato diffusamente la relazione senziente-sentito, toccante-toccato, soggetto-oggetto; Merleau-Ponty è pervenuto a una sorta di “riabilitazione ontologica del sensibile”; ma Nancy non la condivide, perché non crede alla confusione dell’uno nell’altro, dell’io e dell’altro. Né intende ricadere nella ontologia occidentale con il privilegio della vista, tornare all’inizio, all’ontologia greca con l’intuitus che guida ogni interpretazione della conoscenza, in conformità del primato del “vedere”, come ha fatto Kant, come ha fatto a modo suo Heidegger: “Kant infatti scrive, e Heidegger lo sottolinea: ‘Quale che sia il modo e il mezzo con il quale (durch welches Mittel) una conoscenza può rapportarsi a degli oggetti, quello in cui tuttavia essa si rapporta a loro immediatamente (unmittelbar), e a cui tende ogni pensiero in quanto mezzo c.m., è l’intuizione (und worauf alles Denken als Mittel abzweckt, die Anschaung)’” (p. 256).
Nella Tangente IV Derrida cerca di isolare alcuni motivi tra le diverse eredità filosofiche mantenendo fede alla regola esplicita nel contratto del libro: Le toucher, Jean-Luc Nancy. Nancy ha usato il termine portage per indicare “una partecipazione, una incontestabile prossimità, delle affinità, degli incroci, una sorta di comunità o di contemporaneità del pensiero, della lingua, del discorso. Ciò che noi chiamiamo tangenza. Ma esse significano anche un’altra cosa, sempre nell’uso alla Nancy che facciamo di questa parola, e cioè una partizione partition che spartisce départage, un’altra partenza (‘altra partenza’ è una citazione da Nancy che presto preciserò), un altro modo di procedere, un’altra scrittura, e, spesso protetta, dissimulata, appena decifrabile sotto enunciati che sembrano dipendere dalla stessa koiné” (p. 274). Nancy ci parla della portage dell’alterità che seguirebbe la linea della tecnica da una parte e di un al di là del cristianesimo. Il corpus da cercare sarebbe, quindi, da una parte un corpo originariamente propizio a una techne, dall’altra un corpo impegnato in una decostruzione della “carne” cristiana.
Ma perché Nancy insiste tanto sulla carne? Lo fa per avviare la decostruzione del cristianesimo come decostruzione del corpo, dunque del tatto cristiano, ma anche u-manista e antropo-teologico. Il cuore del cristianesimo è la dottrina dell’incarnazione, e basilare per essa è la dottrina dell’homoousia. San Tommaso ha cristianizzato l’aptologia. Dalla greca Psiche, da un tatto sensibile l’Occidente cristiano è transitato al tatto spirituale, al corpo dell’incarnazione, dell’eucarestia, del dono, della promessa e della memoria. Verso la conclusione Derrida si appella al succo della ricerca di Nancy, in particolare al libro Corpus: “Senza raccogliere, egli raccoglie sulla parola corpus, che soprattutto non si può tradurre semplicemente con corpo, tutti i linguaggi che vengono a ‘dire’ la disseminazione” (p. 355), ricordando che tra i corpi e le immagini dei corpi vi sono sempre degli interstizi, dei limiti, dei bordi. Chiude con un invito: “Rimangono da pensare insieme il primo bacio e il suicidio, il principio e l’atto della filosofia autentica, la loro giovinezza e la loro disciplina. Compito impossibile d’una aptologia generale” (p. 363). Dando atto a Nancy di aver cercato di farlo con un pensiero iperbolico che mette in gioco, senza riserve, corpo e anima, un pensiero che pone davanti la questione (filosofica) del toccare.


L'autore

Jacques Derrida (1930-2004), filosofo di origine ebraica, noto come il fondatore del decostruzionismo, è riconosciuto come uno dei maggiori filosofi del nostro tempo. Numerosa e molto varia la sua produzione saggistica. Tra le sue opere più note: L'écriture et la différence, De la grammatologie, La voix et le phénomène, La dissémination, Marges de la philosophie, Glas, La Vérité en peinture, La Carte postale: de Socrate à Freud et au-delà, De l'espirit: Heidegger et la question, Limited, Inc., Du droit à la philosophie, Politiques de l'amitié: suivi de l'oreille de Heidegger, Adieu à Emmanuel Lévinas.

martedì 7 febbraio 2006

Derrida, Jacques, Abramo, l’altro, a cura di Giovanni Leghissa e Tatiana Silla.

Napoli, Cronopio, 2005, pp. 92, € 10,00, ISBN 88-89446-05-6.

Recensione di Francesco Tampoia - 07/02/2006

Filosofia della religione, Filosofia teoretica, Storia della filosofia (contemporanea)

Nella Prefazione, abbastanza ampia e articolata se rapportata al testo derridiano, Giovanni Leghissa e Tatiana Silla precisano che il volumetto presenta il testo della conferenza di apertura, affidata allo stesso Derrida, a un convegno dal titolo Judeites. Questions pour Jacques Derrida, svoltosi a Parigi dal 3 al 5 Dicembre 2000. 
Dalle prime pagine leggiamo che “Derrida ha sempre negato che una sorta di ebraicità sia all’opera in quel peculiare modo di fare filosofia che è la decostruzione” (p. 10), che il filosofo ha sostenuto con forza che non esiste un decostruzionismo al singolare: “La decostruzione, in quanto interrogazione permanente dell’eredità del proprio luogo, delle proprietà e dell’appropriazione, ha di mira ciò che precede tutte le filiazioni e le derivazioni”(p. 11-12). Lungi dall’assegnare legittimità a questa o a quella politica dell’identità, la decostruzione intende smontare la certezza pacificante e consolatoria che solitamente accompagna le ricostruzioni del passato, perché la decostruzione si pratica nella consapevolezza di muoversi all’interno di un magma (chora) confuso e sfuggente che precede e accomuna idee e oggetti mondani. Rispondendo alla domanda principale posta al convegno, Derrida afferma che se è lecito parlare di ebraismo, a suo riguardo, si tratta dell’ ebraismo di un marrano. “Il marrano, in senso proprio, è colui che ha dovuto tradire la propria origine ebraica costretto a farlo non solo per salvarsi la pelle, ma anche per salvare qualcosa del proprio ebraismo” (p. 13) e pertanto “l’identità che il marrano custodisce, dovendo rimanere nascosta, dovendo esporsi al rischio di cancellazione, si fa alterità, si trasforma in qualcosa che non può essere esibito in forma pura” (p. 14). 

I prefatori fanno riferimento a un testo, in parte gemello alla conferenza Abramo, l’altro, una vera e propria autobiografia di Derrida, Circumfessiones,  pubblicato nel 1991, in cui si ha l’impressione che Derrida voglia smontare il genere autobiografia-filosofica confrontandosi con le Confessioni di sant’Agostino. Adottando sapientemente la decostruzione, il confessare di non confessare o per non confessare, Derrida scrive: ”Sono uno di quei marrani che non si dicono ebrei nemmeno nel segreto del loro cuore, non per essere dei marrani che vengono riconosciuti come tali da una parte o dall’altra della frontiera pubblica, ma perché dubitano di tutto, non si confessano mai, né mai rinunciano ai Lumi, costi quel che costi, pronti a farsi bruciare, o quasi. (p. 15). In Circumfessiones, non ancora tradotto in italiano, il filosofo riscopre frammenti, echi, evoca ricordi che mescola abilmente con l’autobiografia di sant’Agostino, mentre si accorge che sta imitando, mimando, decostruendo il capolavoro agostiniano. Gioca con alcune analogie e, riportando frasi dal testo latino delle Confessioni, dichiara il suo amore e l’immensa ammirazione per sant’Agostino, si apparenta, per alcuni tratti e movenze al Petrarca del Secretum, pone delle domande al santo non solo sulle sue confessioni, ma anche sulla sua politica, esercita, insomma, una decostruzione a due insieme con lui. Del resto la somiglianza con le vicende personali di Agostino non è peregrina. La terra di origine, il Magreb, Georgette, la madre di Derrida, una specie di Monica giudea, che morì in Europa, a Nizza, la ribellione giovanile, i compromessi e le difficoltà di un provinciale che cerca il successo nella metropoli, etc. Ma fra Derrida e Agostino vi è ben altro. La tradizione teologica di Agostino è la quintessenza del logocentrismo occidentale, e la deconstructione derridiana vuole essere la decostruzione del logocentrismo dell’intera tradizione occidentale religiosa e laica.

Parallela all’aporia ebreo/non ebreo è l’altra autentico/inautentico, in parte mutuata dalle famose pagine del capolavoro heideggeriano Essere e Tempo. Altro tema aporetico, infine, quello dell’ospitalità (cfr. Sull’ospitalità), ripreso in diverse occasioni e nelle sue varie sfaccettature, come lo hanno inteso i Greci, come lo ha affrontato Kant nello scritto Della pace perpetua. Spostandosi oltre Kant, Derrida tende a far debordare la dialettica ospitalità incondizionata/os.condizionata in una sfera etica che oltrepassa il diritto, allo stesso modo della morale stoica o della teologia paolina (vedi Efesini, 2, 19-20), nella convinzione che il principio della legge è la divisione, la separazione.   

Dopo aver iniziato il lettore alla conferenza derridiana, mi affretto alla lettura diretta del testo per coglierne i principali passaggi e il nucleo argomentativo. Abramo, l’altro, è impostato dall’inizio alla fine sui due registri, da una parte la presenza di un’identità inammissibile dall’altra la necessità di confrontarsi con il proprio ebraismo, la propria biografia, la propria storia.

Derrida prende lo spunto da una frase tratta da un raccontino di Kafka, “Potrei, per me, pensare un altro Abramo” (p. 31). Cosa significa? Che posso immaginare o concepire, nella sconfinata libertà del mio pensiero un altro Abramo, e forse un altro ancora? E poi, riferendomi al testo biblico, chiedermi ma quale Abramo è stato chiamato? Quale dei diversi Abramo è stato chiamato?

Indubbiamente colui che risponde alla chiamata si prende una certa responsabilità, ha ascoltato, ha sentito la chiamata. Derrida propone alcuni percorsi alternativi, di cui ho già detto nel commento alla Prefazione. Primo: la dicotomia ebreo/non ebreo può essere configurata come una dissociazione tra le persone della declinazione dei verbi, tra i pronomi personali. Secondo: l’alternativa ebreo autentico/ebreo inautentico, di cui si occupò Sartre, in seguito alla lettura di Essere e Tempo di Heidegger mezzo secolo fa, può essere approfondita con l’ausilio dei due filosofi. Terzo. va accettata ed esplorata la dissociazione tra l’ebraicità e l’ebraismo.

Nel trattare in prima persona il suo essere/non essere Ebreo, Derida prosegue: “L’ingiunzione contraddittoria che avrebbe così ordinato la mia vita, mi avrebbe detto in francese: guardati dall’ebraismo - o anche dalla stessa ebraicità. Guardatene per custodirlo, guardatene sempre un po’, guardati dall’essere ebreo per conservarti ebreo o per conservare l’Ebreo in te. Custodisci l’ebreo che è in te,  prenditene cura. Pensaci bene, sii vigilante, usa riguardo verso il tuo ebraismo, e non essere ebreo a qualunque prezzo. Anche se tu fossi il solo e l’ultimo a essere ebreo a un simile prezzo, pensaci su due volte prima di dichiarare una solidarietà di tipo comunitario o nazionale, men che meno se legata allo stato-nazione” (p. 41). E qui il filosofo si chiede se la prescrizione della legge che separa ebreo da non ebreo, circonciso da non circonciso, così intensamente vissuta e discussa da S. Paolo, possa essere perennemente valida.

L’ordine, l’ingiunzione sarebbe quella di mantenere il silenzio. Un silenzio scelto, ma anche non scelto di fronte a una condizione esistenziale di colpevolezza apriori, di un debito originario, di un torto congenito “che si trova ovunque e particolarmente presso pensatori sedicenti cristiani, anticristiani o atei come Kierkegaard o Heidegger, perché l’argomentare universale di questa singolare requisitoria viene da me, da sempre, quasi sempre, oscuramente, si salda alla questione della mia appartenenza all’ebraicità o al giudaismo” (p. 43-44).

Parlare o non parlare? Dire o non dire?

L’oscillazione derridiana è un gioco, ma non un doppio gioco, né una qualsivoglia o ingenua opposizione, come erroneamente hanno pensato alcuni lettori e/o critici. Né la pratica decostruttiva derridiana mira a formare delle coppie di opposti binari, uno dei quali acquista gradatamente la preminenza mentre l'altro viene marginalizzato, ancor meno realizza un libero gioco di due opposti, senza alcuna connotazione gerarchica, magari in attesa della sintesi. Il suo dualismo, opposizione dei termini, non è, e non può sussistere come giustapposizione meccanica, a posteriori, esterna, è, invece, simile a una traccia originaria, con valore attivo e passivo, che è dentro e fuori. La traccia per Derrida è prima dell’ente, come un significato in posizione di significante, né il Nostro avverte la nostalgia dell’origine.

In queste pagine ricorda il suo cammino esistenziale e come la parola ebreo gli sia stata appioppata per la prima volta nella lingua francese d’Algeria dei primi anni di vita. Ricorda che “la parola “ebreo” credo di non averla mai sentita all’interno della mia famiglia, né come una designazione neutra e destinata a classificare, né destinata a identificare l’appartenenza a una comunità sociale, etnica o religiosa. “Credo di averla sentita nella scuola di El Biar ed era già carica di quel che si potrebbe chiamare un’ingiuria, in latino iniuria, in inglese iujury, allo stesso tempo un insulto, una ferita e un’ingiustizia, una negazione del diritto piuttosto che il diritto ad appartenere a un gruppo legittimo” (p. 47) Gli è stata affibbiata questa parola, anzi l’espressione sporco ebreo, con l’esplicita attribuzione di una colpa, prima che avesse commesso alcun errore. Ricorda che ha giocato, senza effettivamente giocare, a soprannominarsi l’ultimo degli ebrei, colui che non meriterebbe il titolo di Ebreo autentico, il marrano che però è ebreo, perché crede che meno ti mostrerai ebreo più e meglio lo sarai. Ricorda ancora che da ragazzo l’osservazione diretta di quello che avveniva agli ebrei ha avuto in lui effetti non simili agli altri ragazzi ”Ma la stessa sofferenza e la stessa compulsione a decifrare i sintomi mi hanno, anche, in modo paradossale e simultaneo, allertato contro la comunità e il comunitarismo in generale, a cominciare dalla solidarietà reattiva, così fusionale e talvolta non meno gregaria, di quel che costituiva il mio entourage ebraico”(p. 56) Gli è rimasta la diffidenza verso il comunitarismo e la diffidenza nei confronti delle frontiere, delle  opposizioni, che pure ha sempre visto con rispetto, secondo le procedure della decostruzione, valorizzando i margini, i luoghi di frontiera, le zone franche situate come intercapedine nel mezzo degli opposti, gli è rimasta la diffidenza portatrice di aporeticità che “mi ha dunque spinto a elaborare una decostruzione, ma anche un’etica della decisione o della responsabilità esposta alla resistenza dell’indecidibile, alla legge della mia decisione come decisione dell’altro in me” (pp. 59-60).

Più avanti il riferimento al volume di J. P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica del 1954, letto all’età di vent’anni. Sartre indugia sulla distinzione Ebreo autentico ed Ebreo inautentico con alcune pagine sulla figura del piccolo ebreo che si sente separato dagli altri bambini, escluso, fa una difficile precoce esperienza: “Ecco dunque una sorta di scena primitiva nel corso della quale la rivelazione di una verità rompe ed esclude, lasciando soltanto tracce di turbamento nell’identità, nella distinzione tra il dentro e il fuori, in “in sé” e il “fuori di sé” (p. 68). 

Riprendendo l’ambiguità insita nel dualismo autentico/inautentico, aggiunge “quel che semplicemente volevo confidarvi a nome mio, se posso ancora dire così, è che ci tengo a dire “io sono ebreo” o “io sono un Ebreo” senza sentirmi mai autorizzato a precisare un Ebreo “inautentico” o, soprattutto un Ebreo “autentico”, né nel senso limitato e molto francese di Sartre, né tanto meno in un senso che da me potrebbero attendersi degli ebrei più sicuri della loro appartenenza, della loro memoria, della loro essenza o della loro elezione”(p. 83). E tornando, infine, allo spunto iniziale, quello della chiamata: cosa faccio quando, chiamato, rispondo all’appello e tengo a presentarmi come Ebreo? Quale nesso si determina tra il fare e il sapere, tra fede e sapere? “Chiunque sia sicuro (come invece giustamente non lo era l’altro, il secondo Abramo di Kafka), chiunque creda di detenere la certezza di essere stato lui il solo, lui per primo, chiamato come il primo della classe, trasforma e corrompe la terribile e indecisa esperienza della responsabilità e dell’elezione in caricatura dogmatica, con le più temibili conseguenze che si possano immaginare in questo secolo, soprattutto quelle politiche” (pp. 84-85).

La conclusione, si fa per dire, è che non è assicurata la distinzione tra inautentico e autentico, tra ebraismo ed ebraicità. Ne aveva discusso acutamente Freud su Mosé per concludere pressappoco in questo modo: se si domandasse a questo Ebreo (cioè a lui stesso): “Dal momento che avete abbandonato tutti questi caratteri comuni ai vostri compatrioti, che cosa vi resta di ebraico?”, costui risponderebbe: “Molto e probabilmente la stessa sua essenza”. Non potrebbe esprimere subito questa essenza con l’aiuto delle parole”(p. 86). Resta, tuttavia, una certa eredità. Di modo che nel groviglio delle direzioni, religiose, storiche, filosofiche, linguistiche, giuridiche, politiche, nel crogiolo preistorico e proteiforme, archiscrittura, spesso chiamato chora emergono due postulati contradittori: da una parte è là che si trova la condizione per affrancarsi, dall’altra l’affrancamento può essere interpretato come il contenuto stesso della rivelazione o dell’elezione, rifiuto del nihilismo e consapevolezza dello scacco cui deve far fronte l’uomo.

“Che ci sia ancora un altro Abramo, ecco dunque il pensiero ebraico più minacciato ma anche il più vertiginosamente, il più estremamente ebraico che io conosca fino ad oggi” (p. 92). Lungi dall’avallare il nichilismo della distruzione, Derrida ha scelto la decostruzione della metafisica occidentale e, nelle opere degli ultimi anni come Abramo, l’altro, l’autointerpretazione del soggetto.

È il lascito più fecondo della sua filosofia, in particolare della sua ultima stagione che siamo chiamati ad approfondire.

Indice

Prefazione, Le gallette di Purim.                                                              
Abramo, l’altro.

Gli autori

Jacques Derrida (1930-2004) filosofo e critico letterario, di origine ebraica, è noto come il fondatore del decostruzionismo. Numerosa e molto varia la sua produzione saggistica. Tra le sue opere più note: L'écriture et la différence, De la grammatologie, La voix et le phénomène, La dissémination, Marges de la philosophie, La Carte postale: de Socrate à Freud et au-delà, De l'espirit: Heidegger et la question, Politiques de l'amitié: suivi de l'oreille de Heidegger, Adieu à Emmanuel Lévinas.