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lunedì 9 gennaio 2017

Longo, Anna, Rigotti, Francesca, «Una donna per amico». Dell’amicizia in generale e dell’amicizia delle donne

Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, pp. 69, euro 10, ISBN 978-88-9314-026-3.

Recensione di Alessandra Granito - 14/07/2016

Il bisogno sociale di un uso critico e dialettico del pensiero, la necessità di una filosofia non addomesticata come antidoto contro la sempre più impersonale e corrosiva comunicazione mediatica, è la cifra che segna l’impegno appassionato del festival “Filosofia al mare” di Francavilla-Ortona (Abruzzo), un evento che annualmente si ripete in serate estive, in piazza, al mare, animato da conversazioni d’occasione in cui eminenti filosofi e storici della filosofia divulgano, con chiarezza argomentativa e ampio respiro problematico,

giovedì 11 luglio 2013

Sandel, Michael J., Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato

Traduzione di Corrado Del Bò, Milano, Feltrinelli, 2013, pp. 233, euro 22, ISBN 978-88-07-17257-1.

Recensione di  Francesca Rigotti - 20/05/2013

La star intellettuale degli Stati Uniti è oggi il filosofo comunitarista Michael J. Sandel (comunitarista nel senso che esalta il momento comunitario sostenendo che non c'è vita individuale fuori della comunità). Le lezioni di Sandel all'università di Harvard sono affollatissime: agli entusiasti studenti vengono proposti continuamente esperimenti mentali che presentano dilemmi morali tratti dalla vita quotidiana, per i quali non c'è una soluzione prestabilita. Si arriva pian piano a possibili, anche divergenti, risultati,

domenica 9 gennaio 2011

Rigotti, Francesca, Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità.

Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 184, € 16,00, ISBN 9788833921464

Recensione di Denise Celentano – 9/1/2011

Filosofia della vita quotidiana

In “Partorire con il corpo e con la mente” Francesca Rigotti mette in luce il rapporto tra maternità e filosofia che la tradizione filosofica, mitologica e letteraria, ha reso problematico a causa di un apparato ideologico rigidamente divisorio rispetto alle competenze dei generi. Avvalendosi di un approccio definito ‘analogistico’ e ‘metaforologico’, proprio del genere della ‘filosofia della vita quotidiana’(p. 15), l’autrice intende ricostruire quel rapporto ripensando ‘la maternità alla luce della filosofia e la filosofia alla luce della maternità’ (p. 13) nel loro profondo nesso con la creatività; compito difficile in mancanza di una relativa tradizione di pensiero che consenta di gettare luce sul problema con più sicurezza. Tante, infatti, le domande che si sovrappongono nel corso del testo, articolato in capitoli che tematizzano i rispettivi poteri creativi - fisico e mentale - da diverse prospettive, incastrate in modo densamente articolato a mo’ di ‘«scaglie di pesce»’ (p. 15).

La ‘zavorra della storia’ (p. 37) con cui fare i conti consiste in un panorama culturale generalmente denigratorio non solo rispetto al femminile, ma nello specifico al potere procreativo delle donne, nelle forme della rimozione e del ‘furto’. Il fatto del mettere al mondo è esistito nell’immaginario filosofico e letterario come nascita del figlio piuttosto che come parto della madre, ma ‘nascita e parto non sono lo stesso evento’ (p.138), e trascurare sistematicamente la “dualità” del momento procreativo significa dimenticarlo; il parto, quando  considerato, risulta ‘anomalo, dal momento che la madre è assente’ (p. 26-27), all’insegna di un’autentica rimozione della figura materna nei contesti che pure raccontano della generazione: è l’‘oblio del parto’. Come ‘in molti dialoghi platonici quali Fedro, Teeteto o Simposio, la seduzione e l’inseminazione mentale sono una faccenda tutta di uomini in cui non c’è posto per le donne’ (p. 25), così i miti stessi, dalla funesta Pandora a Pallade Atena “nata dal capo” di Zeus;  e l’immaginario, che parla di cavoli e cicogne per raccontare la procreazione, perpetrano l’oblio del parto e della maternità. Determinante in ciò il contributo di una ricchissima tradizione filosofica e letteraria, la cui sottesa ‘prospettiva epistemica riserva all’uomo la testa, alla donna, e in particolare alla madre, il cuore’ (p. 33) che definisce naturali delle caratteristiche femminili in modo ideologico e strumentale, laddove ‘l’essenza della donna non è altro che una facile etichetta da appiccicare quando conviene. È la cultura ad attribuire dei caratteri che poi, per comodità di alcuni e pigrizia di altri, vengono definiti naturali’ (p. 35-36). 

Eppure, questa grande assente dalla storia che è la maternità, emerge là dove i filosofi e i letterati di parto e di generazione hanno parlato, appropriandosi del campo semantico del parto fisico della donna per usarlo, mediante “traslazione metaforica”, in riferimento alla creazione intellettuale: ‘«abortire» un’idea, «nutrirla» e «alimentarla», oltre che «concepirla» e «partorirla»; la «nascita» di un progetto «in embrione»; il «concetto» come prodotto di una mente «fertile» (in caso negativo «sterile»), da «partorirsi» con gran «travaglio» (…) per poi «venire alla luce» attestando la «paternità» dell’idea stessa (mai però la «maternità»)’ (p. 81). La filosofia è allora il parto, “nobile”, dell’uomo.

Tale assenza costituisce il presupposto di un’espropriazione. La superiorità del parto spirituale maschile è l’aspetto che emerge prorompente, in una gerarchizzazione che risulta inoltre coerente con l’ideologia - talvolta implicita, spesso dichiarata - secondo cui la procreazione fisica femminile esimerebbe la donna dal bisogno e finanche dalla capacità della creazione culturale. La divisione in compartimenti stagni dei generi e delle rispettive competenze prende forma, dunque, attraverso un meccanismo espropriativo che, sottolinea l’autrice, è importante inquadrare nel contesto del più ampio “paradosso di Arianna”: il furto da parte dell’uomo di ogni capacità tradizionalmente femminile, sistematicamente relegata all’ambito del concreto, del basso, del quotidiano, la cui nobilitazione deve giocoforza passare per l’appropriazione maschile – dalla cucina alla tessitura passando per il contatto con l’acqua, che in mano femminile sono banali attività domestiche, e in mano maschile diventano prestigiose. 

Tale rigida divisione competenziale, tracciata su uno sfondo fortemente essenzialista, evoca ulteriori polarizzazioni concettualmente discutibili perché nascondono dicotomie ideologiche forti, come quella astratto/concreto, dove il primo è maschile, il secondo femminile: entrambi rinviano a un giudizio di valore netto per cui l’astrazione sarebbe superiore a ciò che è ‘basso, creaturale, terrestre’ (p. 43) come la maternità, mentre, a guardar bene, riflette Rigotti, l’astrarre della filosofia è etimologicamente un “detrarre” tramite selezione dal concreto, dunque semplificazione del complesso; ciò che è concreto risulta invece meno semplice da affrontare dacché ‘la concretezza richiede invenzione di alternative’ (p. 43-44). 

Ribaltata la prospettiva dicotomica e le basi della pretesa nobilitazione, Rigotti rileva che se tali sono state le rappresentazioni di filosofia e maternità, quest’ultima parrebbe inconciliabile con il lavoro intellettuale, che tradizionalmente richiede dedizione, costanza, continuità, tempo e silenzio. L’autrice trasforma questo lascito storico problematico in una domanda: è proprio vero che aut liberi aut libri (per le donne, mai per gli uomini)? Non potremmo parlare piuttosto in termini di vel vel o di et et? Hanno davvero ragione quei filosofi che attribuiscono, in modo reciprocamente escludente, la creatività fisica alla donna e quella mentale all’uomo? La prospettiva antiessenzialista aiuta a gettare luce sulla risposta: se, come insegna Rorty, non esiste una natura dell’uomo, e ciò vale parimenti per la donna, lo stesso deve valere per la filosofia – tanto più che se questa necessita di tempo, la mancanza di tempo è un problema che oggi accomuna tutti/e, madri e non. 

La riproposizione critica del retaggio filosofico e la sua attiva problematizzazione, precede la pars costruens del libro, che riflettendo sulla vita di G.E.M. Anscombe e sul testo di Sara Ruddick The maternal thinking (1989), prospetta un nuovo modo di interpretare il rapporto tra maternità e filosofia. Tale rapporto non è necessariamente come ci è stato raccontato: lo dimostra la vita di Anscombe, geniale allieva di Wittgenstein, che riuscì ad essere madre e filosofa, il cui messaggio filosofico Rigotti interpreta servendosi di una chiave concettuale inusitata, quella appunto della maternità. L’anticonsequenzialismo e lo stesso concetto di intenzione elaborati dell’autrice di Intention (1957) sono letti da Rigotti alla luce del suo essere madre, la cui traccia è rinvenibile nella sua filosofia, costituendone un vantaggio speculativo. Vantaggio che Ruddick riassume nelle virtù dell’amore e dell’attenzione, alle quali Rigotti aggiunge ‘programmazione, coordinamento, organizzazione’ (p. 65), ‘simboli di conoscenza’ relativi al ‘pensiero materno’. Sviluppando le riflessioni proposte nel volume Donna m’apparve [a c. di N. Vassallo, Codice Edizioni, 2009], l’autrice ricorda che il pensiero materno è, al pari del pensiero nomade di Deleuze, un paradigma trasversale, non, dunque, una specificità cognitiva propria delle madri di fatto (ciò esporrebbe nuovamente al rischio di una deriva essenzialista), bensì un simbolo di conoscenza riferito alle qualità cognitive che l’esercizio della maternità sollecita, perciò trasferibile ad ogni contesto. 

Esiste, dunque, non solo la concreta possibilità di conciliare ciò che si credeva incompatibile, l’esercizio della maternità e quello della filosofia, in virtù della passione per entrambe, grazie alla disponibilità alla fatica e al sacrificio; ma anche un potenziale cognitivo della maternità, la quale, in linea con il ribaltamento della dicotomia ideologica astratto/concreto, ha molto più a che fare con la genesi del giudizio morale e del giudizio estetico, dunque con la filosofia, di quanto si sia voluto credere nei secoli: ‘tutte le capacità, anche le più astratte, nascono come pratiche corporee’ (p. 56).

Trasferendo i risultati della riflessione al tema della creatività, Rigotti può ora parlare di ‘furto della creatività’: ‘il fatto’, preannunciato, ‘che il processo creativo mentale viene spiegato con metafore materne’ (p. 79) nasconde un meccanismo meno innocente del “semplice” “trasferimento del noto all’ignoto” impiegato generalmente nel processo metaforico. Dietro l’espropriazione finanche semantica si cela, infatti, ‘una descrizione valutativa in senso negativo, dispregiativa quindi, dal momento che l’identica terminologia che usiamo per descrivere la produzione di figli cartacei e di figli carnali non presume affatto che tutti gli esseri umani possano generare gli uni e gli altri. Passa tra gli uni e gli altri infatti il famoso confine di gender che dice inesorabilmente: alle donne i figli di carne, agli uomini i figli di carta’ (p. 80). Se la ‘metaforica della creatività’ (p. 92) fortemente contrassegnata dal lessico materno ha fra l’altro  motivato l’espressione derridiana di “fallogocentrismo”, d’altra parte c’è chi, come George Steiner, ha affrontato di petto la questione chiedendosi se l’appagamento dato dalla poiesis fisica alla madre non fosse la spiegazione della sua pressoché totale assenza nella produzione culturale. Ma resta discutibile, sottolinea Rigotti, argomentare sulla base di ciò una presunta inferiorità delle donne, mettendo nuovamente in guardia dal rischio di una ricaduta essenzialista. 

La rimozione della maternità in senso espropriativo ha condotto ‘nella maggior parte delle mitologie e delle religioni’ (p. 98) persino a sottostimare la nascita dalla madre mediante l’introduzione di una seconda nascita, spirituale, nel ‘tentativo di «nobilitare» la dottrina  mettendo a distanza l’ingresso nel mondo da ventre femminile e ignorando il ruolo della donna, la cui presenza svaluta e impregna negativamente ogni fenomeno cui venga collegata: persino la nascita’ di cui è, dopotutto, ‘coprotagonista’ (p. 113). Ciò è vero poiché, continua Rigotti in riferimento ai cristiani, ‘attraverso la propria madre si viene in un mondo di dolore e di morte, nello sporco, inter faeces et urinas; tramite Cristo, «in Cristo», si nasce alla gioia e alla vita eterna. Infatti, il battesimo è un rito di purificazione nel quale il nuovo nato viene pulito e lustrato dalla contaminazione dalla madre’, realizzando una sorta di ‘nascita sostitutiva’ (p. 117) tutta maschile. L’autrice invita dunque ad “accontentarsi” ‘dell’unica nascita, dell’unica vita e dell’unica morte che in verità ci competono’ per capire ‘in che relazione esse stiano con le nostre capacità uniche e a noi peculiari, in particolare con la creatività’(p. 144).

In un crescendo di suggestioni, articolato all’interno di una densa trama di riferimenti filosofici e letterari, il testo di Francesca Rigotti si conclude con un excursus breve e intenso sulla creatività, proponendo nel capitolo Delle cose prime una riflessione sul modo in cui i filosofi hanno ragionato sul principio, le origini, la nascita (Heidegger, a Arendt, a Sloterdijk, e altri). L’obiettivo è quello di ‘pensare a una creatività ispirata davvero alla maternità, alla nascita e al parto’(p. 145), aggirando il processo espropriativo del “paradosso di Arianna” rispetto al quale questo libro è un valido antidoto.

Indice

Premessa
Introduzione
Parte Prima
1. Il paradosso di Arianna
2. «Cuore di mamma» e «Testa di mamma»: il caso di G.E.M. Anscombe
3. Il pensiero materno: tempo del filosofo e tempo della madre
Parte Seconda
4. Creatività e maternità
5. La seconda nascita
6. La filosofia della nascita
7. Delle cose prime
Bibliografia
Indice dei nomi

L'autrice

Francesca Rigotti insegna Concetti e metafore della politica presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera italiana di Lugano. Collabora all’«Unità» e al «Sole 24 ore». Tra i suoi saggi, tradotti in otto lingue: Il potere e le sue metafore (1992), Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare (2002), La filosofia delle piccole cose (2004), La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria (20042), Il pensiero pendolare (2006), Gola. La passione dell’ingordigia (2008).

Link

http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833921464

giovedì 30 settembre 2010

Rigotti, Francesca – Pulina, Giuseppe, Asini e filosofi.

Novara, Interlinea, 2010, pp. 120, euro 14, ISBN 978-88-8212-716-9.

Recensione di Antonella Fani

asini, filosofi

Il volume in oggetto propone una trattazione ampia e variegata sull’asino, svelandone i collegamenti con la filosofia, la cultura, il mito, la favola. Si tratta di un’originale rassegna su ontologia, razionalità, sessualità e voce dell’asino, campione dell’ibridismo e grande protagonista di metamorfosi.
Il pampleth, tutto centrato sulla figura dell’asino di cui spesso si ride o attraverso la cui metafora si deride, mette in evidenza quanto l’asinità possa considerarsi uno stereotipo culturale che ha ispirato molti autori, in campo letterario, filosofico, artistico.
Il “viaggio con l’asino” intrapreso in questo volume mostra, sin dai primi capitoli, il fondo di ambiguità e ambivalenza che appartiene alla rappresentazione di tale animale, dotato di una “intelligente cocciutaggine” (p. 17).
Gli autori sottolineano, in primo luogo, la fondamentale disistima verso tale animale: l’asino viene spesso denigrato, è legato a credenze magiche e a luoghi comuni negativi, tanto che, secondo Giovan Battista della Porta, “l’uomo che somiglia all’asino ha più che un motivo per lagnarsi e preoccuparsi” (p. 23). La correlazione uomo-asino, presente anche negli scritti del vescovo Ambrogio e in quelli di Tommaso Campanella, non fa mai onore all’uomo. Se il cavallo, in generale, viene associato alla trascendenza celeste, l’asino è invece accostato alla diabolicità, per le sue caratteristiche fisiche e, nello specifico, sessuali.
Nel secondo capitolo, si mette in evidenza come l’asino sia metafora di un certo tipo di uomo, poiché “tramite il processo di umanizzazione gli animali sono stati investiti di valori simbolici e metaforici spesso incongrui, e sono stati rappresentati irrealisticamente come tipi morali: […] esseri pazienti anche se bastonati, stupidi quanto mansueti, gli asini” (pp. 33-34). Tuttavia, sebbene l’asino venga anche associato al popolo dei sudditi abituato ad obbedire, l’ambiguità si rivela nello stesso asino-suddito, talvolta, può ribellarsi all’oppressione e trasformarsi.
Nei capitoli successivi, il volume cerca di presentare una ricostruzione del modo di pensare dell’asino, associando a tale animale non solo il fatto di essere oggetto di riflessione dei filosofi, ma anche la suggestiva ipotesi di avere egli stesso un certo pensiero-parola, sulla scia dell’animot di Derrida, in riferimento ad un tempo antico, antecedente al peccato originale, dove tra l’asino e l’uomo non sussisteva questa incomunicabilità. Ecco, allora, che agli aspetti più negativi si affiancano quelli positivi, come quello dell’asino che, con il suo arrivare sempre al termine del viaggio, secondo Le Corbusier, sarebbe il fondatore di molte città o quello dell’asino-confidente, che viene reso partecipe del silenzio di Abramo lungo il viaggio verso il monte in cui avrebbe dovuto sacrificare il figlio. E se per molti lo stesso raglio dell’asino rappresenta un verso sgradevole, per altri è un “prodigio sonoro” che può produrre in chi lo ascolta “un’eco suggestionante” (pp. 56-57),  come accade per il principe Myškin protagonista dell’Idiota di Dostoevskij.
L’asino è, inoltre, il protagonista di problemi logici ben conosciuti, come il paradosso dell’asino di Buridano che tra due mucchi di fieno simmetrici e identici muore di fame non riuscendo a scegliere. È, tuttavia, il paradosso dell’asino logico, incapace di affidarsi al caso per porre l’atto di scelta in cui tertium non daretur, che non esiste nella realtà.
Dell’asino parla, con cruda ironia, Nietzsche: sebbene tale animale sia simbolo di forza, sopportazione e caparbietà, è, in fondo, il prototipo di chi manca di coraggio, le cui unghie non hanno artigli, il cui sguardo è rivolto verso il suolo per cui non avrà mai la coscienza della sua forza. Ha inutili orecchie lunghe che non servono per udire ma sono il contrassegno plebeo di cui bisogna diffidare, perché appartengono a chi non ha sufficiente udito per sentire l’annuncio della morte di Dio. Per Nietzsche, “il suo I-A […] è anche il modo in cui i connazionali dicono di ‘sì’ (Ja)” (p. 89), in cui gli uomini non si pongono con aristocratica fierezza di fronte alla vita.
A conclusione del libro, le ultime interessanti suggestioni sulla realtà asinina arrivano da rappresentazioni attuali, come quella dell’asino Ih-Oh, compagno di Winnie Pooh e quella del Ciuchino dell’orco Shrek: anche in questo caso, permane l’ambivalenza dei due opposti rappresentanti di asinità, l’uno narrazione del tipico filosofo occidentale, un po’ decadente e pessimista, che si lagna del mondo perché depositario di un sapere che gli altri animali del bosco non hanno; l’altro, il miglior amico di Shrek, è il tipo positivo, un asino arguto, che parla e che vola grazie al quale anche l’orco riabiliterà la propria natura.

Indice

1.    Testi introduttivi  
Asini e filosofi
Chi ha paura dell’asino o la malAsinità
Metaforologia asinina
Pensare asino
Problemi di logica asinina
L’asino di Zarathustra
Un raglio di genere
Evoluzioni asinine o la rivincita degli asini


Gli autori

Giuseppe Pulina, nato a Sassari nel 1963, è insegnante di filosofia presso il liceo Dettori di Tempio Pausania e di Antropologia filosofica presso l’Issr Euromediterraneo. È direttore della rivista “Mneme Amentos”. La sua ricerca filosofica si dirige su vari fronti: dal pensiero ebraico contemporaneo alla critica musicale e al rapporto tra filosofia ed etologia. Tra le sue pubblicazioni, L’imperfetto pessimista. Saggio sul pensiero di Michelstaedter (Lalli, Siena 1996), Minima Animalia. Piccolo bestiario filosofico (Mediando, Sassari 2005), Animali e filosofi (Giunti, Firenze 2008), L’angelo di Husserl. Introduzione ad Edith Stein (Zona, Civitella in Val di Chiana 2008) e La cura (Zona, Civitella in Val di Chiana 2010).

Francesca Rigotti, nata a Milano, insegna nell’Università della Svizzera italiana di Lugano. La sua ricerca verte sulle procedure metaforiche e simboliche sedimentate nel pensiero filosofico, politico e nella vita quotidiana. Tra le sue pubblicazioni: Metafore della politica (Il Mulino, Bologna 1988), Il potere e le sue metafore (Feltrinelli, Milano 1992), La verità retorica. Etica, conoscenza, persuasione (Feltrinelli, Milano 1995), La filosofia in cucina (Il Mulino, Bologna 1999), La filosofia delle piccole cose (Interlinea, Novara 2004), Il pensiero pendolare (Il Mulino, Bologna 2006), Le piccole cose di Natale (Interlinea, Novara 2008).

Link

http://www.amicidellarte.it/pulina/index.html
http://www.sardegnaagricoltura.it/documenti/14_43_20071022121344.pdf
http://www.usi.ch/personal-info.htm?id=303

martedì 31 luglio 2007

Rigotti Francesca, Il pensiero delle cose.

Milano, Apogeo, 2007, pp. XIII+82, € 8,00, ISBN 8850326402.

Recensione di Rolando Ruggeri - 31/07/2007

Filosofia teoretica (ontologia, gnoseologia)

Il libro è una sorta di viaggio etimologico, semantico e logico, nel mondo delle cose e del loro pensiero. Ma su cosa occorre porre il fuoco del discorso? Sul pensiero o sulle cose? Chi produce cosa? È il pensiero che si volge alle cose oppure sono le cose che pensano?
Rigotti mette subito in chiaro quale sia la prospettiva del testo: le cose parlano, pensano, hanno una loro soggettività e non sono semplici oggetti a cui il pensiero si rivolge.
La cosa, solitamente intesa come oggetto del pensiero, diviene soggetto.
Stabilito questo punto di partenza occorre stabilire un percorso; percorso lineare o piuttosto per tappe discrete e non contigue? Per apprezzare il pensiero delle cose non è possibile squadernare una ragione che sistematizzi la cosa pensante (che non è la res cogitans cartesiana) una volta per tutte, occorre procedere per suggestioni, allusioni, spunti e intuizioni; occorre affondare la propria solida nave, lasciarsi cullare naufragi dalle onde, per approdare su un’isola sconosciuta fatta di cose che parlano e che pensano.
Il testo si pone alla riscoperta di quelle “piccole cose” che nella maggior parte dei casi sono dimenticate dalla filosofia (e non solo).
Il primo etimo che viene presentato è, ovviamente, quello della parola “cosa”. Il termine italiano deriva da causa, se si passa al tedesco e al greco però le cose si complicano: il greco antico designa con pràgma il concetto di cosa (fatto); il tedesco ha il termine Ding per significare la cosa concreta e Sache per rimandare all’essenza dell’oggetto, la sua sostanza. Heidegger afferma che la cosa (Sache) è autosufficiente e precede l’oggetto (Ding). Di fronte ad una cosa, quindi, non ci si deve fermare alla pura materialità della stessa (Ding), occorre cercare la sua intima essenza (Sache); questo è il compito del filosofo, seppur spesso tradito. Comincia a delinearsi un bel garbuglio: nella vita quotidiana ci troviamo immersi in cose singole e materiali; come fare per comprenderne la portata universale e l’essenza che portano con sé? Ora, il reale fine del libro è sollevarsi dal particolare per cercare l’essenza (la sostanza) delle cose? È più produttivo (e niente affatto riduttivo) restare sulle cose singole, non vederle come mezzo per arrivare a qualcosa d’altro, il concetto generale: la cosa rivendica la sua singolarità e porta in sé anche la chiave per leggere l’insieme, senza per forza dover sparire in esso.
Riuscire ad applicare il metodo filosofico alle cose di tutti i giorni porta con sé l’accettazione di una prospettiva niente affatto comune nel campo degli studiosi. Per poter far incontrare filosofia (che si rivolge alle cose generali) e vita quotidiana (che generale, in senso filosofico, non è) occorre conciliare i due mondi apparentemente opposti in una concezione che porti a comprendere ciò che è piccolo, senza perdere di vista ciò che gli sta attorno.
Le cose materiali, che tutti i giorni ci circondano, che sono alla base della nostra vita e del nostro linguaggio (dato che anche nella terminologia filosofica si ritrovano parole che hanno la loro origine in fatti semplici, materiali). Ed ecco le cose. Rigotti ce le presenta in tutto il loro splendore (sempre quotidiano), con tanto di disegni.
Scopriamo porte e finestre che collegano il mondo esterno con quello interno; le possiamo trovare aperte sul mondo oppure chiuse come per la monade leibniziana. Incontriamo oggetti vari, che ci svelano la loro essenza e ci fanno scoprire quanto c’è di piccolo nelle azioni che ci sembrano grandi e viceversa; ci guidano alla scoperta di un mondo di analogie e metafore che prima, quando il mondo della filosofia e quello della vita concreta erano tanto distanti, erano impensabili.
Il filo che lega un aquilone può farci volare con esso e farci scoprire similitudini suggestive. Il moto di un pendolo disegna orizzonti di libertà pur essendo legato.
Parole e immagini ci apparecchiano un mondo filosoficamente nascosto, fatto si sedie, finestre, scarpe, ombrelli, pentole e specchi; attraverso una scala poi siamo invitati a salire (o a scendere) per ascoltare il prologo a tutto lo scritto. Il consiglio, prima di abbandonare il testo su qualche polveroso scaffale (non analizzato ma sicuramente con la sua profonda funzione), è di recuperare una prospettiva “straniante” verso ciò che ci circonda. Per non vedere le cose come meri oggetti che fanno da contorno alla nostra esistenza occorre attuare una strategia di “defamiliarizzazione”, un atteggiamento che sa ritrovare in un semplice oggetto qualcosa di straordinario ed unico. Occorre quindi, porre attenzione alle cose, non farle scivolare nell’abituale e nel monotono; porre attenzione ai gesti che meccanicamente eseguiamo ma che dentro di sé portano quell’unicità che merita di essere sempre riscoperta.

Indice

Introduzione
Capitolo 1. La cosa, le cose
Capitolo 2. Ordinario e straordinario
Capitolo 3. Cose che coseggiano
Epilogo


L'autrice

Francesca Rigotti, docente, filosofa e saggista, insegna Dottrine politiche alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera italiana. Tra le sue opere più recenti, La filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara 2005 e Il pensiero pendolare, Il Mulino, Bologna 2006.

mercoledì 18 ottobre 2006

Rigotti, Francesca, Il pensiero pendolare.

Bologna, il Mulino, 2006, pp. 126, € 11,50, ISBN 88-15-11088-7.

Recensione di Giuseppe Pulina – 18/10/2006

C’è una condizione, uno stato dell’esistenza, che più di altri possa definire la propensione dell’uomo verso il pensiero? Dopo Cartesio, e grazie alle innovative e rivoluzionarie ricerche intorno al cogito e al metodo, abbiamo smesso di credere che il pensiero possa disincarnarsi e spogliarsi della dimensione umana. L’uomo di cui Cartesio parla sarà sì una res, ma pur sempre cogitans. Il pensiero, dunque, è il tratto che meglio qualifica l’uomo. Forse non lo differenzia in toto dagli animali non umani, ma questo è un discorso che, chiamando in causa la nuova etologia, esula dalle premesse che sono state sin qui svolte. Premesse che ci portano a dare una convincente risposta all’interrogativo delle prime righe ricorrendo alla tesi su cui gravita Il pensiero pendolare di Francesca Rigotti. Un libro che guida il lettore sin dal titolo e che fa luce sugli obiettivi che persegue fin dalle prime pagine. Pregio che non sempre si può accordare a tutti i prodotti dell’editoria filosofica, e del quale il lettore accorto sa bene quale uso fare.
Il pendolarismo merita, tra le modalità operative del pensiero, un posto di rilievo nient’affatto secondario e marginale: è questa la tesi centrale del libro di Francesca Rigotti, filosofa che cerca con acume di rendere alla filosofia la sua dimensione pratica, accostandone le ricerche alla stretta quotidianità (le piccole cose, il sapere culinario, il tessere, tutti temi di interessanti monografie). Il pendere, pendolare, di-pendere, pro-pendere, appendere, sospendere sono atti di cui tutti conosciamo la grande valenza esistenziale. Vivere, ad esempio, senza propendere per qualcosa non sarebbe atarassia, ma il corollario di un’esistenza anemica, vissuta senza trasporto, con un trascurabile, se non nullo, grado di coinvolgimento. Non apprezzare poi i vantaggi che la sospensione (del giudizio, ma anche di molti altri atti vitali) può dare sarebbe un errore imperdonabile. Vivere come se non ci fosse un perno attorno al quale ruotare, sul quale, come direbbe Michelstaedter, con-sistere, sarebbe infine una letale leggerezza. Non tutti, a dire il vero, credono che le cose stiano così. Il pensiero migrante, pendolare, nomade, che ricusa la rassicurante stasi della stanzialità può contare su un lungo elenco di avversari. Francesca Rigotti, che nel suo libro esalta le virtù del pensiero pendolare, ne tiene debitamente conto, evitando giustamente di vedere nel pensiero statico e rigido la deriva dogmatica del pendolarismo. Questo perché la più apprezzabile virtù del pendolarismo fatto pensiero sta nell’impossibilità di aderire a posizioni immodificabili, date una volta per tutte. «Il pensiero filosofico – scrive Francesca Rigotti – è mobile e oscillante […] La riflessione filosofica, la meditazione in genere, è stimolata dal moto, dal moto della nostra stessa persona, e dai moti esterni ad essa: l’oscillazione della fiamma del camino, il fremere e il vibrare delle foglie e dell’erba sotto l’azione del vento, il moto delle onde marine» (p. 76).
Basterebbe, dunque, osservare il moto per liberare l’energia del pensiero? Francesca Rigotti non dice esattamente questo. Per lei, il pensiero è metafora magniloquente della mobilità umana. Il pensiero pendolare di cui tesse le lodi e del quale riscatta la dignità può essere considerato un “sapere minore”, purché se ne riconosca la specificità, che è quella di un pensiero che oscilla (come lascia ben intendere l’immagine schopenhaueriana del pendolo), «ma attaccato, mobile ma ritornante, legato e non assoluto» (p. 114). Questo sapere per così dire minore «non potrà infatti che opporsi al sapere maggiore della razionalità classica che è un sapere stabile, stanziale, fondato. Ma anche ad un altro sapere minore, suo simile ma non gemello: il sapere mobile, assoluto, sciolto dai vincoli, senza un piano universale, il sapere che se ne va scivolando nello spazio liscio deleuziano senza curarsi della propria destinazione, il sapere nomade» (ivi). Questo è allora il punto: il pensiero pendolare, che incarna lo stile della persona che lo esercita vivendo una vita fatta di transiti e destinazioni da raggiungere con ricorrente ripetitività, non è un pensiero da intrattenimento, buono quando, in treno o nel metrò, non si ha nulla da leggere o quando le batterie del lettore mp3 si sono scaricate, e per ingannare il tempo non resta altro che affidarsi al pensiero, ultima risorsa per vincere la noia, scialacquare l’attesa. Premesso che il tempo difficilmente può essere ingannato, è da escludere che il pensiero possa seriamente nutrire questa aspirazione.
Per chi è stato pendolare almeno una volta nella vita (e chi non lo è stato, viene da chiedersi), il pensiero che pende, pendula e oscilla (per usare verbi cari all’autrice) ha il duro compito di ingaggiare una sfida difficile: abitare e dotare di senso i luoghi in cui si svolge e compie il suo passaggio. Luoghi che, sulla scorta di Marc Augé, potremmo chiamare “non luoghi”. Stazioni dall’aspetto trascurato e desolante, fredde e impersonali come i grandi supermercati, possono essere luoghi che sfidano il pensiero, non luoghi, verrebbe da dire, oltre i quali può non convenire procedere se non si transita in apnea, trattenendo il respiro e inibendo, per quanto possibile, il pensiero. Ma il pensiero pendolare, per giocare con le parole e aderire al senso della metafora impiegata da Francesca Rigotti, ha una sua disciplina: va diritto per la sua strada e, strada facendo, si arricchisce. È, d’altronde, la condizione quotidianamente sperimentata dal pendolare che «ad ogni suo viaggio … raccoglie nuove esperienze e nuovi stimoli. Il pendolare sapiente supera la frustrazione dell’andirivieni forzato, del dover attraversare gli stessi luoghi senza farci caso» (p. 87). È la condizione del pendolo sapiente che «sa che si può andare e tornare, smarrirsi e poi ritrovarsi, estinguersi e rinascere, errare e ritrovare la verità» (p. 15). Parole, queste ultime, che richiamano un’opera di Maria Zambrano, la filosofa spagnola che a quella dell’esule avrebbe preferito la dimensione del pendolare, di chi può tessere la propria esistenza seguendo più volte e ripetutamente direzioni già percorse, consapevole del fatto che il mondo è un luogo da abitare e che la sapienza pendolare può renderlo meno spoglio e inospitale.

Indice

Introduzione

Pendere
Pendolare


L'autrice

Francesca Rigotti insegna Dottrine e istituzioni politiche a Lugano, nell’Università della Svizzera Italiana. Collabora con diverse riviste, tra le quali anche ReF, ed è autrice di diversi saggi che riflettono un forte interesse per la filosofia pratica. Nel 2002 ha pubblicato La filosofia in cucina (Bologna, il Mulino) e nel 2005 La filosofia delle piccole cose (Novara, Interlinea) e, in collaborazione con G. Ferraro, Agli estremi della filosofia (Mantova, Tre Lune).