Nella dinamica collana di filosofia del linguaggio diretta per Mimesis da Perissinotto è ora aggiornata e ripubblicata a sua cura la traduzione italiana, da tempo esaurita, delle conversazioni di Wittgenstein con Friedrich Waismann. Dal momento della prima pubblicazione in lingua tedesca ad opera di Brian McGuinness (1967), molta acqua è passata sotto i ponti della critica wittgeinsteiniana. Fino a quando ha dominato la contrapposizione dei “due Wittgenstein”, quello del Tractatus e quello delle Ricerche filosofiche, con le relative diatribe su quale dei due fosse più rilevante,
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giovedì 31 gennaio 2013
Wittgenstein, Ludwig, Colloqui al “Circolo di Vienna”
a cura di Luigi Perissinotto, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 322, Euro 26, ISBN 978-88-5750-495-7.
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lunedì 14 gennaio 2013
Pisani, Daniele, L’architettura è un gesto. Ludwig Wittgenstein architetto
Macerata, Quodlibet Studio, 2011, pp. 262, euro 28, ISBN 9788874623587
Dopo aver letto il libro di Pisani, si ha la sensazione che le fasi di transizione tra le opere di un filosofo siano più dei costrutti artificiali che momenti esemplari del percorso stesso di un pensatore. Senza confrontarsi direttamente con il problema della riuscita delle singole opere, ogni attività emerge nel suo valore quale contributo alla riflessione filosofica che, come Ludwig Wittgenstein scrive, è in primo luogo “un lavoro su se stessi”. Lo scopo del libro di Pisani è indagare proprio una cosiddetta fase di transizione in cui Wittgenstein
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domenica 1 novembre 2009
Wittgenstein, Ludwig, Lezioni di filosofia, annotate e commentate da George E. Moore.
Milano, Mimesis, 2009, pp. 136, € 12,00, ISBN 9788884838711
Recensore Mario Tanga - 01/11/2009
Filosofia del linguaggio
Indice
Recensore Mario Tanga - 01/11/2009
Filosofia del linguaggio
Pregevole (e fruibilissima) l’introduzione di Perissotto, dopo la quale ci troviamo davanti contemporaneamente a Moore e Wittgenstein, leggendo il secondo attraverso il primo.
Moore va oltre la lettera di ciò che riporta, non per la smania di metterci del proprio (rispetto e attenzione per Wittgenstein non vengono mai meno), ma per porgere i contenuti al lettore con un valore aggiunto di ordine e chiarezza, ricostruendoli (con puntualizzazioni, esemplificazioni, correlazioni, interpretazioni) in un resoconto con un impianto concettuale più unitario. Non esita a mettere in evidenza le proprie incertezze interpretative (non di rado dice “non ho ben chiaro…”, “non ho compreso del tutto…”) oppure, ove lo ritenga opportuno, le incongruenze dello stesso Wittgenstein, per coinvolgere il lettore o richiamare la sua attenzione.
La necessità di puntualità, insieme all’esigenza di giungere al fondo delle questioni, rende il testo a tratti un po’ ostico al lettore non specializzato.
Una maggiore agilità discorsiva e un ampliamento degli orizzonti giunge proprio nelle ultime pagine, dove il punto è nientemeno cosa sia la filosofia per Wittgenstein e come la “nuova” filosofia si ponga nei confronti della precedente. L’intento dichiarato è di dar luogo a una rottura come quella che a suo tempo fu provocata dalla filosofia galileiana. Anche adesso la questione è soprattutto di metodo e i nuovi filosofi dovranno mostrarsi soprattutto abili (“skillful”) nell’applicazione di protocolli, piuttosto che dar lena alla creatività o alla vena di grandezza.
La nuova filosofia (“new subject”) dovrebbe essere “qualcosa di simile al mettere in ordine le nostre nozioni riguardo a ciò che si può dire intorno al mondo” (p. 135, corsivo nostro). In altri momenti lo stesso Wittgenstein aveva dichiarato di non avere, da parte sua, la pretesa di inventare nulla di nuovo, né di proporre un nuovo corso di idee, “eine Gedankenbewegung” (p. 39), ma solo di chiarire ciò che altri hanno inventato.
Tre sono i nodi della filosofia di Wittgenstein: la sua novità è nel metodo, ha carattere di analisi, ha il suo ambito privilegiato nella logica, sconfinando nella matematica e nel linguaggio. Tale lavoro non investe tuttavia la totalità del linguaggio e della logica, ma solo quegli aspetti che creano imbarazzi o problemi. Non per questo, Wittgenstein tiene a precisare, in linea con Ryle, la filosofia si riduce a una mera faccenda di parole.
Il punto focale è l’essenza della rappresentazione, funzione che lega la parola alla cosa e al contempo ne precisa la differenza. Non si tratta del semplice richiamo di un immagine per associazione, né dell’ostensione dell’oggetto, né il fatto che l’oggetto sia il portatore di un nome (cfr. p. 66).
Parlare del linguaggio, in particolare dell’enunciazione, consente di cogliere un’altra differenza, quella tra soggetto e oggetto: le enunciazioni sulla propria esperienza privata (famoso è l’esempio ricorrente di “io ho mal di denti”) e su una possibile esperienza altrui (“lui ha mal di denti”) sono su piani diversi. La posizione di Wittgenstein in proposito è intermedia tra quello che lui stesso chiama solipsismo o idealismo (per il quale “io ho mal di denti” è l’unica enunciazione possibile e certa) e realismo (per il quale, all’opposto, “io ho mal di denti” e “lui ha mal di denti” possono essere entrambe vere, o meglio possibili, e secondo un medesimo criterio di verificazione oggettiva). Le due enunciazioni, in prima e terza persona, sono entrambe accettabili, ma non hanno lo stesso statuto. Appellandosi al senso comune, Wittgenstein presuppone che, oltre al mio corpo vivente, ci siano e ci siano stati altri corpi, altrettanto viventi, “ciascuno dei quali è stato il corpo di un essere umano distinto e diverso, il quale, per tutto il tempo della vita del suo corpo, ha avuto [come le ho avute io] molte esperienze differenti” (p. 23).
Si aprono così diverse possibilità: “Privatezza dei sentimenti può significare: nessuno può conoscerli a meno che io non li esibisca, oppure: in realtà io non posso esibirli. Oppure: se non voglio, non ho bisogno di dare alcun segno del mio sentimento, ma, anche se voglio, posso esibire solo un segno ma non il sentimento” (p. 25). E la scelta di Wittgenstein, tra tali possibilità, non è univoca, né facilmente definibile.
Il fatto cui si riferisce l’enunciazione in prima persona è comunque direttamente accessibile dal soggetto (esperienza primaria, diretta), negli altri casi l’accesso è indiretto e richiede un salto inferenziale. “Ciò che caratterizza un’‘esperienza primaria’ è il fatto che la parola ‘io’ non sta a denotare un possessore” (p. 118), mentre “tu” o “lui” sono corpi materiali, organismi o, al limite, voci enuncianti, cui potrebbe non corrispondere alcuna soggettività e alcun corpo materiale. Se ho un corpo, si chiede Wittgenstein, di chi è questo corpo? di un corpo?, lasciando intendere che per uscire da questo paradosso occorre considerare il corpo stesso come detentore di una soggettività sua propria. E l’importanza del corpo emerge anche da un’altra considerazione: non si coglie la valenza simbolica di una enunciazione, ovvero il suo senso, se non si considera, a completamento del segno linguistico, tutto quanto le attiene, compresa la parte del corpo che la effettua materialmente, ovvero, nel caso della parola pronunciata oralmente, la bocca.
Il privilegio della prima persona, rispetto alla seconda e alla terza, viene in altra occasione contraddetto (non è questo il solo caso in cui Wittgenstein ritratta le proprie convinzioni, cosa che non facilita chi cerca di tirare le fila del suo discorso), e in definitiva Wittgenstein si colloca tra gli estremi del solipsismo radicale e di un altrettanto radicale realismo: di entrambi dice che occorre riconoscere i pregi, ma anche i limiti e le contraddizioni, spiegandone, anche se un po’ frammentariamente, i motivi.
La necessità di chiarezza che il linguaggio pone, si articola a due livelli, atomico e molecolare (cfr. Russell), ovvero delle singole parole e delle proposizioni. Queste ultime, a detta di Moore, e non senza una traccia di disappunto, Wittgenstein tende talvolta a confonderle con gli enunciati; forse, gli concede Moore, per la comune etimologia, in tedesco, dei due termini. La singola parola non può essere valutata e interpretata di per sé, occorre riferirla a due contesti: quello concreto dell’uso, e quello del sistema (linguistico) di cui fa parte, due cose peraltro in continuità tra di loro. È a livello di proposizione che possiamo applicare la funzione di verità per decidere della verità/falsità di quanto dice, perché è essa che si lega ad un referente secondo un sistema di proiezione in base a regole, modalità, contesti: “il senso di una proposizione è il modo della sua verifica” (p. 72): la significazione si gioca elettivamente a livello delle proposizioni. Queste stanno ai fatti come le parole stanno alle cose. E i fatti meritano il privilegio del filosofo perché legano le cose tra di loro, rendendole comprensibili, conferendo loro senso e ragion d’essere. Forzando un po’ la nostra interpretazione potremmo dire inoltre che i fatti “accadono” (mentre le cose “sono”) e sono perciò molto più “rivelatori” della realtà.
Queste lezioni “inaugurano” il secondo Wittgenstein affermando un principio di significazione che fa discendere la referenza della parola dal suo uso: “Un punto su cui [Wittgenstein] ebbe a insistere in diverse occasioni nella sezione (II) era che una parola può avere significato soltanto se ‘mi sento impegnato (commit myself)’ dal suo uso.” (p. 64), in quanto la parola deve essere considerata come appartenente a un sistema: “perché un segno abbia significanza (significance), non è sufficiente che ‘ci si impegni’ a usarlo, ma è altresì necessario che il segno in questione appartenga al medesimo ‘sistema’ di altri segni.” (p. 65)
Tutto questo, tralasciando la controversa accezione del termine “sistema” (su cui Moore si dilunga), delinea da una parte l’impossibilità di prescindere dall’uso concreto del linguaggio e dall’altra l’importanza dei “giochi linguistici” che tanto peso hanno avuto nella filosofia di Wittgenstein e del Novecento.
Ma verificazione/falsificazione significa anche oggettività, o quanto meno intersoggettività, per cui il famoso “io ho mal di denti”, pur riferendosi a un fatto a me direttamente accessibile, non è così per tutti gli altri, e quindi, in altre parole, non è verificabile in senso proprio. Invece altre proposizioni, ipotesi, proposizioni matematiche, e persino le regole, sono verificabili (sia pure secondo criteri e modalità diversi) e quindi hanno un senso. Non è così invece per le tautologie (necessariamente sempre vere) e le contraddizioni (necessariamente sempre false), non verificabili, e, proprio per questo, senza senso.
È a livello di proposizione che si può parlare di carattere “simbolico” del linguaggio, per cui il “segno” (linguistico) acquista significanza. La proposizione si colloca tra fatto ed enunciato, ma si affaccia più sul il versante del fatto. La dimensione formale non è tuttavia prescindibile, né separabile proprio sul piano della referenza e della verifica: “La verifica determina il significato di una proposizione solo quando fornisce la grammatica della proposizione in questione” (p. 73), intendendo con “grammatica” qualunque spiegazione sull’uso del linguaggio e dei “giochi” in seno ai quali esso viene usato. Le regole grammaticali, imprescindibili, sono però arbitrarie, simboliche, non descrivono alcuna realtà. Se tentiamo di giustificarle riferendoci al reale, rischiamo di scivolare in una serie illimitata di rimandi, una sorta di “regressio ad infinitum”, mentre se le facciamo derivare le une dalle altre attraverso un meccanismo di relazioni interne, per via deduttiva, si cade nella tautologia. Wittgenstein sintetizza dicendo che “ciò che è essenziale alle regole è la molteplicità logica che tutti i possibili simboli diversi hanno in comune” (p. 99), una definizione attinente più all’uso pratico del simbolo, che ad un suo carattere “ontico”…
Similmente definisce il gioco o il bello (cfr. pp. 123-125): non si può astrarre qualcosa di comune dalle varie accezioni di questi termini, ma le possiamo concatenare, in serie. La mancanza di fratture e discontinuità nella serie è una sorta di paradigma, fonda unità e validità del concetto.
Wittgenstein si colloca ormai sul versante dei filosofi del linguaggio ordinario. La bipolarità tra ordinario e ideale ricorda quella, anteriore di due-tre secoli, della ricerca della lingua perfetta nella cultura occidentale (cfr. U.Eco, La ricerca della lingua perfetta in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993), in cui si è assistito alle ricerche più disparate su lingue “a priori” e “a posteriori”.
L’attenzione di Wittgenstein al linguaggio e al comportamento osservati, unitamente alle riserve sul poter accedere alle (altrui) motivazioni e agli (altrui) stati interiori in genere, lo induceva a cautela nell’attribuirli a cause univoche e deterministiche. Il che lo portava a dissentire, anche se per motivi diversi, sia da Darwin che da Freud.
Il libro contribuisce a una più attenta e approfondita comprensione non solo della svolta nella filosofia di Wittgenstein, ma più estesamente nella filosofia dell’epoca: il rivolgere lo sguardo alla vita e al mondo, lasciandosi dietro i pretenziosi programmi del linguaggio ideale, è stato un cambiamento di enorme importanza, che ha avuto il suo avvio negli anni Trenta, proprio nelle università di Oxford e, guarda caso, di Cambridge.
La filosofia, rispetto al neopositivismo logico e alla filosofia linguistica, si sforza di liberarsi dei connotati di un’operazione di forma, più o meno pretestuosa e cavillosa, e soprattutto rivendica una sua origine più profonda. Come già ai tempi di Platone, Aristotele o Berkeley (cfr. pp. 134-135) scaturisce dalla meraviglia (“wonder”) dell’uomo di fronte al mondo. È questo, credo, che possiamo prendere come suggello dell’intero testo.
Indice
Introduzione: Wittgenstein e Moore tra grammatica e metafisica
Lezioni di filosofia 1930-1933
L'autore
Ludwig Wittgenstein (Vienna, 1889 - Cambridge, 1951) dà un contributo decisivo alla filosofia analitica e alla logica. Pubblica in vita solo il Tractatus logico-philosophicus (le altre opere usciranno postume), divenuto subito punto di riferimento del Circolo di Vienna, di cui tuttavia non fa mai parte. Dopo varie peripezie torna a Cambridge, dove tiene lezioni che hanno lasciato un segno e non solo in Gran Bretagna. Questo periodo corrisponde al secondo periodo della sua filosofia, in cui sposta l’attenzione dal linguaggio ideale a quello reale.
Il curatore
George E. Moore (1873-1958), filosofo inglese che si colloca nella filosofia analitica e nella metaetica. Formula il noto paradosso che porta il suo nome e mette in luce quella che lui stesso definisce la fallacia naturalistica. Successivamente si interessa del senso comune. La sua opera principale è Principia Ethica. Insegna a Cambridge e ha rapporti con Wittgenstein.
martedì 4 aprile 2006
Wittgenstein, Ludwig, Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, a cura di Alberto Voltolini.
Torino, Einaudi (Piccola Biblioteca Einaudi Filosofia), 2006, pp. xxxi+78, € 13,00, ISBN 88-06-17249-2.
Recensione di Enrico Lucca - 04/04/2006
Filosofia analitica, Epistemologia
Dopo aver completamente abbandonato l’attività filosofica, successivamente alla pubblicazione del Tractatus Logico-Philosophicus, il pensiero di Wittgenstein subì, come è noto, un improvviso mutamento di direzione intorno alla fine degli anni Venti. A partire da questi anni, infatti, il filosofo austriaco iniziò a raccogliere una serie di appunti e osservazioni che, in parte utilizzò per le sue lezioni all’Università di Cambridge, in parte vennero in seguito rielaborate dall’autore stesso e raccolte nelle Ricerche Filosofiche. Molte tra queste annotazioni, più o meno corrispondenti al decennio ‘30-‘40, sono già state pubblicate, anche in italiano, nel corso degli anni, permettendo così di tracciare un filo ideale che metta in connessione i temi principali e le linee direttive del pensare di Wittgenstein, proprio a partire dal suo ritorno alla filosofia, fino ad arrivare a quanto si trova espresso in Della Certezza, opera che contiene gli ultimi pensieri del filosofo. Con la pubblicazione di Causa ed effetto e delle Lezioni sulla libertà del volere, tradotte e curate da Alberto Voltolini, si offrono per la prima volta al lettore italiano due testi, già noti da tempo al pubblico di lingua inglese, concernenti alcune delle tematiche precipue di tutto il secondo Wittgenstein.
Il primo di essi, infatti, consiste in una serie di appunti, stesi dal filosofo stesso, che, pur muovendo dalla discussione di una tematica ben precisa, come il problema della causalità, si aprono ben presto alla trattazione di una lunga serie di argomenti, tra cui la discussione, tipicamente wittgensteiniana, del problema del dubbio e della certezza o la critica all’intuizionismo. È particolarmente importante il fatto che, proprio in questo contesto, Wittgenstein faccia già uso, in relazione alla discussione del dubbio e della sua presunta precedenza rispetto alla certezza, del concetto di “gioco”, che sarà uno dei pilastri di tutto il suo pensiero successivo: “Il gioco non può cominciare col dubbio” – afferma il filosofo, e poi, ancora più precisamente – “il dubbio non può essere una componente necessaria del gioco, senza la quale esso è manifestamente incompleto e scorretto […] il gioco che include il dubbio è semplicemente più complicato di uno che non lo include” (p. 15).
Abbiamo qui, come mostra anche Voltolini nell’introduzione, l’esplicita affermazione di una tesi che, ripresa e sviluppata anni dopo proprio in Della Certezza, non soltanto riveste un valore epistemologico, ma soprattutto ne assume uno logico-grammaticale, dato che il nostro concetto di dubbio può essere tale che noi possiamo dubitare di qualcosa soltanto se qualcos’altro di fatto si sottrae al suo procedere, mentre invece, nel caso ciò non avvenga, non saremmo più nelle condizioni di poter usare la parola “dubbio” con lo stesso significato, dovendo così costruircene un concetto diverso.
Tali affermazioni, a ragione, potrebbero essere anche un ennesimo contributo alla lettura pragmatista dell’opera del filosofo austriaco, dato che questo modo di sottrazione al dubbio a cui sono sottoposti alcuni generi particolari di proposizioni e – nel caso del testo in questione – proprio proposizioni causali (o presunte tali), come la relazione tra l’essere punti e il fare un salto da parte di chi è stato punto oppure il fatto che chi tira una corda sia la causa del suo movimento, non corrisponde in Wittgenstein ad un’operazione teorica, ma ad un comportamento pratico che, in definitiva, trova il suo fondamento nell’agire umano, in credenze che mostrano il loro significato unicamente negli usi e nelle azioni che ad esse si riferiscono: “La forma di base del gioco deve essere una in cui si agisce” (p. 25) Alla luce di ciò, come anche in Della Certezza, Wittgenstein sembra qui introdurre una tesi genealogica di sviluppo del nostro linguaggio da reazioni simboliche primitive: “È caratteristico del nostro linguaggio che esso cresca su un terreno di solide forme di vita, di azioni regolari. La sua funzione è determinata prima di tutto dall’azione che esso accompagna. Abbiamo un’idea proprio di quali forme di vita siano primitive e di quali si siano potute formare soltanto a partire da queste” (p. 24). Queste affermazioni, che trovano riscontro anche in altre opere contenenti annotazioni dello stesso periodo, come le Lezioni sulla Credenza Religiosa o le Note sul “Ramo d’Oro di Frazer”, danno il via ad una ricerca che si muoverà nel solco di quello che è stato definito un metodo antropologico e morfologico, volto ad indagare l’uomo nel suo essere un animale rituale, che è debitore in gran parte, come nota sempre Voltolini, del pensiero goethiano e degli scritti di morfologia della storia di Spengler: non è un caso, a riguardo, che Wittgenstein, autore di solito poco propenso alle citazioni, inserisca più volte, all’interno dei suoi appunti, il celebre passo del Faust “In principio era l’Azione” (p. 23).
Tuttavia, la connessione del problema della causalità con quello delle basi logiche del dubbio non costituisce l’unico contributo di queste lezioni del filosofo: all’inizio dei suoi appunti - infatti - Wittgenstein, partendo da alcune riflessioni di Russell di pochi anni precedenti, sviluppa una ferrata critica all’intuizionismo, ossia a quel tentativo di spiegare il nostro leggere gli eventi in termini di causa-effetto come se fosse fondato, non tanto sull’abitudine e la ripetizione delle esperienze (come nell’interpretazione humeana), quanto invece su una particolare esperienza di causalità esperita direttamente. Secondo Wittgenstein invece, “certamente, c’è qui un’esperienza genuina che si può chiamare «esperienza della causa», ma non perché essa ci mostri infallibilmente la causa, ma perché qui, nel nostro cercare con lo sguardo una causa, sta una radice del nostro gioco linguistico di causa ed effetto” (p. 11). Non c’è affatto bisogno, dunque, di postulare una percezione più o meno diretta delle relazioni causali ma, ancora una volta, la spiegazione del fatto che trattiamo due eventi come casualmente connessi si mostra nel nostro sottrarre al dubbio l’enunciato che descrive il primo evento come causa del secondo: “La forma semplice (e questa è la forma originaria) del gioco di causa ed effetto è la determinazione della causa, non il dubbio” (p. 24). Anche per questo, da un punto di vista ontologico, la spiegazione causale non gode di alcun tipo di privilegio, tanto che, molto spesso, nel suo stesso procedere filosofico, Wittgenstein la sostituirà con il concetto di presentazione perspicua (Übersichtliche Darstellung), non a caso un altro termine ripreso dagli scritti scientifici di Goethe.
Un altro approccio al problema della causalità, contro cui si schiera Wittgenstein in queste pagine, è quello che Voltolini definisce modello metafisico-naturalista, secondo cui ad ogni differenza causale di alto livello (ad esempio nella macrobiologia), ne debba corrispondere necessariamente una di basso livello (in questo caso, nella biologia molecolare). Nella prospettiva anti-essenzialista wittgensteiniana, ciò non è invece assolutamente scontato: infatti, si potrebbe dare senza dubbio il caso in cui non si possano registrare corrispondenze di tal genere oppure, anche nell’eventualità in cui esse vengano scoperte, non sempre risulta facile dimostrare non solo che esse si limitino a corrispondere, ma anche che l’una sia determinata casualmente dall’altra (cfr. pp. 11-12). Insomma, anche in tal caso la spiegazione causale potrebbe non essere quella più appropriata, potendo essere sostituita da una riflessione che ricerchi le ragioni piuttosto che le cause. Troviamo qui enucleato un altro aspetto centrale del pensiero wittgensteiniano, ampiamente sviluppato nel confronto con Freud e la psicoanalisi, che costituirà uno dei temi principali delle Ricerche Filosofiche.
Molto importanti, ma anche straordinariamente attuali, sono pure le Lezioni sulla libertà del volere, il cui unico difetto è forse quello di essere una serie di appunti non direttamente di Wittgenstein, ma presi da uno degli allievi che seguirono le sue lezioni, tenute all’Università di Cambridge nel corso, probabilmente, del 1939 (cfr. p. 55-56). In queste pagine, Wittgenstein interpreta la tradizionale contrapposizione tra determinismo e libero arbitrio nei termini dell’adozione di un diverso sistema di descrizione di fatti. Le leggi della scienza, infatti, non costringono la realtà come dei binari, ma non fanno altro che cercare di rendere ragione del mondo così com’è: “Perciò, dire che la legge naturale in qualche modo costringe le cose ad andare come vanno è in un certo senso un’assurdità” (p. 59). Il parlare in termini di leggi scientifiche costituisce quindi, nella lettura wittgensteiniana, un’attività propria di una forma di vita, che però non è per nulla qualcosa di imprescindibile. Secondo Wittgenstein, infatti, è possibile interpretare la realtà in modo differente, sostenendo ad esempio che non esista alcuna legge nella spiegazione di un particolare fenomeno: in tale contesto, anche il problema del libero arbitrio si colloca dunque su un piano completamente diverso da quello del determinismo: “Non c’è ragione per cui, anche se ci fosse regolarità nelle decisioni umane, io non dovrei essere libero. Riguardo alla regolarità, non c’è niente che renda qualcosa libero o meno. La nozione di costrizione viene in gioco se pensate alla regolarità come costretta; come prodotta da binari” (p. 62). Se invece si ritiene possibile che i fatti di natura possano veramente essere spiegati tutti in termini di strette leggi scientifiche, nemmeno allora potremmo dirci in grado di avere risolto il problema, eliminando del tutto il libero arbitrio, dato che, ad un tale contesto ipotetico, in cui assisteremmo ad un mutamento così radicale della nostra visione del mondo, sarebbe strettamente connessa l’adozione di una grammatica mentale completamente differente, dove probabilmente i concetti di determinismo e di libero arbitrio potrebbero ragionevolmente non essere nemmeno contemplati: “La conoscenza di queste leggi semplicemente cambierebbe la faccenda. C’è una verità in questo. Si potrebbe dire: essere in grado di calcolare cose che ora non possiamo calcolare cambierebbe in effetti l’intera situazione” (p. 78).
Indice
Introduzione
Bibliografia
I. Causa ed effetto
II. Lezioni sulla libertà del volere
L'autore
Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 – Cambridge 1951) è uno dei filosofi meglio conosciuti e più importanti del Novecento. Tra le sue opere, per la maggior parte già disponibili anche in italiano, troviamo: Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916; Ricerche Filosofiche; Note sul “Ramo d’Oro” di Frazer; Della Certezza; Libro Blu e Libro Marrone; Osservazioni sopra i fondamenti della matematica; Lezioni e Conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la Credenza Religiosa; The Big Typescript.
Links
The Cambridge Wittgenstein Archive: www.wittgen-cam.ac.uk
The Austrian Ludwig Wittgenstein Society: www.sbg.ac.at/phs/alws/alws.htm
Il Tractatus Logico-Philosophicus in forma di ipertesto: www.kfs.org/~jonathan/witt/tlph.html
The Wittgenstein Portal, a cura dell’Archivio Wittgenstein dell’Università di Bergen: www.wittgenstein-portal.com
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