martedì 28 ottobre 2008

Negri, Antonio, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica.

Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 156, € 12,00, ISBN 9788807104350.

Recensione di Gianmaria Merenda – 28/10/2008

Sociologia, Filosofia politica

Le intenzioni di Antonio Negri sono espresse chiaramente all’inizio del testo e si ripresentano varie volte nello sviluppo delle lezioni: “Queste lezioni, tenute nel 2004-2005 al Collège internationale de philosophie, a Parigi, si sono date il compito di cogliere il passaggio dalla modernità alla postmodernità nelle analisi della scienza politica e della filosofia. Il loro punto di partenza è consistito innanzitutto nel tentativo di circoscrivere il linguaggio politico corrispondente a questa transizione” (p. 5); “Un invito collettivo ai ricercatori di buona volontà perché si consacrino alla redazione di un nuovo vocabolario postmoderno del campo politico […]” (p. 8); “Quello che qui ci interessa è innanzitutto la riforma del lessico politico – in particolare quando si arriva a toccare nozioni come quelle di “diritto soggettivo”, di “cittadinanza”, di “esercizio del potere costituente” o, ancora, di “democrazia”” (p. 100); “Insomma: una nuova Enciclopedia” (p. 110). La successione serve solo a mettere in luce la continua e pressante esigenza dell’autore, da pagina 5 a pagina 110, di ricordare al lettore, forse anche a sé stesso, l’obiettivo delle lezioni. Credo che in questo modo si possa cogliere la continuità dell’azione.
Negri in queste lezioni parigine ha ben in mente un suo pubblico ideale: “ai socialisti e i comunisti che hanno vissuto onestamente e che hanno pensato la loro esperienza nei vecchi termini dialettici del marxismo-leninismo” (p. 8).
La prima lezione affronta la cesura che si è creata tra il moderno e il postmoderno. Negri indica il postmoderno come tutto ciò che è successivo “alla crisi dello stato-nazione”. Attorno a questa cesura si è coagulato un pensiero della politica che è rimasto imbrigliato in una dialettica sostanzialmente binaria: da una parte l’accettazione del potere per quello che è, dall’altra la negazione del potere. “Una vasta omologia della concezione del potere nel pensiero moderno” (p. 12). Questo pensiero ‘imbrigliato’ nasce dalle teorie politiche di Weber, Schmitt e Lenin: “Ripetiamolo: nei due casi che stiamo analizzando [accettazione del potere o negazione dello stesso, ndr.], si tratta di una doppia impasse che pretende di obbligarci a scegliere tra due possibilità. La prima consiste nel prendere il potere e diventare un altro potere – cioè, malgrado tutto, sempre e ancora un potere; la seconda cerca di negare totalmente quel potere sulla vita che è, allo stesso tempo, una negazione della vita stessa” (p. 15).
Il problema postmoderno che ha scardinato la concezione binaria del potere, per questo insieme di lezioni, è il ‘lavoro immateriale’, di concetto, creativo. Il lavoro materiale ha ormai fatto il suo corso, “si è trattato di una sfida operaia e insurrezionale che ha messo in crisi sulla lunga durata (esattamente quella che altri hanno definito come il “secolo breve”) l’insieme del lavoro organizzato” (p. 17). Una spina nel mondo capitalistico che non provoca più fastidio, il lavoro materiale è sempre più de-localizzato, è altrove. Nell’immateriale deve quindi svilupparsi l’insurrezionale negriano. Infatti, una seconda cesura postmoderna “si gioca attorno alla ridefinizione del concetto di sovranità” (p. 18), il controllo del biopotere è passato dall’individuo all’intera popolazione. Ecco rispolverato il concetto foucaultiano di biopolitica che per Negri non è un ritorno al reazionario vitalismo, ma al contrario un tentativo “di far ripartire il pensiero (e la riflessione sul mondo) dall’artificialità – intesa come rifiuto di ogni fondamento naturale – e dalla potenza della soggettivazione” (p. 29).
Per comprendere queste cesure e la necessità di rinnovare il concetto di biopolitica Negri illustra le tre forme caratteristiche del pensiero postmoderno: il ‘pensiero debole’ che “riduce la soggettività alla circolazione mercantile” (p. 24) - gli autori di riferimento sono Lyotard, Baudrillard, Vattimo e Rorty -; il pensiero come ‘resistenza marginale’ oscillante tra una sorta di “feticismo delle merci” (p. 24) e la tentazione di un’escatologia mistica - autori di riferimento Derrida, Agamben, Nancy e Benjamin - ed infine il pensiero “come postmoderno critico, ovvero come riconoscimento non solo della nostra fase storica ma dell’antagonismo che le corrisponde […] come ricostruzione di uno spazio di soggettivazione” (p. 24) - autori di riferimento Foucault e Deleuze. Qui secondo Negri si troverebbe la soluzione del problema postmoderno. Le filosofie politiche e della differenza di Foucault riescono ad essere i motori di una nuova soggettivazione.
È proprio la soggettivazione che permette di avvistare un’eccedenza di potenza del lavoro cognitivo perché questo non è facilmente quantificabile, riducibile a pura merce: “La potenza è al contrario il non-misurabile, l’espressione pura delle differenze irriducibili” (pp. 34-35).
Da questa descrizione della potenza si passa al concetto di moltitudine che è il luogo, forse il ‘piano d’immanenza’ deleuziano, in cui si incrociano le ‘differenze irriducibili’ poco sopra descritte: “La moltitudine deve dunque essere necessariamente pensata come una molteplicità non organica, differenziale e potente” (p. 40).
“In generale vi sono due obiezioni che vengono formulate contro la definizione del concetto di moltitudine: la prima consiste nel denunciare la sua incapacità a presentarsi in quanto forza antisistemica, la seconda obietta che non è possibile descrivere il passaggio della moltitudine dall’in sé al per sé, ovvero di definirla in quanto istanza di ricomposizione unitaria capace, dunque, di sviluppare un’azione politica efficace al di fuori di ogni mistificazione dialettica” (p. 55).
Nell’insieme di differenze irriducibili che formano la moltitudine negriana però si aboliscono le gerarchizzazioni salariali: “Non c’è alcuna ragione di distinguere e di gerarchizzare le forme di salario” (p. 59). Le differenze salariali e di gerarchia sono con ogni probabilità l’ultimo appiglio che una visione capitalistica del mondo, opposta a quella di Negri, poteva recriminare per conservare un minimo di ‘mercificazione’ dell’antisistemica moltitudine. L’autore quindi per non incorrere in questo rischio le esclude a priori.
La moltitudine si ‘esprime’, per mutuare ancora un concetto deleuziano, nel comune: “Il comune si presenta sotto forma di un’attività – e non come un risultato; si presenta sotto forma di un concatenamento, di una continuità aperta e non come una densificazione del controllo” (p. 61). Ovvio che l’espressione del comune ha delle implicazioni sul reale: “Il diritto comune non è pensabile che a partire dalla distruzione dello sfruttamento – che questo sia pubblico o privato – e dalla democratizzazione radicale della produzione” (p. 67).
Il ‘comune’, dunque, in quanto resistenza allo status quo e in quanto momento ‘costituente’ avverte e chiama la violenza: “Quando abbiamo parlato di resistenza […] non abbiamo escluso la violenza politica. la violenza politica è semplicemente una funzione dell’agire politico democratico, poiché anch’essa mostra, alla sua maniera, la resistenza, e perché impone l’antagonismo là dove lo stato non può che affermare il suo dominio e il suo controllo” (pp. 113-114).
È possibile agire con la violenza politica nel reale e non solo nelle idee teoretiche? Dove deve svilupparsi questa violenza politica? Negri non ha dubbi, nell’Impero: “L’Impero è la sola dimensione spazio-temporale, etica e ontologica, politica ed economica, nella quale la moltitudine possa dedicarsi a una sperimentazione pratica della libertà. […] Un interregno durante il quale uno stato di fatto sovversivo e rivoluzionario si è affermato in maniera decisiva” (p. 127). È in questa cesura, tra moderno e postmoderno, che la moltitudine dovrebbe esprimere la propria potenza. Il momento è propizio. Difatti anche il concetto di rivoluzione è toccato dall’analisi politica di queste lezioni: “La rivoluzione è un’accelerazione del tempo storico, la realizzazione di una condizione soggettiva, di un evento, di un’apertura, che concorrono a rendere possibile una produzione di soggettività irriducibile e radicale” (p. 142).
Sul finire del testo appare ciò che sembra essere il vero oggetto della ricerca. Non tanto la creazione di un nuovo lessico politico ma il consolidamento di un vecchio concetto, il conflitto: “Ecco che dappertutto ritroviamo il conflitto trascendentale” (p. 153).
Non ci sentiamo di avallare questo pensiero politico perché non pare ‘nuovo’, come era invece stato pensato nelle intenzioni di Negri nella prefazione del testo, e perché porta con sé il seme della violenza. Purtroppo non si è intravisto il rinnovamento dell’Enciclopedia politica. La violenza, che sia trascendente o trascendentale poco importa in questo frangente, è sempre stata uno dei concetti cardine nella tassonomia della filosofia politica, non occorre ricordare in questo luogo le occasioni del suo richiamo. Rimaniamo per questo motivo in attesa dei risultati del lavoro dei ricercatori ‘di buona volontà.

Indice

Prefazione
Atelier n. 1
Moderno e postmoderno: la cesura
Atelier n. 2
Il lavoro della moltitudine e il tessuto biopolitico
Atelier n. 3
Fra globalizzazione ed esodo: la pace e la guerra
Atelier n. 4
Oltre il privato e il pubblico: il comune
Atelier n. 5
La critica del postmoderno come resistenza marginale
Atelier n. 6
Differenza e resistenza
Dal riconoscimento della cesura postmoderna alla costituzione ontologica dell’a-venire
Atelier n. 7
Dal diritto della resistenza al potere costituente
Atelier n. 8
Governo e governance
Per una critica delle “forme di governo”
Atelier n. 9
Decisione e organizzazione
Atelier n. 10
Il tempo della libertà comune
Conclusione


L'autore

Antonio Negri, detto Toni, classe 1933, nel 1967 è professore di Dottrina dello Stato presso l'Università di Padova, da vita all’organizzazione ‘Potere operaio’, è processato e condannato per reati di terrorismo. Si rifugia in Francia dove si avvale della “dottrina Mitterand” che gli evita l’estradizione in Italia. Rimane in Francia per quattordici anni insegnando nelle università. Finisce di scontare la pena nel 2003 dopo il suo rientro in Italia. Tra le sue opere più recenti e di maggior successo si segnalano: Impero, il nuovo ordine della globalizzazione, scritto con Michael Hardt, Rizzoli, 2002; Moltitudine, guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, sempre con Michael Hardt, Rizzoli, 2004; Goodbye Mr Socialism, Feltrinelli, 2006.

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