giovedì 21 febbraio 2013

Focosi, Filippo, Dalla storia all’opera. Nuovi percorsi verso la definizione dell’arte

Macerata, Eum, 2012, pp. 316, 17 euro, ISBN9788860563149

Recensione di Gianni Zen - 08/08/2012

Ricordate l’episodio Vacanze intelligenti del film Dove vai in vacanza? di e con Alberto Sordi? Se, come me, amate l’arte contemporanea, ma allo stesso tempo siete moderatamente scettici sul fatto che spesso si tratti di “vera arte”, allora questo film vi sarà probabilmente familiare. Se le cose stanno così, non potrete non comprare il libro di Filippo Focosi, Dalla storia all’opera. Nuovi percorsi verso la definizione dell’arte. Anche se siete entusiasti sostenitori dell’arte contemporanea in quanto “vera arte” e odiate il film, ciononostante dovreste comprare questo libro.

Perfino se l’arte contemporanea vi fa ribrezzo, indignazione, schifo, e per nulla al mondo affermereste che l’arte contemporanea sia “vera arte”, e quel film sarà per voi un cult, allora dovreste comunque comprare questo libro.
Dentro vi trovereste delle buone ragioni sul perché siete scettici, entusiasti oppure disgustati a identificare il concetto di arte con le sue più recenti declinazioni storiche. In via preliminare, a scanso di equivoci, vorrei che fossero ben chiari tre punti.
Il primo punto: ho scritto “comprare” e non “leggere” di proposito, poiché questo libro si può prendere e conservare come un utile manuale, da consultare ogni qualvolta abbiate dei dubbi sul perché ritenete che una certa opera sia un’opera d’arte, mentre una certa altra non sia un’opera d’arte.
Il secondo punto: in realtà questo libro non si legge come un manuale. C’è uno sforzo teoretico-argomentativo molto intenso. La struttura del libro è a grandi linee questa: a) viene proposta la definizione storico intenzionale di Levinson; b) contro questa definizione vengono presentate varie obiezioni, mosse da vari filosofi; Focosi presenta le obiezioni secondo un grado crescente di efficacia; c) il peso schiacciante delle obiezioni fa crollare la definizione storico-artistica in favore di un edificio teorico che riabilita una definizione “estetica” neo-formalista.
Il terzo punto: il libro non parla di “arte contemporanea”. La mia perorazione per invogliare l’acquisto del libro nel caso in cui coltiviate un qualche tipo di rapporto con l’arte contemporanea, positivo o negativo che sia, non vuole significare che dentro ci siano argomenti di arte contemporanea. Anzi, per ridimensionare la validità di una teoria storico-intenzionale, cioè quella di Levinson, sarà fatale l’incapacità di tale teoria di spiegare come e da dove abbia avuto origine l’arte (il concetto di arte). Tuttavia la teoria di Levinson è chiaramente un tentativo di fare luce sul concetto di arte in seguito agli sconquassamenti arrecati dall’arte dell’ultimo secolo. Per dire meglio: l’arte dell’ultimo secolo non è la vera responsabile; lo è piuttosto il fatto che nell’ultimo secolo (da Duchamp, da Satie, dal cinema e dalla fotografia in poi) si siano considerati come opere d’arte oggetti che intuitivamente non avevano alcun rapporto con l’arte del passato. Questo fatto non è un mero problema gnoseologico-classificatorio: l bbrivo è questo, ma il nucleo del problema è ontologico. Dall’imbarazzo che viene nel dire arte qualcosa di radicalmente diverso dal passato, ci si chiede: “che cos’è un’opera d’arte?”, cioè, parafrasando, “quali sono le caratteristiche necessarie e/o sufficienti che deve avere un oggetto per essere considerato arte”? Lasciamo stare che parlare solo di opere non esaurisce il campo dell’arte tanto è vero che si dice spesso che l’arte è un’attitudine, un’attività , un modo di vedere e fare le cose, ecc.; qui si restringe esplicitamente il campo di ricerca alle caratteristiche essenziali dell’opera di ogni arte, di ogni luogo e di ogni tempo; da qui è nato un dibattito in corso da decenni in area anglosassone.
Così lo ricostruisce Focosi. La teoria storico-intenzionale è stata coniata inizialmente da Jerrold Levinson in tre articoli: Defining Art Historically (1979), Refining Art Historically (1989) e Extending Art Historically (1993). Levinson ha elaborato questa teoria assumendo un risultato dalle teorie di Arthur Danto e George Dickie su cosa sia un’opera d’arte: un’opera d’arte non è definibile come tale in virtù di una qualche proprietà intrinseca. Anzi, l’artisticità di un oggetto è una proprietà che individua una relazione tra l’oggetto e un aspetto del mondo dell’arte. Per Danto e Dickie questo aspetto è la vaga dimensione istituzionale del mondo dell’arte: cioè , per dirla grossolanamente, un’opera d’arte è qualcosa di definito come tale dagli appartenenti alla società dell’arte (non si sa per quale merito o titolo appartengano a tale società, né perché tra di loro ci debba essere consenso, che non c’è mai). Per Levinson la spiegazione che fa leva sull’istituzione è inefficace, tanti sono gli esempi di opere d’arte che non hanno avuto riconoscimento istituzionale-sociale: meglio dire che una tal cosa è un’opera d’arte perché ha l’intenzione di intrattenere una relazione con le opere d’arte del passato la cui identificazione è intesa in modo non problematico. Focosi delinea il cammino intrapreso da Levinson, che è segnato da tre diverse formulazioni della definizione. La terza formulazione è quella più completa (p.40). La definizione dice che la relazione tra l’oggetto “opera d’arte” e le opere d’arte del passato è una relazione storico-intenzionale: l’intenzione da parte di una personalità che ha proprietà su una certa opera (l’autore, il collezionista, ecc.) affinché tale opera venga considerata in uno dei modi in cui le opere d’arte del passato sono state considerate.
Nel primo capitolo del libro Focosi ricostruisce l’azione di Levinson per migliorare la propria teoria al vaglio delle critiche. Focosi inoltre discute la serie di obiezioni alla teoria di Levinson, cominciando dalle più deboli per arrivare a quelle più schiaccianti. L’esposizione di Focosi brilla per puntualità e per densità; la scrittura è precisa, chiara e agile, la rigorosità è ineccepibile, e le diverse obiezioni presentate sono discusse con scrupolo. Ci vuole un po’ di sforzo per seguire la presentazione delle idee in ordine crescente di complessità, non divise quindi per autore o secondo cronologia. Tuttavia con questo ordine si può ragionare assieme al libro, e questo è un pregio inestimabile.
Cominciando dalle obiezioni di Noёl Carroll di Stephen Davies e di Crispin Sartwell (le più semplici), passando per quelle di Robert Stecker, ancora di Davies, di Monroe Beardsley, di Gregory Currie e di Paul Bloom, per finire con quelle di Davies (ancora), di Richard Wollheim e di Daniel Kolak, Focosi avverte il grosso problema di questa definizione, cioè il rischio di una petitio principii: se per definire X un’opera d’arte occorre che X sia destinata a essere considerata in un modo qualsiasi in cui le opere d’arte precedenti sono state considerate, come potevano essere definite “arte” le prime opere d’arte? E inoltre, come inquadrare opere d’arte che non appartengono alla storia dell’arte occidentale e post-rinascimentale o che vengono inquadrate in storie dell’arte “minori” come le craft arts o le popular arts?
Focosi ritiene si apra una crepa nella definizione di Levinson. La condizione storico-intenzionale potrebbe non essere né sufficiente né necessaria. Carroll e James Carney hanno cercato, ciascuno a modo proprio, di rilanciare una definizione storica che faccia a meno della nozione spinosa di intenzionalità. Stecker invece allarga la definizione storico-intenzionale includendo un’ulteriore condizione “funzionalistica”: le prime opere d’arte fondano una tradizione artistica perché esse incarnano una funzione di tipo “estetico”, hanno proprietà formali significative, sono espressive, producono esperienza estetica, ecc. Quindi, conclude Stecker, classificare un oggetto entro la categoria “arte” implica un atto valutativo: o un’opera d’arte ottempera alla sua funzione, oppure non è un’opera d’arte sicché non esistono, per una definizione funzionalistica, cattive opere d’arte.
Benché il contributo di Stecker in parte non funzioni, Focosi ammette che questa possa essere la strada giusta. Nel secondo capitolo l’autore si concentra su un gruppo di autori come Julius Moravcsik, Denis Dutton, Berys Gaut, dal cui confronto stila una lista di nove criteri funzionali per stabilire se un oggetto è classificabile come opera d’arte. Questa lista non è una definizione vera e propria, ma una caratterizzazione del concetto di opera d’arte. L’opera d’arte non può che avere la funzione primaria di essere portatrice di proprietà estetiche, secondo Focosi. Cioè: "un oggetto è un’opera d’arte (tout court) se e solo se le proprietà che permettono il soddisfacimento della sua funzione primaria (o delle sue funzioni primarie) sono proprietà estetiche" (p. 184-5).
Cosa sono le proprietà estetiche? Nel terzo capitolo Focosi riprende l’idea di Frank Sibley secondo cui le proprietà estetiche "sopravvengono" sulle proprietà non estetiche; cioè le proprietà fisiche, o sensibili, o fenomeniche, o contestuali di un oggetto (come il colore, la durata, la dimensione, lo stile...) sono la base da cui emergono come condizionate ma irriducibili le proprietà estetiche. Le proprietà estetiche di un oggetto possono essere formali e fenomeniche ("unito, equilibrato, dinamico"), stilistiche e contestuali ("cubista, classico"), più o meno emotive ed espressive ("divertente, tragico, commovente, malinconico"), rappresentazionali ("realistico, veritiero, distorto"), simboliche ("ironico, profondo, complesso, arguto") e interamente response-dependent, cioè basate sulla risposta emotiva del soggetto percipiente ("bello, sensuale"). Questa idea dispone le proprietà estetiche lungo un arco in cui alcune proprietà sono più descrittive (come quelle formali) altre più valutative (come quelle response-dependent).
Focosi argomenta che l’unione di proprietà estetiche, nonché di proprietà formali non estetiche (come il colore) e di proprietà non formali non estetiche (come il contenuto semantico), a sua volta un’unione formale ed ciò che dona, alla fine, il carattere estetico (ad esempio la "bellezza") ad un oggetto (p. 228).
L’approdo di Focosi è l’appoggio alla definizione di Richard Eldridge ("un oggetto è un’opera d’arte se e solo se possiede una soddisfacente adeguatezza reciproca di forma e contenuto" p. 232), ma soprattutto a quella di Richard Lind ("un’opera d’arte è l’assestamento creativo di uno o più media la cui principale funzione quella di comunicare un oggetto estetico significante" p. 233).
Mi fermo qui, sottolineando i miei dubbi su di una teoria artistica estetica e neo-formalista appoggiata da Focosi. Il primo: che cos’è propriamente la “forma”, opposta al “contenuto” di un’opera d’arte? Nel libro Focosi dice ad esempio che la forma di un’opera d’arte musicale sia una certa sequenza di suoni; ma quale sarebbe allora il contenuto? Insistere con una coppia concettuale forma/contenuto piuttosto anacronistico, ritengo senza spazio per argomentare; inoltre molto riduttivo definire la “bellezza” come una proprietà eminentemente o solo formale, e molto vago dire che le proprietà estetiche intrinsecamente valutative come la bellezza siano regolate dai principi dell’unità, della complessità e dell’intensità. Il secondo: Focosi afferma che il problema sollevato dall’arte concettuale, da Duchamp in avanti, sia un falso problema per la definizione neo-formalista, liquidabile, seguendo un’idea di Maurizio Ferraris, come una sorta di eccezione alla regola artistica; io credo invece che proprio questa sia la sostanza del problema, e cioè il fatto che l’arte concettuale ha reso evidente la non riducibilità dei concetti di “arte”, “esperienza estetica” e “piacere estetico”. Focosi dà una definizione esauriente anche degli ultimi due concetti, ma, sostengo, sono difficilmente applicabili al contesto artistico contemporaneo in cui la porzione concettuale non sensibile ormai evidentemente preponderante. Il terzo: in un giudizio estetico è difficile, credo, sezionare la componente descrittiva da quella valutativa. Focosi fa quest’esempio (p. 258): “sfarzoso”, che è manifestamente un giudizio valutativo, può essere reso descrittivamente come “combinazioni di colore luminose, disarmoniche, che saltano all’occhio”; ma “luminose, disarmoniche, che saltano all’occhio” non sono forse proprietà già valutative? Soprattutto la predicazione di “disarmonico” mi sembra implicare una grande componente valutativa.
Questi sono buoni punti intorno a cui ragionare per ragionare di arte. Il bel libro di Focosi ce ne da' l’opportunità; una comoda, precisa e profonda opportunità, e a noi lettori e studiosi di “cose estetiche” sta il compito di non mancarla.


Indice

Introduzione
Parte prima. Definire l'arte storicamente
1. La teoria storico-intenzionale di Jerrold Levinson
2. Obiezioni deboli, risposte convincenti
3. Obiezioni insidiose, risposte incerte
4. Obiezioni forti, risposte deboli
5. Processo alle intenzioni
6. La teoria delle narrazioni storiche di Noёl Carroll
7. La teoria stilistica di James Carney
8. Carroll, Carney e Levinson
9. Il funzionalismo storico di Robert Stecker
Parte seconda. Ritorno alle origini
1. Il centro naturale dell'arte
2. L'arte in una prospettiva transculturale
3. Liste, griglie, grappoli
4. Le origini dell'arte
5. Il paradigma della continuità
Parte terza. L'essenza estetica dell'arte
1. Le proprietà estetiche
2. Esperienza, piacere, valore
3. Definire l'arte dal punto di vista estetico
4. I dilemmi di una definizione estetica dell'arte
Giudicare l'arte storicamente
1. Dalla storia all'opera
2. Dall'opera alla storia
Bibliografia
Indice dei nomi

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