mercoledì 12 ottobre 2005

Allegra, Antonio, Dopo l’anima. Locke e la discussione sull’identità personale alle origini del pensiero moderno.

Roma, Studium (La Dialettica), 2005, pp. 232, € 21,00, ISBN 88-382-3966-5.

Nota di Sarin Marchetti – 12/10/2005

Storia della filosofia (moderna), Filosofia teoretica (soggettività)

Del futuro non v’è certezza; ma che dire del passato? E del presente? Una delle convinzioni più radicate che ognuno di noi si porta dietro, senza la quale nessun pensiero ed nessuna azione sarebbe ascrivibile ed imputabile, è l’immagine della persistenza del se. Ma questo dato fondamentale, ciò che Kant chiama appercezione trascendentale originaria, si scontra con le possibili analisi di tipo riduzionistico che descrivono le persone come insiemi di stati mentali. Queste teorie rappresentano una contrapposizione forte alla tradizione di guisa sostanzialista, la quale assicurava la persistenza nel tempo (e, conseguentemente, i premi, le punizioni e la resurrezione) tramite l’infallibile riferimento ad un’anima. Se si mette in crisi questa visione dell’io ci si scontra con inevitabili questioni di carattere metafisico, caratterizzate da evidenti risvolti pratici; questo è il problema filosofico dell’identità personale. L’autore si schiera a favore della soluzione tradizionale (rivisitata), ma io credo ci sia una terza via che, lungi dall’abbracciare una (non)posizione relativista, consiste nell’accento sulla dimensione pratica del concetto d’identità personale (che in questo si distingue qualitativamente a livello criteriale dall’identità di oggetti, come lo stesso Locke aveva saggiamente osservato). Questa linea teorica, com’è certo noto, è quella perseguita da David Hume: credo che una lettura non parziale e riduttiva del Treatise possa rivalutarne il contenuto e la sintonia con le abituali percezioni che abbiamo del nostro io, alle quali non a caso diamo il nome di ‘senso d’identità’. 
Il libro di Antonio Allegra si propone di mostrare come la rinascita di posizioni neo-aristoteliche e neo-leibniziane (à la Wiggins) rispetto all’account dell’identità personale sia legittima non solo dall’esigenza di reintrodurre un substratum metafisico (che l’empirismo anglosassone aveva a fatica eliminato in favore di criteri relativi e disposizionali), ma anche dalla necessità di un recupero del lessico Aristotelico delle forme sostanziali e modi di queste, pena l’impossibilità di continuare a parlare di identità personale. Tale processo è illustrato a partire dalle sue origini greche fino agli sviluppi settecenteschi: la storia delle idee suggerirebbe che il “ritorno all’anima” sia una conclusione necessaria suggerita dall’insufficienza del quadro fornito da Locke, Hume e, successivamente, dalla main stream dei filosofi analitici contemporanei. Per queste ragioni il libro si presenta interessante sia per chi è interessato maggiormente a questioni di taglio storico, sia per chi ha esigenze più teoretiche.
Quello dell’identità personale è, secondo l’autore, un problema squisitamente metafisico che solo incidentalmente può esser trattato da una prospettiva meramente epistemica: infatti tale tema è storicamente legato con quelli del principium individuationis e dell’immortalità-reincarnazione dell’anima. Sembrerebbe inoltre che una risposta convincente alla  vexata queastio debba necessariamente passare per l’analisi sia della natura della sostanza, e della possibilità di parlare in termini di forma ed essenza; è infatti solo con Locke che il problema dell’identità personale acquista una sua autonomia concettuale, divenendo strutturalmente legato ai temi dell’imputabilità giuridica e del giudizio divino. L’autore accetta questo passaggio, denunciando però l’illegittimità dell’abbandono della metafisica. 
L’autore imposta il discorso in questo modo: c’è uno scontro tra i dati fenomenologici immediati che permettono la re-identificazione delle cose nel mondo (e di noi in quanto soggetti di tale operazione), e i problemi intrinseci all’identità diacronica; in altri termini lo scontro nasce dalla difficile armonizzazione tra il cambiamento delle parti e la stabilità del tutto. Dall’analisi delle posizioni degli Eraclitei, dei Sofisti e degli Stoici emerge chiaramente la distinzione fondamentale tra identità stretta o perfetta, ed identità ricca o filosofica (distinzione che sarà ripresa da Reid): il continuo rinnovarsi delle parti sembra impedire la re-identificazione del tutto, anche quando questi conserva le sue caratteristiche sostanziali (un classico della letteratura è il dilemma della nave di Teseo, ripreso ed ampliato da Hobbes). È fondamentale il contributo di Lucrezio, poiché secondo tale autore è la continuità della memoria a costituire il criterio d’identità, in quanto indice delle preoccupazioni verso i se futuri: in questa affermazione si intravedono alcuni elementi che saranno fatti propri dalle concezioni complesse dell’identità, sviluppate a partire dalle riflessioni Lockiane. In autori come Platone ed Aristotele, che rappresentano invece la tradizione essenzialista, è sempre la forma sostanziale a garantire l’identità: nel caso dell’identità personale è l’anima, con le sue caratteristiche di d’immaterialità, unità, indivisibilità e trascendenza, che costituisce il nocciolo duro della nostra persistenza nel tempo.
Il problema dell’identità personale è storicamente complementare a quello cristiano della resurrezione: come fa un corpo a risorgere se la materia di cui è composto transita in altri corpi tramite il normale ciclo vitale delle creature viventi? Le diverse risposte fornite a questa domanda sono preziose poiché passano necessariamente per l’analisi di cosa conta come persona e quali sono i suoi criteri di d’individuazione. Le posizioni di stampo sostanzialista (Aristotele, Tommaso) sostengono che l’identità del risorto va cercata nell’identità della forma piuttosto che nell’identità delle parti materiali; opposta è la soluzione di Hobbes il quale, muovendosi dalla prospettiva empiristica della negazione sostanziale e tenendo presenti i conseguenti problemi per il paradigma corpuscolare, descrive la persona divina in termini giuridici: la resurrezione della persona, data la materialità dell’anima, non può che esser legata ad un gesto soprannaturale, mentre la persona è individuata in relazione alla possibilità di ascrizione d’azioni (in termini di rappresentanza, come farà Locke), sottolineando in tal modo la definizione meramente nominale di tale concetto. L’identità così intesa resiste solo sul piano pragmatico-giuridico, venendo negata su quello sostanziale (interno), previo un gesto soprannaturale (esterno). L’importanza strategica della posizione Hobbesiana si riflette sul dibattito sei-settecentesco circa la composizione dei corpi: i corpuscolaristi (Boyle, Digby) contro gli antimaterialisti (Cudworth, Cartesio, Sherlock); ma entrambe le posizioni porterebbero alla conclusione necessaria secondo cui, non avendo la materia nessun principio di organizzazione che riesca a spiegare fenomeni complessi come la vita mentale e la self-unity (conditio sine qua non di pensiero ed azione), esisterebbe un qualcosa di attivo che ci permetterebbe di pensare ed agire come un’unità armonica: è la persistenza di tale forma sostanziale che assicura l’identità. Questi autori concordano però con l’idea Lockiana secondo cui, essendo tale dimensione epistemicamente inaccessibile alle limitate facoltà umane, l’identità sia in qualche modo legata alla stessa continuità di coscienza. Ancora una volta l’autore usa queste riflessioni per supportare la tesi secondo cui ci troviamo di fronte ad un vero e proprio ‘bisogno della forma (p. 56).
Cadendo ogni criterio d’identità stretta si aprono due strade: o abbracciare una posizione super-naturalistica, oppure ripararsi nel nominalismo. Sarà solo l’analisi Humeana a distaccarsi dalla tradizione, poiché Locke sembra stare ancora con un piede da una parte ed uno dall’altra. La sua posizione costituisce una pietra miliare delle riflessioni sull’argomento, tanto che ogni teoria successiva è a ragione categorizzata come neo-Lockiana o meno. Mi sembra fondamentale la confutazione del discorso cartesiano tramite l’appello ai concerns che abbiamo verso i nostri future selves, inspiegabili da una prospettiva dualista (vedi Noonan 2003, cap. 2). L’identità dipende dalla continuità della coscienza poiché solo in tal modo possiamo spiegare gli obblighi, le preoccupazioni e gli impegni che legano il nostro io di oggi con quello di ieri e con quello di domani. Come si vede chiaramente, sia il discorso sui criteri d’identità, sia quello sulla definizione di persona, si configura in una prospettiva pratica forense e morale: identity matters. Il criterio di identità non dipende dalla persistenza di alcuna sostanza (materiale o meno), poiché anche se fossi costituito della stessa sostanza che un tempo apparteneva a Corradino, ciò non mi renderebbe né interessato né responsabile per le sue azioni. Invece la continuità di coscienza spiega perché il fatto  di ricordare come mie certe azioni compiute in passato da un’altra persona mi faccia sentire responsabile per esse. È in questo framework che trova ragione l’affermazione Lockiana secondo cui ‘person is a forensic term, appropiatingappropriating actions and their merits, and so belongs only to intelligent agents capable of a law, and happiness and misery’. Lo stesso ordinamento giuridico sembra confermare questa ipotesi: se una persona affetta da doppia personalità compie un dato crimine al tempo t1, al tempo t2  essa non è punibile se non ricorda nulla di ciò che ha fatto precedentemente, anche se rimane la stessa persona fisica (the same man). Problemi sorgono poi sulla sull’effettiva sincerità del giudicato, ma questo è un’altra questione (a cui Locke risponde puntualmente chiamando in causa l’occhio onnipotente e giudicatore di Dio): almeno in linea di principio la punizione è assicurata dalla possibilità di fare altrimenti e dal riconoscimento delle passate azioni. 
Locke argomenta che, data la nostra ignoranza circa l’essenza reale delle cose, la nostra analisi dovrà svolgersi al livello di essenze nominali: per quello che concerne il discorso sull’identità personale questo significa abbandonare la pretesa di impostare il discorso in termini sostanzialistici per abbracciare un’analisi a livello psico-gnoseologico. Essendo l’identità un’idea di relazione, anche l’identità personale sarà definita in termini funzionali in relazione all’imputabilità giuridica (differenziandosi per questo in modo qualitativo sia dell’identità per i corpi fisici, sia da quella delle creature viventi; per questo stesso uomo  stessa persona). Locke abbraccia il presupposto cartesiano secondo cui i limiti del nostro io sono seganti dai confini coscienziali, ma si distanzia poi decisivamente dal pensatore francese in quanto tale premessa non agisce al livello della definizione di uomo, bensì a quello della dimensione di persona. Andando indietro dalla gnoseologia all’ontologia Locke afferma come essenziale per l’identità la continuità vitale: ‘l’insieme temporalmente esteso delle proprie affezioni così come da noi conosciuto’. I problemi del corpuscolarismo e del materialismo classico sono evitati parlando della persona in termini esclusivamente mentali, di d’ispirazione Cartesiana, scoperti da criteri epistemologici a parte subjecti. Essendo la persona definita in termini di capacità giuridica e capacità di provare piacere/dolore, il fatto indubitabile della preoccupazione che ognuno di noi ha per il proprio futuro rappresenta un indizio sulla costituzione della nostra identità. Locke si trova costretto tra due fuochi: da una parte c’è l’impossibilità di postulare l’identità nella persistenza dell’anima, di cui non sappiamo pressoché nulla; dall’altra troviamo l’instabilità della materia e la sua conseguente inadeguatezza nel costituire un criterio d’identità. 
L’unica finestra disponibile è quindi quella costituita dalla continuità di coscienza, la quale spiega egregiamente la caratteristica fondamentale del nostro senso d’identità: il fatto che questo ci motiva a preoccuparci per l’io di ieri (e le sue azioni), e quello di domani (e come si comporterà). Come scrive acutamente l’Autore ‘la coscienza è un atto riflessivo di second’ordine: essere cosciente di certe azioni significa condividere, come testimone, la conoscenza della loro occorrenza in un certo individuo, in quanto agente’ (p.93). In una certa prospettiva credo che sia proprio tale dinamicità pratica a costituire parte fondamentale della nostra identità diacronica. 
Le critiche dell’autore alla concezione Lockiana sono in sintonia con le classiche obiezioni avanzate nel settecento da Butler e Reid: come la conoscenza presuppone la verità, così la memoria presuppone la sostanza che fa la persona. È necessario un substratum forte che giustifichi le legittime evidenze che abbiamo della nostra identità, ma ogni confusione dell’evidenza con il fatto porta a conseguenze aporetiche (come mostra l’impossibile biografia dell’ufficiale). Infatti, essendo la memoria soggetta ad errori, non può costituire il nocciolo duro dell’identità personale: io sono lo stesso di ieri indipendentemente dal mio ricordalo o meno. Riconosco la forza di questa linea critica, anche se non la ritengo un’argomentazione decisiva contro la teoria Lockiana: infatti, anche se il mio aver fatto una certa azione prescinde dal mio ricordarla o meno, questo non vuol dire che dal punto vista pratico il mio averne coscienza sia ininfluente sulla concezione che ho del mio se, sul modo con cui mi confronti con il mio passato e sulle mie azioni future. Ritorna nuovamente predominante una certa concezione pratica del se.
Per superare queste difficoltà, il criterio della consciousness è stato via via ‘rinforzato’ dalle compagini neo-Lockiane (ad esempio Shoemaker (1984) e Grice (1941) hanno cercato di rafforzare il criterio della memoria per renderlo più adatto allo scopo), ma Allegra sostiene (con Wiggins) che ogni modificazione del principio psicologico porta ad un avvicinamento progressivo alle posizioni di guisa sostanzialista, poiché, ad esempio, la distinzione tra true memories e q-memories sembrerebbe già presupporre un criterio d’identità forte dato. Un’alternativa possibile non riconosciuta dall’autore, data l’implausibilità della posizione secondo cui è la consecutiveness tra stati mentali successivi ma distinti che costituisce l’identità, è quella di ripensare il canone ridefinendo l’identità personale ad un altro livello d’analisi: quello pratico-forense. 
La discussione sull’identità personale si è intrecciata inevitabilmente anche con quella sulla materialità dell’anima: la testimonianza più significativa è quella del dibattito tra Samuel Clarke ed Anthony Collins. La soluzione Lockiana fu accolta dal materialismo come un rimedio contro le difficoltà avanzate dai sostanzialisti, orientandolo in una prospettiva non-meccanicista, anche se l’esasperazione di tale processo porterà inevitabilmente all’abbandono di un certo concetto d’identità. Ma, mentre per l’autore questo processo è visto come un impoverimento teorico, secondo la mia opinione è solo la ridefinizione necessaria di un concetto essenzialmente pratico: la metafisica deve modellarsi sulle esigenze pratiche fondate su dati esperenziali evidenti che sarebbe ‘quite odd’ ignorare in favore di un ritorno alla tradizione, a volte legato a preconcetti non argomentabili ed intrinsecamente  legati ad influenze di carattere religioso. Alcune stesse espressioni di Clarke e di Priestley sono di importanza strategica per capire a fondo le perplessità circa un sostanzialismo che si andava sgretolando sotto i colpi erosivi dell’ascrittivismo: è infatti vero che alcune proprietà del tutto sono a volte emergenti rispetto alla mera somma di quelle delle parti, ma è anche vero che esse dipendono in gran parte dalla nostra ascrizione di significato dipendentemente dal loro ruolo funzionale (ad esempio, la proprietà dell’orologio di segnare, per mezzo dei propri meccanismi interni, una certa ora dipende da una nostra arbitraria attribuzione di significato ad una certa disposizione spaziale delle lancette). L’identità personale, presa in a strict and philosophical acceptation, è un concetto vuoto, ma questo non preclude il fatto che abbiamo concerns verso i nostri futuri io poichèpoiché, come suggerisce Cooper, sia io stesso sia gli altri attribuiranno una continuità causale con il ‘mio se’sé di ieri. Allegra riconosce questo cambiamento di obiettivi teorici, anche criticandolo come un impoverimento del concetto di identità; più in generale viene criticata come sterile la posizione empiristica, data la sua incapacità di spiegare il fatto fondamentale ed ineliminabile dell’identità: ma questo non è vero poiché tale concetto non viene deflazionato, bensì viene recuperato ad un livello di descrizione diverso (namely practical). 
Leibniz rappresenta una reazione al quadro teorico anti-tradizionale. Infatti l’autore tedesco condivide un quadro teorico di fondo simile a quello Aristotelico: il principio degli indiscernibili e nell’unità sostanziale. C’è comunque da notare che nello stesso Leibniz c’è una contrapposizione tra identità personale ed identità morale, anche se poi la prima (ontologicamente fondata) costituisce la conditio sine qua non della seconda; come sintetizza giustamente l’autore, nell’opera del grande Leibniz la ratio essendi è predominante sulla ratio cognoscendi. Tale mossa teorica è una conseguenza stretta della teoria Leibniziana delle monadi: viene a forza riaffermata l’esistenza di un’anima come principio d’identità ed organizzazione; appare allora netta l’opposizione frontale al nominalismo Lockiano.
L’autore presenta poi fedelmente la posizione di David Hume, ma in modo incompleto, ossia fermandosi solo all’analisi del primo libro del Treatise, accennando solo distrattamente alla concezione dell’io pratico (l’autore è in buona compagnia). Penelhum (1976) e Lecaldano (2002) propongono una lettura di più ampio respiro dell’opera Humeana, sottolineandonerilevandone la complessità e lo spessore teorico: ne risulta sia un’analisi del se ricca, sia la contrapposizione fra la complessità della descrizione del se teoretico con la semplicità del se passionale e morale. È si vero che la gnoseologia presentata nella prima parte del Trattato porta l’autore alle drammatiche conclusioni del primo libro e dei second thoughts, ma è anche vero che l’identità del se in quanto oggetto di passioni e sentimenti morali introduce sulla scena un io diverso da quello cercato tramite l’introspezione nel primo libro, la cui identità è una un’idea di relazione dettata da criteri si somiglianza convenzionali. È invece interessante la linea critica ripercorsa dall’autore che attacca la troppo povera gnoseologia humeana, la quale non riconosce quel minimo di trascendentalità (nel senso di unità) innegabile che rende sensato parlare senza aporie di io (vedi pagine 188-190). Ma proprio queste considerazioni dovrebbero portare ad abbraccirare le tesi Humeana secondo cui dovremmo dar peso alla dimensione pratica della genesi del sé. L’autore non accetta tale passaggio poiché dalla sua prospettiva appare deflazionista. 
Le conclusioni che l’autore delinea sono coerenti con le preferenze teoriche avanzate nel libro: solo una distinzione forte tra sostanza ed accidente permette ancora di parlare di identità in senso filosofico (stretto, forte), naturalmente applicandola alla sostanza. Le posizioni che negano il dato fenomenologicamente immediato della presenza introspettiva dell’io portano a conclusioni controintuitive: sarebbe infatti impossibile lo stesso interrogarsi su tali questioni se non ci fosse un centro di ragionamento che coordinasse temporalmente le mie azioni, in modo da render possibile la loro imputabilità non ad un corpo inteso come ammasso più o meno omogeneo di materia, ma ad una persona. Solo così si possono evitare le aporie del materialismo e della stessa dottrina Lockiana, che necessitano di una continua integrazione di d’elementi esterni per non risultare controintuitivi; elementi che provengono naturalmente dalla tradizione di stampo aristotelico-leibniziana, che troverà nel trascendentalismo kantiano la sua più interessante interpretazione. Sono allora  lodate le posizioni di Wiggins, Strawson e Nozick, poiché non diffidenti della metafisica come invece sono i loro colleghi analitici, da Russell e Wittgenstein a Parfit e Williams. L’autore sostiene a ragione che non bisogna confondere i criteri di identità con l’evidenza che abbiamo per essa, ma non sono d’accordo che questo sia una mossa determinantein favore della teoria sostanzialistica, poiché anche se questo passaggio consiste in un riconoscimento della primitività dell’io, questa semplicità è secondo me di carattere pratico, e non metafisico. Queste affermazioni sembrano portare acqua al mulino di Hume, poiché lo stesso filosofo scozzese sosteneva che il riconoscimento di un io stabile e persistente era possibile solo al livello passionale: è questo e proprio quello che mi sembra affermare Antonio Allegra (e con lui anche altri autori) quando dice che noi siamo intimamente connessi con la nostra immagine interiore, che questo non è nemmeno un fatto verificabile, bensì è qualcosa di più ultimo e fondamentale. D’altronde quello d’identità personale è un concetto, e come tutti i concetti la sua importanza pratica è molto rilevante: ad esempio cercare di capire cosa vuol dire essere la stessa persona nel tempo può gettar luce sul meccanismo motivazionale ad agire in un certo modo in situazioni di carattere morale (sono un esempio gli importanti libri di D. Parfit 1973, 1982, 1984, T. Nagel 1970, 1986, 1997 e B. Williams 1973, 1981, 1995; ma anche i meno noti ma non meno interessanti lavori di P. Chazan 1998, J. Whiting 1986, V. Haksar 1991 e J. Perry 2002). Questi lavori, tutti non a caso di d’ispirazione Humeana o Aristotelica, mi sembrano essere accomunati dall’accento sull'esistenza di un soggetto morale la cui identità è descritta sul piano pratico: questa mi sembra essere la giusta prospettiva da cui può essere trovata una soluzione prolifica al problema della connessione con i nostri later selves.
Per concludere, il lavoro di Antonio Allegra è sicuramente caratterizzato da molta attenzione sia alla gnoseologia Lockiana sia al contesto teorico con cui il pensatore inglese si doveva confrontare, cosa che invece è generalmente carente nella letteratura analitica contemporanea: viene giustamente sottolineata la differenza tra essenza nominale e reale, nodo cruciale per capire lo spessore del discorso lockiano. È doveroso confrontare le tesi presentate in questo lavoro con i libri di J. Mackie (1976), H. Noonan (2003), M. Di Francesco (1998) e M. Ayers (1991), testi che l’autore tiene continuamente presenti, anche divergendone in diversi punti; altro testo fondamentale nell’economia del libro, soprattutto per le affinità dialettiche, è quello di D. Wiggins (2001).

Bibliografia

Chazan, P. 1998: The moral self (Routledge, London and New York)
Di Francesco, M. 1998: L’io e i suoi sé  (Raffaello Cortina Editore, Milano)
Grice, H.P. 1941: Personal identity (Mind, Vol. 50, october 1941, anche in Perry 1975)
Haksar, V. 1991: Indivisible selves and moral practice (Edinburgh University Press, Edinburgh)
Lecaldano, E. 2002: The passions, character and the self in Hume (Hume Studies, 28/2)
Mackie, J.L. 1976: Problems from Locke (Oxford Clarendon Press, Oxford)
Nagel, T. 1970: The possibility of altruism (Princeton University Press, Princeton)
Nagel, T. 1986: The view from nowhere (Oxford University Press, Oxford)
Nagel, T. 1997: The last word (Oxford University Press, Oxford)
Noonan, H.W. 2003: Personal identity 2ed. (Routledge, London)
Parfit, D. 1973: Moral principles and later selves (in A. Montefiore, Philosophy and Personal Relations,  London: Routledge and Kegan Paul 1973)
Parfit, D. 1982: Personal identity and rationality (Synthese, 53)
Parfit, D. 1984: Reason and persons (Oxford Clarendon Press, Oxford)
Penelhum, T. 1976: Self-identity and self-regard (in Rorty 1976: The Identities of Persons, University of California Press, Berkley) 
Perry, J. 2002: Identity, personal identity and the self (Hackett, Indianapolis)
Perry, J. ed. 1975: Personal identity (University of California Press, Berkley)
Rorty, A.R. ed. 1976: The Identities of Persons (University of California Press, Berkley)
Wiggins, D. 2001: Sameness and substance renewed (Cambridge University Press, Cambridge)
Shoemaker, S.-Swinburne, R. 1984: Personal identity (Blackwell, Oxford)
Whiting, J. 1986: Friends and future selves (The Philosophical Review, XVC/4)
Williams, B. 1973: Problems of the self (Cambridge University Press, Cambridge)
Williams, B. 1981: Moral luck (Oxford University Press, Oxford)

Indice

Prefazione. Soggetività, identità, metafisica
I. Morfologia e preistoria dell'identità
II. La carne impossibile. Il dibattito sulla risurrezione
III. La coscienza senza la sostanza. I problemi e le soluzione di Locke
IV. La coscienza in azione. La polemica Locke- Stillinfleet
V. Il rigoglio delle polemiche. I. Le obiezioni classiche
VI. Il rigoglio delle polemiche. II. Materialismo ed oltre
VII. L'anima ed il mulino. L'identità tra Leibniz e Hume
Conclusioni. L'anima dopo l'anima. Materiali per un bilancio teoretico
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L'autore

Antonio Allegra è dottore di ricerca in filosofia e scienze umane e autore di studi ispirati da un progetto complessivo di indagine sulle forme di soggettività. Oltre a numerosi articoli ha scritto Identità e racconto. Forme di ricerca nel pensiero contemporaneo, ESI, Napoli 1999; Le trasformazioni della soggettività. Charles Taylor e la tradizione del moderno, AVE, Roma 2002. Sul piano storiografico si interessa soprattutto di filosofia e cultura del ‘600: ha curato con Carlo Vinti le Opere scelte di Federico Cesi, Effe, Perugia 2003, e attualmente è impegnato nella cura dell’edizione italiana di opere di Baltasar Graciàn. È titolare di assegno di ricerca nell’Università di Perugia, dove svolge attività presso la cattedra di Storia della filosofia contemporanea.

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