martedì 8 novembre 2005

Rossi, Katia, L’estetica di Gilles Deleuze. Bergsonismo e fenomenologia a confronto.

Bologna, Pendragon (Le sfere, 103), 2005, pp. 319, € 26,00, ISBN 88-8342-382-8.

Recensione di Massimo Piermarini - 08/11/2005

Estetica, Storia della filosofia (poststrutturalismo), Filosofia teoretica (immanenza)

La dottrina deleuziana dell’evento può essere compresa come un’estetica? Il termine estetica, in Italia, rimanda ai fasti della filosofia idealistica dell’arte, ma con Deleuze siamo du coté chez Nietzsche, al riparo da infezioni metafisiche. 
La prima impressione suggerita dalla lettura del volume di Katia Rossi, una lettura antifenomenologica di Deleuze, avvia al nodo del problema: un quadro interpretativo unitario per cogliere la “ripresa di Bergson da parte di Deleuze in un certo senso in una luce antifenomenologica” (p.14). Il guadagno antimetafisico produce un risultato ermeneutico, cioè una diversa modalità d’approccio al pensiero deleuziano, centrata sull’estetica (quel “crocevia in cui l’arte e la filosofia s’incontrano senza prestarsi ad alcuna sintesi pacificante”, p.309), che per l’autrice costituisce il progetto costante della filosofia di Deleuze. Dopo un esame serrato della letteratura critica più recente, il lavoro ricostruisce un’impresa filosofica inedita, ossia far giocare Bergson contro Husserl, a partire da due testi-chiave per avvicinarsi all’estetica deleuziana: L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. 
Il superamento del dualismo della psicologia ottocentesca convoca Bergson e Husserl, con una netta preferenza per il primo, in controtendenza rispetto alla massiccia presenza della fenomenologia in Francia. La partita con la fenomenologia, squisitamente ontologica, si gioca sulla concezione del “campo trascendentale”. Riguarda cioè il piano d’immanenza, coincidente col piano trascendentale, che risponde al problema della genesi del senso, oggetto del primo capitolo del volume. Deleuze supera le nozioni di soggetto e oggetto della fenomenologia husserliana, per quella di piano d’immanenza, coscienza pre-riflessiva impersonale o durata senza io. Esso basta a sé stesso e non rinvia ad altro, esclude le filosofie della coscienza e gli spiritualismi, così come le ipostatizzazioni realistiche. Si realizza in un empirismo radicale, nel quale l’esperienza non è ridotta al vissuto di un soggetto, il cui concetto sarebbe la significazione, ma costituisce la realtà di una pura corrente a-soggettiva, della durata qualitativa. Il concetto afferra l’evento, reale come un incorporeo stoico, che sorvola ogni vissuto o stato di cose. La logica della sensazione, che fa i conti con la fenomenologia, si pone fuori (e contro) ogni fenomenologia dell’arte, ogni pretesa comprensione del vissuto, che viene approfondita nella sua complessa articolazione nel capitolo secondo. 
Nel terzo capitolo, dalla trama assai complessa, si approfondisce la "fondazione" dell’estetica deleuziana, a metà tra scienza e metafisica del divenire, che trova nella riflessione sul cinema il suo punto focale. La carica antiplatonica della Logica del senso deleuziana viene esposta in dettaglio, per mostrarne gli effetti di rovesciamento in una metafisica dell’evento, paradossale, incorporeo, di superficie, mentre il confronto con la fenomenologia husserliana verte sulla coscienza immanente all’evento-noema e sulla coscienza di superficie del senso-espresso, che Deleuze considera non riducibile alla proposizione, al concettuale. La svolta soggettivo-trascendentale di Husserl smarrisce invece questo piano d'immanenza ed eleva al trascendentale il mero esercizio empirico. Oltrepassando l’evento impassibile e anonimo del piano d’immanenza, la fenomenologia presenta come originario ciò che appare soltanto dogmatico. L’ontologia dell’univocità dell’essere di Deleuze registra una distribuzione nomadica dell’essere alla superficie, fuori dalle gerarchie di generi e specie proprie della logica della rappresentazione. Il pensiero di Husserl resta per Deleuze “pur sempre una riflessione sulla conoscenza, la cui funzione è quella di riassorbire l’evento, recuperando comunque e sempre l’Altro nel medesimo” (p.78). Il contrasto tra fenomenologia e “campo trascendentale”, un campo “senza Io”, impersonale, che coglie la genesi dinamica del senso, dagli stati di cose agli eventi, in direzione della superficie delle produzioni, è pressoché totale. Il campo trascendentale impersonale (cioè l’empirismo trascendentale) è un piano d’immanenza da instaurare contro l’orientamento kantiano della fenomenologia. Ma si tratta di un’immanenza che “è immanente esclusivamente a se stessa” (p. 87), non alla coscienza o al soggetto della riflessione; un’immanenza in cui “si danno soltanto eventi, ossia mondi possibili in quanto concetti, e ‘altri’ in quanto espressioni di mondi possibili e di personaggi concettuali” (ibid.). Percorso da movimenti infiniti, il piano d’immanenza consente soltanto il sorvolo immanente di un campo senza soggetto. 
Il concetto di “Altrui” chiarisce ancor meglio questa concezione di un’immanenza che non si rapporta a un trascendente e non consente di pensarne al suo interno. L’altro non diviene qui un fenomeno dell’ego, cade l’illusione classica della reciprocità delle coscienze, per la quale l’Altro sarebbe un altro io. “Altrui” è infatti un a priori, “una struttura del campo percettivo, senza la quale questo campo non funzionerebbe come funziona” (p. 93): fine dell’approccio, tipico della fenomenologia che fa del vissuto e dell’io un primo rispetto all’altro. La stessa costrizione del pensiero è il “fuori”, ciò che dà da pensare, il nuovo, non il riconosciuto del pensiero che “anticipa se stesso giudicando a priori del suo oggetto”(p. 99). L’atto di pensare mette in crisi la soggettività stessa, fuori da ogni rassicurazione dell’immagine normativa del pensiero. Esso si espone così al rischio e alla sperimentazione del nuovo, incontrandosi con la contingenza del segno, all’impatto provocatorio, apportatore di problemi. 
L’incontro con il segno - l’intensità come pura differenza in sé - è quello con l’arte, che può essere solo sentita e precede l’intelligenza, cui fa comunque appello. L’incontro col segno sentito rinvia all’intuizione bergsoniana, che consente di giungere al cuore delle cose stesse, alle loro tendenze, e di distinguere le differenze delle cose, di natura e interne, al di là di ogni astratta rappresentazione, consentendo di disporci a un empirismo superiore. La concezione bergsoniana della “luce prima” come piano-materia delle linee di luce nel capitolo iniziale di Materia e memoria mette in scena questo piano d’immanenza, in cui dall’occhio impersonale installato nelle cose si costituisce successivamente quello del soggetto. 
L’impotenza – denunciata da Deleuze previo sottile esame analitico - della fenomenologia a superare una veduta fotografica delle cose e a “estrarre da ogni attuale la sua parte di virtuale dandogli consistenza” (p. 123) è un motivo che percorre tutto il testo e gli dà il tono. Le divergenze profonde dalla fenomenologia si approfondiscono in sede estetica nelle critiche a E. Strauss, Merleau-Ponty, Maldiney. 
Nel caso di Bacon, a cui Deleuze dedica un importante libro, la filosofia dell’evento introduce il concetto di figurale, che manifesta lo spazio del desiderio, diverso dalla narrazione/illustrazione così come dal figurativo, poiché si tratta di dipingere la sensazione, fuori del vissuto e dei sentimenti, vale a dire oltre ogni logica della rappresentazione. Il che significa dipingere il tempo, il corpo senza organi: “Il corpo senza organi […] si definisce a partire dalla presenza temporanea e provvisoria di organi indeterminati, sorti per così dire dall’incontro, dall’urto dell’onda intensiva con il corpo, operazione che viene restituita pittoricamente grazie all’introduzione del tempo nel quadro” (p. 169) Al corpo senza organi, vivente e molteplice, affettivo e intensivo, attraversato da forze o potenze impercettibili, intuito precocemente da Artaud, sono dedicate alcune belle pagine (cfr. pp. 171-179) che mostrano il primato della materia intensiva sulla realtà biologica estesa, dell’embrione sul corpo organizzato, contro la visione metafisica dell’individuazione e il sistema della soggettività. Soltanto un soggetto larvale è capace di sostenere le esigenze della reazione ai segni del divenire. Soltanto un corpo senza organi è capace di desiderio, che non ha scopo né intenzioni, così come la scrittura involontaria di Proust, la follia schizo o l’arte, questo “processo senza scopo che si realizza come tale” (p. 181), proprio come l’élan vital di Bergson, che ha direzioni e linee evolutive divergenti ma non scopi. L’arte può diventare un tentativo di riempire d’immanenza l’esistenza e di esprimerne la potenza. L’arte, ad esempio quella di Kafka, pone in rapporto con il divenire animale, un continuo di intensità che valgono per sé stesse, in cui tutte le forme si dissolvono nel flusso del divenire, della pura metamorfosi. 
In tal senso il cinema è identico alla realtà, bergsonianamente un insieme di immagini, contro ogni dualismo, conservato nell’impianto categoriale della fenomenologia husserliana. Nel primo capitolo di Materia e memoria (testo guida di tutto il percorso teoretico del saggio), Bergson mostra come il mondo sia un insieme di immagini viventi, senza centri di riferimento, un immagine-movimento, il cui insieme illimitato “costituisce il nostro universo materiale e dinamico” (p. 217). Il cinema realizza questa visione del mondo. La creazione di concetti propri del cinema ha consentito a Deleuze di smuovere il terreno della filosofia (soprattutto della scena francese, dominata dalla fenomenologia e dal suo trascendentalismo) a partire proprio dalla concezione bergsoniana della materia-movimento intesa come immagine, “un insieme acentrato di elementi variabili che agiscono e reagiscono gli uni sugli altri” (p. 219). La distensione dell’élan vital nella materia infinitamente divisibile e la sua tensione nella durata costituiscono infatti uno stesso piano d’immanenza. L’immagine-movimento coglie il cinema come un evento della materia-immagine, mentre l’immagine-tempo come evento di un pensiero-immagine che affronta il caos e lo taglia, acquistando consistenza con la creazione di concetti senza perdere nulla dell’infinito in cui è immerso. Soltanto grazie al cinema è possibile riflettere l’infinito nella velocità delle immagini virtuali e cogliere il tempo come totalità aperta. La variazione universale dell’universo è l’universo come cinema in sé, che ci restituisce la percezione totale, oggettiva e diffusa del pre-mondo prima degli uomini, intravisto da Bergson in Materia e memoria. Il cinema, per le sue stesse caratteristiche, è incluso nella concezione moderna del movimento come totalità aperta del tempo, Tutto virtuale. Le tesi di Bergson sul movimento trovano un esatto corrispettivo, per così dire, nella creazione cinematografica. Analizzando le quattro condizioni determinanti del cinema (foto istantanea, equidistanza delle istantanee, riporto sul supporto filmico, avanzamento delle immagini), Deleuze individua il cinema come il sistema che riproduce il movimento in funzione di istanti equidistanti: “Grazie al cinema il flusso del tempo diviene la realtà stessa, e oggetto di studio sono le cose che trascorrono, la realtà che passa” (p. 231). Il Tutto aperto (identico alla durata bergsoniana) resta il fuori-campo determinato dall’inquadratura. I tre livelli bergsoniani (movimento come spazio percorso, concezione moderna del movimento in funzione del momento qualsiasi, movimento come sezione mobile della durata) sono esplicitati dal cinema: inquadratura, piano cinematografico, montaggio cinematografico. Da quest’ultimo risulta l’espressione della durata, in un’immagine del tempo indipendente dal movimento, oggetto del secondo saggio di Deleuze sul cinema.
Questa tessitura tra filosofia bergsoniana, focalizzata sul piano di immanenza, e momenti del cinema, viene condotta in modo estremamente articolato ed entra nello specifico della metamorfosi dell’immagine-percezione, affezione e azione per sboccare nell’immagine-ricordo e dell’immagine ottica e sonora pura, inorganica o fisico-geometrica, che ci avvia ai circuiti virtuali, che segnano diverse fluttuazioni della soggettività in rapporto all’oggetto. Rappresentata al cinema dal flaskback, l’immagine-ricordo ci restituisce un’immagine del passato in quanto “antico presente”, ma non è ancora l’immagine completamente virtualizzata del “ricordo puro”, fuori da tutti i cliché e dalle immagini senso-motorie delle cose, che attinge alla forza del virtuale, alla scissione del tempo in attuale e virtuale che il cristallo di tempo ci rivela: “L’immagine del ricordo puro, che esiste solo al di fuori della coscienza, rende necessari un movimento che ci spinge fuori di noi […] è grazie all’immagine cristallo cinematografica che è possibile raggiungere quei mondi cristallini sottratti all’identificazione, alla riconoscibilità, alla classificazione” (p. 290). Questa “immagine-tempo diretta” rende sensibile nel cinema il tempo e coglie il tutto come fuori, “una continuità che si concilia con la successione di punti irrazionali, secondo rapporti di tempo non cronologici incommensurabili” (p. 296). Conclusivamente il testo, la cui struttura ricostruisce minuziosamente problemi e passaggi dei dibattiti filosofici in terra di Francia e i nodi fondanti degli smontaggi-montaggi concettuali del filosofare deleuziano, riesce a trasmettere il pathos della ricerca teoretica di Deleuze, che anticipa una ricognizione del secolo che si dispiega sotto i nostri occhi.

Indice

Introduzione 
La riscoperta deleuziana di Bergson: una presa di distanza dalla fenomenologia 
Capitolo primo Genealogia del senso 
Capitolo secondo I limiti della fenomenologia dell’arte 
Capitolo terzo Il cinema quale arte eminentemente anti-fenomenologica 
Conclusioni 
Proposta per un’estetica deleuziana: la bergsoniana materia-movimento contro l’husserliana
La terra non si muove 

L’autrice

Katia Rossi (Firenze, 1971) ha conseguito un Dottorato in Filosofia (Estetica) presso l'Università di Bologna con una tesi dal titolo L'estetica di Gilles Deleuze. Bergsonismo e fenomenologia a confronto. Studiosa di estetica contemporanea, è autrice di saggi sul pensiero di Deleuze e sulla filosofia francese. Collaboratrice delle riviste "Millepiani" ed "Estetica", trascorre periodi di studio a Parigi, interessandosi anche di cinema e di arte contemporanea. Ha inoltre curato insieme a Ubaldo Fadini il volume di Deleuze, Istinti e istituzioni (Milano 2002) e realizzato numerosi lemmi della sezione estetica per la terza edizione dell'Enciclopedia filosofica che verrà pubblicata da Bompiani. Collabora con la cattedra di estetica contemporanea dell'Università di Firenze. Fra i suoi ambiti di ricerca, oltre al pensiero di Deleuze, la filosofia francese del Novecento, l’estetica fenomenologica (Henri Maldiney e Erwin Straus) e l’estetica del cinema.

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