sabato 15 aprile 2006

Miglio, Giovanna (a cura di), Fedeltà a se stesse e amore per il mondo. Arendt, Heller, Hersch, Stein, Weil, Zambrano

Pisa, Ets, 2005, pp. 111, € 10,00, ISBN 8846714415.

Recensione di Monica Fiorini – 15/04/2006

Il volume raccoglie i testi di una serie di conferenze dedicate ad alcune pensatrici di cui evidenzia il contributo in relazione a molti dei più importanti problemi del secolo appena trascorso (e che sono anche i nostri). Le sei autrici prescelte hanno infatti risposto con l’impegno e spesso l’esilio alle situazioni più drammatiche del novecento e sono spesso risultate fuori dagli schemi. Tutte, inoltre, nota la curatrice, Giovanna Miglio, sono caratterizzate da un particolare rapporto con il mondo, un “amore per il mondo”, come dice il titolo del libro, che ha molte implicazioni e si declina senza dubbio in modi molto diversi, ma che si radica sempre nella consapevolezza che, con le parole di Simone Weil, “la filosofia è cosa assolutamente in atto e pratica” e che regioni troppo spesso dimenticate dell’esistenza vadano riammesse nel territorio del pensiero.
I saggi di cui si compone Fedeltà a se stesse a more per il mondo mettono dunque tutti in rilievo una stretta connessione tra vita e pensiero, tra riflessione filosofica e circostanze che possiamo di volta in volta definire personali, interiori, storiche, politiche. E si muovono intorno alla centralità dell’amore offrendo percorsi differenti (anche nell’intensità e nella forza della lettura) tra le varie riflessioni di cui evidenzierò qui solo alcuni nuclei, quelli intorno ai quali si è particolarmente concentrata la mia lettura, e che potrei indicare nominando: il corpo, l’efficacia del pensiero, l’espressione “scoperta di problemi attuali” (e la loro elaborazione affinché corporeità ed esperienza vivente e temporale trovino iscrizione nel pensiero) e un materialismo che implica il riconoscimento dell’indipendenza della realtà dall’io penso; ovvero, come direbbe una scrittrice non nominata in queste pagine ma che potrebbe accompagnare queste pensatrici, che il mondo “indipende” da noi. “Il mondo indipendeva da me e non capisco ciò che vado dicendo [...] La vita mie è. La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro...” (Clarice Lispector).
La relazione tra il corpo e l’estremo esercizio di attenzione verso il mondo che la caratterizza è il punto di partenza di Chiara Zamboni nella sua lettura di Simone Weil. Il corpo è limite e leva di conoscenza, ci offre un accesso parziale (non universale e astratto) al mondo, e al contempo un sentire che partecipa anche di ciò che non è immediatamente presente (con una forma di “empatia” che è parola centrale in Edith Stein, cui è dedicato il testo di Angela Ales Bello). Questo amore è in Weil amore della necessità (p. 29), accoglienza della necessità del mondo, un’accoglienza che ha bisogno per dirsi di una scrittura filosofico-letteraria che “non rappresenta” gli eventi di grande portata che avvenivano allora in Europa, alla vigilia e durante la seconda guerra mondiale, “non se ne fa specchio, ma apre un luogo di meditazione dal quale pensarli, in un tempo sospeso” (p. 33) in cui possono essere letti con distacco e insieme con passione. L’esempio specifico cui si riferisce Chiara Zamboni è la lettura dell’Iliade, poema della forza, elaborata da Simone Weil tra il 1939 e il ‘41 dove il poeta (Omero) viene esplicitamente visto come colui che è capace di vedere la natura della forza, “il potere, che essa possiede, di trasformare gli uomini in cose [...] da ambo le parti; essa pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e la usano” (p. 34). Lo sguardo del poeta è capace di sottrarsi in un certo qual modo, pur restando all’interno del mondo da essa dominato, alla logica della forza, perché sa guardare con uguale pietà (parola che torna soprattutto in Maria Zambrano) vinti e vincitori. Questo sguardo “conficcato nella sofferenza della parzialità della propria esistenza” si apre contemporaneamente “ad una verità che è possibile perché si vede il proprio essere come facente parte di un gioco più grande di noi” (p. 36) senza per questo sottrarsi alle conseguenze di ciò che sta avvenendo.
Se in tal senso Simone Weil ci offre un esempio di scrittura per il presente, è questo che le autrici dei saggi mettono tutte in luce. Insieme alla necessità di un pensiero efficace (“niente di ciò che è inefficace ha valore”, scrive Weil).
Anche il pensiero di Hannah Arendt è segnato dall’esigenza di efficacia. Laura Boella prende le mosse dalla sua distinzione tra il “chi” e il “che cosa”, dove il chi è relativo non a ciò che uno/una ha fatto o detto, ma al modo in cui si è messo in relazione con altri/altre, ed è in questo senso anche connesso al piano del parlare e dell’esporsi in pubblico, il piano propriamente politico, per Arendt, che non toglie nulla all’importanza di preservare uno spazio privato, spazio che vale la pena abbandonare quando in effetti ne va del mondo comune ed è in gioco l’amore del mondo. Da qui l’attenzione di Boella alle relazioni, a chi era Hannah Arendt nello sguardo delle amiche e degli amici, e in particolare a come è stata vista da un uomo, Heidegger, e da una donna Mary McCarthy, percorso di lettura che passa poi per come si è auto-ritratta la stessa Arendt. Anche qui troviamo l’enfasi sulla necessità, sull’essere venute al mondo in certe circostanze e sull’esigenza di assumerle che si esprime nel suo rispondere alla domanda posta a se stessa: “chi sei?” con le parole “sono un’ebrea”, scegliendo così non di dire io, Hannah Arendt, ho detto, fatto, scritto, ma l’anonimato. L’accento sull’autonomia dell’io viene sostituito dalla consapevolezza di dover partire da un dato di fatto che non si esprime sotto forma di una qualsiasi appartenenza ideologica o di gruppo, ma come responsabilità.
Laura Boella definisce Arendt non una filosofa, ma una pensatrice, una “scopritrice di problemi attuali”, primo fra tutti quello della banalità del male. L’attività del pensiero è dunque per lei come, in modi diversi, per le altre autrici studiate in questo volume, una risposta all’appello del mondo. Ma come si possono cercare di preservare e tramandare le esperienze di libertà fatte da alcuni in risposta a questo appello? Da questo punto di vista, Hannah Arendt indica nella narrazione un elemento fondamentale. La narrazione non è una teorizzazione, è un modo di elaborare il senso dell’esperienza che implica un ritorno alla concentrazione interiore senza interrompere i vincoli con il mondo e che non ha, rispetto al mondo, il distacco del pensiero teorico o filosofico per il quale esso diventa “insignificante e trascurabile” (sono parole di Broch, uno degli amici cui Arendt dedica un bel testo). “Il pensiero infatti” per Arendt, scrive ancora Laura Boella, “non riflette su qualcosa, non è la rete da farfalle che viene gettata sull’accadere, al contrario, il pensiero è provocato da ciò che accade, quindi ha un legame strettissimo con l’azione, deve dare ad essa compiutezza” (p. 57). Il pensare viene innescato da incidenti o accidenti dell’esperienza vivente.
Narrare non significa trovare una spiegazione, ovvero una giustificazione a qualcosa che non ce l’ha, ma “riappacificarsi con il mondo”, apprendere ad amarlo, rispondendo così al dovere di essere contemporanei anche quando è molto difficile, come nel caso di tutte queste pensatrici, non cedendo alla tentazione di isolarsi e allontanarsi e non totalizzando mai l’attività del pensare (in questo senso Arendt critica Heidegger e Benjamin) interponendo così una barriera tra pensiero e realtà.
Lo stesso rifiuto di ergere questa barriera si trova nella riflessione di Maria Zambrano, filosofa spagnola che ha vissuto quarant’anni di esilio dopo aver lasciato la Spagna alla fine della guerra civile. Wanda Tommasi mostra molto bene il modo in cui Zambrano ha espresso il suo amore per il mondo riprendendo il termine materialismo che per lei non è mai contrapposto a spiritualismo, ma indica la piena adesione alla concretezza dell’esistenza umana, una realtà che comprende “corpo” e “spirito” (e ne mette così in discussione l’astratta distinzione, le sue modalità consolidate), e rinuncia a ogni astrazione per stare sempre aderente alle circostanze. Circostanze difficili, che richiedono un atteggiamento “pietoso”. La pietà, secondo Zambrano è infatti l’arte di “saper trattare [...] con l’altro”, con l’eterogeneo, l’essere che non è noi, con il sentire, con il vivente che parla altri linguaggi, con le cose mute. Come nota Wanda Tommasi “l’insieme di queste caratteristiche [...] delinea i tratti di un sapiente piuttosto che di un intellettuale: il sapiente è colui che insegna a vivere, che trasmette una filosofica non come astrazione ma come stile di vita, che si fa maestro e guida di una pratica volta alla trasformazione di sé” (p. 92). Contro “l’ubriacatura della ragione”, Maria Zambrano auspica un ritorno a un realismo che sta tra le cose, senza potersi slegare da esse, le ama e se ne meraviglia, e così apprende a trattare con la realtà senza ridurla ad oggetto.
Il suo realismo – come in un certo senso anche quello di Agnes Heller, di cui Vittoria Franco mette in luce soprattutto l’esigenza di partire dalla contingenza dell’individuo, e di Jeanne Hersch, che, nota Roberta Guccinelli, sospende la sua filosofia al tempo di cui siamo fatti -, questo realismo, scrive Luisa Muraro (in La nostra comune capacità di infinito, Diotima, Mettere al mondo il mondo, Milano, 1990) si accompagna alla morte dell’io cioè “al concetto di una soggettività non opposta all’oggettività, ma posta per tramontare nella sua assolutezza e dare così luogo al mondo di cui il soggetto si conoscerà allora come facente parte”
Si tratta di un realismo innamorato delle cose che si allontana dall’io della tradizione filosofica occidentale in un modo diverso da quello di molti contemporanei di queste donne che vanno alla ricerca di esempi di questa libertà-schiavitù nei poeti e nei mistici.
Tutto ciò si traduce in stili di pensiero diversi, ma si incarna sempre in parole e scritture che fuoriescono dal solco della tradizione filosofica, che sia per il riferimento al delirio, al sogno, alla poesia, alla narrazione, alla confessione, alla scrittura letteraria (utilizzata per esempio anche da Jeanne Hersch per parlare della materialità del tempo), o per la scelta del piano della contingenza e per quanto fanno emergere di una esperienza della libertà che non ha come presupposto un soggetto autonomo, indipendente dal mondo e che lo domina. Una libertà radicata nel nesso tra chi prende la parola e il mondo cui amorosamente aderisce.

Indice

Prefazione, Giovanna Miglio

Edith Stein: il senso dell’esistenza umana, Angela Ales Bello

Simone Weil: sentire il mondo con tutta se stessa, Chiara Zamboni

Hannah Arendt: verità e amicizia, Laura Boella

Jeanne Hersch: tempo e decisione, Roberta Guccinelli

Maria Zambrano: l’attaccamento materno al concreto, Wanda Tommasi

Agnes Heller: la ricerca sull’etica negli anni ’90, Vittoria Franco

Le autrici

La curatrice, Giovanna Miglio, è docente di filosofia nei licei.

Angela Ales Bello, insegna storia della filosofia contemporanea all’Università Lateranense di Roma. Ha curato la traduzione italiana delle opere di Edith Stein. Fra le pubblicazioni più recenti si segnalano: L’universo nella coscienza. Introduzione a Edmund Husserl, Edith Stein, Hedwig Conrad Martius, Pisa, ETS, 2003; Sul femminile. Scritti di antropologia e religione, a cura di M. D’Ambra, Troina (En), Città Aperta, 2004.

Chiara Zamboni, insegna filosofia del linguaggio all’Università di Verona. Si occupa del pensiero femminile e ha dato vita con altre alla comunità filosofica Diotima. Fra le pubblicazioni più recenti si segnalano: Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Napoli, Liguori, 2001 e la cura del volume Maria Zambrano, in fedeltà alla parola vivente, Firenze, Alinea, 2002.

Laura Boella, insegna filosofia morale all’Università statale di Milano e fa parte della redazione della rivista “aut aut”. Fra le pubblicazioni più recenti si segnalano: Cuori pensanti. Hanna Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, Mantova, Tre Lune, 1998; Le imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, Mantova, Tre Lune, 2000.

Roberta Guccinelli è dottoranda presso l’Università di Ginevra dove lavora sulla filosofia di Jeanne Hersch. Ha curato la traduzione italiana del “romanzo” di Jeanne Hersch Temps alternés (Primo amore, Milano, Baldini e Castoldi, 2005).

Wanda Tommasi insegna Storia della filosofia contemporanea all’Università di Verona e fa parte della comunità filosofica Diotima. Fra le pubblicazioni più recenti si segnalano: Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Napoli, Liguori, 1997; Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Padova, Messaggero, 2002.

Vittoria Franco insegna storia delle dottrine politiche ed è ricercatrice di Storia della filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Fra le pubblicazioni più recenti si segnalano: Etiche possibili. Il paradosso della morale dopo la morte di Dio, Roma, Donzelli, 1996; Bioetica e procreazione assistita. Le politiche della vita fra libertà e responsabilità, Roma, Donzelli, 2005.

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