lunedì 19 giugno 2006

Patella, Giuseppe, Estetica culturale. Oltre il multiculturalismo.

Roma, Meltemi, 2005, pp. 168, € 16,00, ISBN 88-8353-435-2.

Recensione di Riccardo Campi - 19/06/2006

Estetica

Le indagini condotte da Giuseppe Patella nel suo ultimo libro si presentano, al contempo, come un bilancio e come un programma. Due infatti sono le principali linee di riflessione che l’autore segue e sviluppa: da un lato, si tratta di valutare l’importanza e il significato del contributo che i cultural studies hanno apportato a una disciplina filosofica come l’estetica, al suo statuto, ai suoi metodi, e ai suoi stessi oggetti; dall’altro, l’ambizioso progetto - che è piuttosto una sfida - consiste nel rivendicare la necessità e l’urgenza “di ripensare, di ridefinire l’identità [dell’estetica] in maniera adeguata alle esigenze del nostro tempo” (p. 72). In maniera ancora più esplicita, viene espressa l’esigenza “di accompagnare l’estensione dell’estetica verso nuovi orizzonti con una dotazione metodologica quanto mai flessibile e che sia in grado di avvicinare realmente tutta quella vastità di fenomeni complessi e differenziati che coinvolgono la sfera del sentire contemporaneo, all’opera nel mondo della comunicazione e dei media, nella società e nella politica, nella religione e nelle arti” (p. 60).

L’apporto più rilevante che gli studi culturali - anche nella loro versione postcoloniale (il rimando è ad autori quali Said, Chambers e Spivak) - hanno fornito al dibattito teorico è una diversa, più problematica definizione di “cultura”: questa non risulta più essere il prodotto di una tradizione unitaria, bensì la posta di una “lotta per il riconoscimento”. In altri termini, essa deve essere concepita come un contested terrain (l’espressione è di Douglas Kellner: cfr. pp. 43-45), nel quale i valori e i paradigmi culturali vengono determinati in base alla loro funzione nel quadro di una data struttura, complessa e storicamente determinata, di interessi e conflitti sociali, economici e ideologici (o meglio simbolici). Questo è l’assunto da cui muove la proposta teorica avanzata da Patella: “Va da sé che questo mutamento epocale della nozione di cultura implica l’obsolescenza tanto della classica concezione antropologica di cultura, intesa come sistema stabile e integrato che racchiude l’insieme dei modelli di pensiero e di azione condiviso dall’organismo sociale e che si trasmette di generazione in generazione, quanto dell’ideale estetico di cultura, erede della religione romantica dell’arte, come contenuto di verità eterna di cui l’artista sarebbe il custode e la grande opera la sua manifestazione privilegiata” (p. 46). Si potrà contestare pedantemente che questo ideale estetico di cultura è un’eredità ben più antica della religione romantica dell’arte, e che essa appartiene a una lunga tradizione umanistica la cui ambizione è sempre stata di abbracciare l’intera storia della civiltà occidentale, a partire dalla sue origini greche, onde fissare un modello universalmente valido di razionalità. Ma in tal modo non si fa che confermare la fondatezza dell’importanza “epocale” che Patella attribuisce a questa ormai necessaria e ineludibile (e anzi, di fatto, già compiuta) “ridefinizione della cultura”, come avrebbe detto T.S. Eliot, con tutt’altri intenti. 

Si possono facilmente intuire le conseguenze che lo statuto disciplinare dell’estetica può (e, secondo Patella, deve) subire al cospetto di un processo storico di tale portata. Meno di un secolo fa, si sarebbe parlato apocalitticamente di “crisi della cultura”. Più pacatamente, Patella suggerisce di cercare di comprendere tale processo e d’interpretarlo ripensando in maniera critica e accorta la nozione, fin troppo abusata e vaga, di “postmoderno”: essa può ancora rappresentare l’orizzonte, storico e concettuale nello stesso tempo, entro cui inscrivere quest’opera di ridefinizione della cultura. Bisogna però saper distinguere due “postmodernismi”: uno, “debole e perento, […] modaiolo e che ha fatto il suo tempo” (p. 23), rischia di trasformarsi (e di fatto si è trasformato fin dall’inizio) in euforica apologia dell’esistente, solidale con le nuove forme che i “beni culturali” assumono in seguito al processo di mercificazione cui l’industria culturale li sottopone indistintamente, favorendone un consumo di massa, irriflesso e sostanzialmente acritico. Per quanto fondate, “queste preoccupazioni di stampo francofortese” (p. 73), come le chiama Patella, non debbono tuttavia escludere la possibilità di intendere “il postmoderno come l’imporsi di una diversa logica del pensiero, una nuova forma di razionalità, non più monolitica, ma plurale […]: senza il tipo di consapevolezza che il postmoderno ci ha lasciato in eredità, come potremmo comprendere o anche solo confrontarci con le esperienze insolite e stranianti proprie di questi nostri tempi? […] Non è forse il caso di cominciare a misurarsi con le mutevoli espressioni dell’esperienza contemporanea - sempre più caratterizzate dalle forme della differenza, dell’opposizione, del conflitto, così come dalle ibridazioni, dagli scambi, dalle contaminazioni e dagli intrecci - a partire da quel diverso paradigma culturale, più aperto, flessibile, articolato, che si è imposto proprio con il postmoderno?” (pp. 23-24). Se la retoricità di tali domande è evidente, non meno evidente è la necessità di fornire a questo “diverso paradigma culturale” un apparato concettuale e metodi di analisi meno eclettici di quelli esibiti dal postmodernismo nelle sue manifestazioni più corrive.

Se del postmoderno bisogna riprendere il problema di fondo che esso sollevava, e non le effimere soluzioni che proponeva, allora una delle questioni più urgenti riguarderà la natura stessa degli oggetti con cui si trova a doversi confrontare un’estetica rinnovata - e, più in generale, ogni teoria (filosofica, sociologica, antropologica) che pretenda hegelianamente di apprendere il proprio tempo nel pensiero. Dall’“antropologia simmetrica” di Bruno Latour, Patella trae alcuni spunti per costruire una diversa tipologia di oggetti, e dunque delinearne una diversa definizione: i “nuovi oggetti” non si contrappongono più a un soggetto puro, magari un Io-penso trascendentale, poiché tra essi “l’uomo stesso è direttamente coinvolto e annoverato”. Latour li chiama oggetti “chiomati”, “arruffati”, con “attaccamenti a rischio”, ossia “oggetti incerti, quasi-oggetti, fatti di molteplici connessioni tentacolari mai del tutto chiuse, in grado di mettere in moto delle conseguenze inattese anche a lungo termine, e per questo tanto più imprevedibili e incontrollabili” (p. 124). Benché l’interesse di Latour sia rivolto propriamente alla costituzione di una “ecologia politica”, capace di dare conto di questi strani ibridi di natura e cultura (cfr. pp. 119-128), è tuttavia chiaro in cosa tale lavoro teorico possa risultare utile e pertinente anche per una riflessione sull’estetica in quanto disciplina, e sull’estetico in quanto dimensione peculiare dell’esperienza umana: anche l’oggetto dell’estetica ha subìto una sorte analoga agli altri “oggetti”, preso com’è tra l’industria culturale che ne fa una merce, le istituzioni (scolastiche, museali) che ne fanno un feticcio più o meno venerando, e un generale processo di estetizzazione delle forme di vita quotidiane che tende ad attribuirgli un valore eminentemente simbolico. È chiaro però che, in tal modo, l’estetica viene privata dei suoi tradizionali oggetti d’indagine. La conclusione cui Patella perviene nel constatare tali mutamenti è drastica: “Se prendiamo estremamente sul serio le indicazioni sollevate dall’insieme di queste problematiche e ci facciamo carico fino in fondo delle utili ‘provocazioni’ che giungono dall’ambito degli studi culturali, non possiamo non concluderne che dobbiamo veramente dire addio all’estetica, dobbiamo in altri termini rinunciare alla disciplina così come abbiamo imparato a conoscerla e a pensarla finora, lasciando spazio piuttosto a quella che, con Bourdieu, si potrebbe chiamare una teoria dei beni simbolici, o una scienza degli artefatti culturali” (p. 87).

Il riferimento a Bourdieu non è occasionale: la sua sociologia, in virtù della coerenza e del rigore che la caratterizzano, fornisce infatti alla riflessione di Patella uno dei principali punti di riferimento teorici, e soprattutto metodologici. Per analizzare e descrivere oggetti dallo statuto costitutivamente incerto, sono richiesti in effetti strumenti che non possono essere unicamente quelli dell’estetica filosofica tradizionale. La nozione di “campo”, per esempio, insieme a quelle (a essa complementari) di “habitus”, “riconoscimento”, “capitale specifico” (simbolico, in primo luogo), costituisce uno strumento per delimitare e descrivere l’ambito, le forze e le poste in gioco di quelle pratiche sociali particolari che si suole definire “artistiche” (pp. 96-97 e 108). Integrando tali nozioni con altre, per esempio con quella di “articolazione”, quale viene proposta da Stuart Hall (e da Laurence Grossberg, cfr. pp. 54-55), sarà possibile comprendere come “il riposizionamento di pratiche all’interno di un campo di forze in continuo cambiamento” (Grossberg) costituisca una lotta che fa della cultura (o, meglio, di quel campo particolare detto cultura) un contested terrain. Questo approccio “culturale” al problema del rapporto fra cultura e potere, tanto nella versione anglosassone che in quella sociologica di Bourdieu, secondo Patella ha il merito di sfuggire al “determinismo di tipo economico” (pp. 51-52), eredità di una concezione dottrinaria e ormai superata del marxismo. 

La costante polemica condotta da Patella contro quella che, a più riprese, chiama “estetica accademica” (pp. 61 e 75) non riguarda soltanto semplici questioni di metodo o di merito, circoscritte a un ristretto e specialistico ambito disciplinare: la “svolta culturale dell’estetica” (p. 67) invocata da Patella non solo priva quest’ultima dei suoi tradizionali oggetti d’indagine, ma ripropone l’esigenza di pensare ancora la “lotta per la cultura” (p. 46) in termini essenzialmente politici, e ideologici (nella corretta accezione marxiana). Una reticenza comprensibile (benché non condivisibile da parte di chi scrive) induce Patellla a omettere di fare appello all’auctoritas dei maestri francofortesi, che per primi e in maniera coerente e filosoficamente consapevole evidenziarono il nesso tra estetica, critica della cultura e critica dell’ideologia. Salvo poi sigillare, a sorpresa, il breve capitolo conclusivo del libro con una poderosa citazione di Adorno: “È successo di continuo, nella storia, che un lavoro che persegua obiettivi puramente teorici si sia rivelato capace nei fatti di trasformare le coscienze e quindi anche la stessa realtà sociale” (cit. a p. 156). Rivendicare, con Adorno, il primato della teoria sulla prassi è un modo per rivendicare all’estetica la sua funzione radicalmente critica nel confronti dell’esistente - e dunque politica. Retrospettivamente, i paragrafi dedicati a Bourdieu o quelli dedicati a Zizek (pp. 128-144) potranno allora essere rimeditati, per esempio, alla luce della celebre formula benjaminiana, secondo la quale il “patrimonio culturale […] non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie” (Tesi sulla storia, VII) - dove “barbarie” allude alla violenza e ai conflitti che i monumenti della tradizione culturale occultano, imponendosi come puri oggetti da venerare e paradigmi atemporali di bellezza e razionalità. Rimettere in discussione il valore esemplare di questa tradizione, e al contempo le condizioni del suo attuale consumo di massa, significa riattivare, e  rinnovare con strumenti più aggiornati, quell’atteggiamento critico che l’ideologica celebrazione della “fine delle ideologie” ottunde. 

Per designare questo nuovo tipo di engagement, Patella utilizza (già a partire da uno dei suoi primi lavori) il termine politicamente saturo di “resistenza”. Anche se, molto opportunamente, precisa che “questa resistenza non può essere espressa semplicemente in termini di negatività, né tanto meno di universalità; essa avrà piuttosto una funzione specifica, determinata, sarà a sua volta differenziata, pluralistica, contingente e propositiva. Il suo movimento differenziale non può significare nostalgia, rifiuto o rassegnazione, ma trasformazione e trapasso. In questo senso resistenza non significa né inerzia, né difesa dell’esistente, ma lento, quasi impercettibile però inarrestabile a caparbio movimento di trasformazione, di differenziazione dei piani, di disarticolazione della realtà e riarticolazione dei suoi livelli” (p. 150). Patella si vieta di ricorrere al gergo della tradizione dialettica, nelle sue diverse varianti, da Hegel ad Adorno, a Goldmann, e magari ad Althusser: probabilmente tale gergo gli suona ancora troppo metafisicamente pregiudicato. Questione di gusti: poco importa. Ciò che importa è che la sfida sia stata ripresa, adeguatamente riformulata, e rilanciata con vigore.

Indice

Introduzione

Orizzonti postculturali

Sull’utilità e il danno degli studi culturali per l’estetica

Frontiere. Ripensare l’estetica con le scienze sociali

Oltre il multiculturalismo: la resistenza

L'autore

Giuseppe Patella è professore associato di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”. È redattore capo della rivista “Ágalma” e autore dei seguenti volumi: Sul postmoderno. Per un postmodernismo della resistenza (1990); Gracián o della perfezione (1993); Senso, corpo, poesia. Giambattista Vico e l’origine dell’estetica moderna (1995); Simbolo, Metafora e Linguaggio, a cura di G.P. (1998); Bellezza, arte e vita. L’estetica mediterranea di George Santayana (2001); Giambattista Vico tra Barocco e Postmoderno (2005).

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