martedì 31 ottobre 2006

Strawson, Galen (ed.), The Self?

Oxford, Blackwell, 2005, pp. 129, € 34,95, ISBN 1-4051-2987-5.

Recensione di Sarin Marchetti – 31/10/2006

L’analisi della natura del sé non può essere condotta dall’esterno, come se si stesse studiando il meccanismo di una cassaforte: l’immagine interna che abbiamo di noi stessi è un punto di partenza ineludibile per cercare di comprendere cosa siamo. Una delle evidenze che accompagna le nostre azioni ed i nostri pensieri è difatti la presenza di un senso del sé; il problema sorge non appena cerchiamo di definire tale consapevolezza, poiché questo stato sembra opaco ed elusivo – tanto che molti ne hanno concluso che non esiste niente del genere (es. Ryle), denunciando ogni riferimento ad un sé come un errore sistematico. Il problema si complica ulteriormente poiché l’esperienza di questo senso del sé muta da soggetto a soggetto, alterando sensibilmente il peso che tale consapevolezza ha sui nostri vari resoconti teorici. Gli articoli contenuti nel volume The Self? affrontano questo problema da differenti prospettive cercando di rispondere alla domanda circa l’esistenza del sé: un tratto che accomuna tutti questi interventi è la priorità riconosciuta all’analisi della fenomenologia del sé come punto di partenza per definire ciò che siamo e le nostre condizioni di identità. Tuttavia un’indagine condotta dal solo punto di vista fenomenico, anche dandoci informazioni interessanti circa la nostra natura, deve essere affiancata a considerazioni circa l’importanza pratica che la definizione del sé ha nelle nostre vite in termini di credenze e desideri, aspettative e motivazioni. Questo perché comprendere la natura del sé non è un mero esercizio di metafisica, bensì ha una notevole influenza pratica sulla vita delle persone.
L’intervento di Barry Dainton, The Self and the Phenomenon, si apre con l’analisi dell’esperienza fenomenica che accompagna le nostre percezioni e la nostra consapevolezza (self-consciousness); sembra impossibile parlare di sé senza chiamare in causa anche la propria autocoscienza, poiché di solito esperiamo il nostro flusso di coscienza insieme a tutta una gamma di esperienze corporee. La caratteristica fondamentale del sé consiste nella sua capacità di rendere tali esperienze unite in un flusso unico di coscienza. Se non fossimo i centri di tale sistema fenomenico, non riusciremmo a spiegare perché proviamo qualcosa ad essere in certi stati fenomenici; infatti non sembriamo riducibili ad i meri contenuti di queste esperienze, mentre invece percepiamo i nostri stati mentali come contenuti che presuppongono un proprietario. Ma da questo non segue che l’io è una sostanza, poiché anch’esso ha una natura fenomenica, che emerge dal processo di sintesi dei molteplici output comportamentali sotto un sistema complesso di connessioni auto-referenziali.
Nel secondo capitolo, Ingmar Persson cerca di mostrare che il sé è un’entità diversa da tutte le altre cose di cui abbiamo conoscenza: l’unica cosa che possiamo dire senza cadere in errore è che ‘io’ è ciò a cui il pronome personale in prima persona si riferisce. Anche Persson riconosce come fondamentale la nostra caratteristica di essere soggetti di esperienza auto-coscienti, ma afferma che questo non sembra dirci gran che sulla nostra natura: essere centri di conoscenza auto-coscienti e fisicamente individuabili non sembra catturare la nostra essenza. Il sé è caratterizzato da tre tratti distintivi: 1. essere il soggetto di certe esperienze, 2. percepirsi come tale ed 3. essere consapevole della sua natura fenomenica. Il primo tratto è connesso al terzo, mentre il secondo chiama in causa l’importanza della nostra componente fisica (come qualcosa di distinto dai suoi vari contenuti mentali) nei nostri processi di conoscenza. Ma Persson costruisce alcuni esperimenti mentali in cui vengono ipotizzate delle situazioni in cui il possesso di un corpo (e più specificamente delle parti di esso che sono più legate alla propriocezione, come il cervello) non assicura l’identificazione del sé. Noi non siamo riconducibili a nessuna delle cose del mondo, non al nostro corpo né alla nostra mente, ma questo non crea problemi per i nostri processi di identificazione. Il sé non è dunque riconducibile a nessuna classe di oggetti, nemmeno alla classe di oggetti-sé, poiché questo concetto non fa parte di nessuna categoria naturale, bensì è descrivibile solo in termini funzionali – ossia si riferisce alla nostra caratteristica di essere persone, proprietà definibile solo tramite criteri non-naturali.
L’intervento di van Fraassen Trascendence of the Ego sembra spingersi oltre sostenendo che nonostante sia innegabile che io abbia un corpo, dei pensieri e delle sensazioni particolari, tuttavia non posso essere identificato con nessuno di essi: siamo tutti cavalieri invisibili del tipo descritto nella novella di Italo Calvino ‘Il cavaliere inesistente’, siamo parte del mondo ma non esistiamo come invece esistono le sedie ed i tavoli. Ma se una nostra caratteristica distintiva è quella di essere soggetti d’esperienza e d’azione, sembrerebbe allora che il nostro corpo debba giocare un qualche ruolo nella definizione del nostro sé. La risposta di van Fraassen è che ciò dipende dal fatto che noi ci esprimiamo tramite il nostro corpo, ma da questo non segue che non siamo il nostro corpo: siamo sicuramente sé incarnati (embodied selves), poiché possediamo un corpo, ma non siamo ad esso riducibili –anche nel linguaggio di senso comune noi parliamo del corpo come qualcosa di nostro, e non come di noi stessi. L’indefinibilità dell’io crea evidenti problemi nella definizione delle nostre condizioni di esistenza; tuttavia, conclude van Fraassen, questo non sembra essere un problema che ci impedisce di conoscere e valutare molte cose su noi stessi.
Di fronte all’emergenza di queste difficoltà circa la definizione ‘ontologica’ del sé, alcuni autori hanno proposto un’analisi diversa dell’io focalizzata allo studio della sua dimensione pratica di agente (morale). In questa direzione si inseriscono gli interventi di Marya Schechtman e di Galen Strawson.
Nel suo Self-Doubt and Self-Expression Marya Schechtman propone un’analisi del’io che si concentra sul problema del vero sé (true self): comprendere cosa sia l’io significa comprendere cosa intendiamo quando diciamo che ci sentiamo veramente noi stessi. Il cambio di prospettiva rispetto ai saggi precedenti è molto marcato, dato che ora l’analisi dell’io è condotta non più cercando dei criteri di individuazione a partire da un’analisi fenomenologia della nostra esperienza, bensì procede a partire da ciò che il soggetto stesso crede e sente come nucleo caratterizzante del proprio sé. Il nostro io è definibile in base alle nostre scelte ed ai tratti fondamentali del carattere, poiché la caratteristica fondamentale del nostro sé è la sua capacità di costruire la propria identità: allora l’unica analisi legittima è quella che cerca di comprendere quali sono i meccanismi di tale costruzione. La ricostruzione del sé che fa la Schechtman è presentata in antitesi a quella proposta da Harry Frankfurt in vari articoli contenuti nel suo The Importance of What We Care About (Cambridge University Press, Cambridge, 1988); mentre la tesi di Frankfurt è che il nostro vero io è quello che riesce a controllare i vari desideri momentanei a cui è soggetto imponendosi degli schemi di auto-controllo che assicurino l’autonomia delle azioni che compie, la Schechtman crede invece che il vero sé è proprio quello che emerge quando ci si esprime fuori da tali schemi. Questa differenza rispecchia le diverse concezioni del sé che hanno i due autori: mentre Frankfurt punta molto sull’importanza dei tratti stabili del carattere che emergono dal controllo dei desideri e dagli impulsi di primo ordine, la Schechtman dà invece molto valore alla componente del sé che agisce e delibera ‘genuinamente’ senza essere costretta da restrizioni di carattere esterno. Il nostro vero sé è composto dal set di inclinazioni naturali che esprimiamo quando agiamo liberi da schemi di comportamento pre-costruiti in cui non ci identifichiamo. Questo non vuol dire che non c’è spazio per correggere alcuni tratti del nostro carattere che esperiamo come naturali, poiché non dobbiamo accettare tutte le nostre inclinazioni come parte del nostro vero sé, ma solo quelle che ci appaiono come robuste e durevoli, quelle con cui ci identifichiamo indipendentemente dalla loro conformità a schemi precostituiti di comportamento. Tuttavia un punto molto importante che accomuna queste due ricostruzioni è la loro comune insistenza sul fatto che essere se stessi è una condizione necessaria per vivere una vita soddisfacente e piena di significato. Ma, mentre per Frankfurt una vita senza controllo non è pienamente significante perché una persona che non sa decidere perché presa da molte diverse alternative su cui ha perso il controllo di scelta è paralizzata, per la Schechtman è proprio il non esprimere spontaneamente il proprio vero sé che porta a complessi di frustrazione e di alienazione.
Il saggio di Galen Strawson Against Narrativity è estremamente interessante poiché mina il legame, riconosciuto da molte teorie come necessario, che sussiste tra il nostro carattere narrativo e la forte dimensione morale che riconosciamo al nostro io. Strawson distingue due versioni della tesi circa la nostra natura narrativa: una psicologica/descrittiva – secondo cui l’io esperisce la sua vita come se fosse il protagonista di una storia che egli narra a se stesso – ed una etica/normativa – la quale sostiene che avere tale concezione del proprio se è essenziale per poter condurre una vita autentica e soddisfacente (ben vissuta). Strawson rifiuta entrambe queste tesi, sostenendo che ci sono persone ‘non narrative’, che nonostante questa loro caratteristica vivono una vita autentica e piena di attenzioni morali. La proposta di Strawson è molto revisionista – come lo è la sua definizione del sé - poiché sostiene una concezione episodica e sincronica dell’io secondo cui noi ci raffiguriamo il nostro sé come qualcosa che esiste solo nel presente, rifiutando la visione narrativa che descrive il nostro io come il personaggio di un racconto che si sviluppa diacronicamente. All’accusa che i sostenitori della Narratività muovono ai loro avversari Episodici – secondo cui questi non riuscirebbero a render conto dell’importanza che il passato ed il futuro ricoprono nelle nostre vite, e dunque non riuscirebbero spiegare le nozioni morali di obbligo, prudenza e promessa – Strawson ribatte che per gli Episodici il passato (come il futuro) è vivo e partecipe nelle loro vite semplicemente nella misura in cui questo ha modellato (o modellerà) il sé che abita il presente. Allora non è vero che solo una concezione intrinsecamente narrativa riesce a tener conto della dimensione morale delle persone, dato che anche per i soggetti Episodici il proprio sé presente è carico delle esperienze, dei valori e dei tratti che lo hanno modellato nel passato, e che proietterà nel futuro.
Il libro si chiude con l’intervento di Peter van Inwagen, il quale commenta la teoria dei SESMET (Subjects of Experience that are Single Mental Things) di Galen Strawson: a quest’analisi dell’io come successione di sé caratterizzati da una vita mentale indipendente, van Inwagen ne preferisce una in termini di sostanze individuali. L’io non può essere definito come una mera fase del processo d’esistenza della persona, com’è invece l’essere padri, scapoli o disoccupati; l’io è una sostanza materiale definibile a partire dai suoi costituenti fisici, e non va confusa con le sue proprietà.

Indice

Introduction
1. The Self and the Phenomenal (Barry Dainton)
2. Self-Doubt: Why We are not Identical to Things of Any Kind (Ingmar Persson)
3. Self-Expression and Self-Control (Marya Shechtman)
4. Against Narrativity (Galen Strawson)
5. Trascendence of the Ego: The Non-Existent Knight (Bas C. van Fraassen)
6. The Self: the Incredulous Stare Articulated (Peter van Inwagen)
Index

L'autore

Galen Strawson insegna all’Università di Reading e al Cuny (Center University of New York). È autore di diversi volumi ed articoli sul libero arbitrio, la causazione e la filosofia della mente: Freedom and Belief (O.U.P. 1986, reprinted 1991), The Secret Connexion (Realism, Causation, and David Hume) (O.U.P. 1989, reprinted 1992, 1996), Mental Reality (MIT Press, 1994, 1996), Counsciuosness and Its Place in Nature (Imprinted Academics, 2006).

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Elenco delle pubblicazioni di Galen Strawson 

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