Recensione di Paolo Moretti – 05/06/2007
Etica
Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna verità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dei”. Questo pensiero di Albert Einstein, richiamato nel primo capitolo dell’opera, è il sestante del marinaio che voglia immergersi nella lettura dell’ottimo testo di Antiseri. Un testo in cui continuamente si afferma, con garbo, che quello che conta è sempre il saper pensare alla complessità del mondo senza cadere in riduzionismi e semplificazioni, in preconcetti e ideologismi. Insomma, un saper pensare che diviene un metodo per porre domande prima ancora di essere lo strumento con cui dare risposte. Antiseri raccoglie nel suo testo una serie di lavori preparati negli anni, in cui il lettore trova continuamente occasione per misurarsi con un pensiero che pur indagando le questioni più scottanti del nostro presente, quali i temi affrontati nel corso delle pagine del libro che spaziano dalla “competizione” dei mercati al concetto di “sussidiarietà”, dalla “società aperta” alle idee di “individualismo” e “collettivismo”, dalla “ragione” alla “fede”, dalla “informazione” alla idea di “servizio pubblico”, offre spunti e prospettive originali che aiutano la comprensione dei problemi che affronta. L’Autore evita però di proporre soluzioni preconfezionate e suggestive ai quesiti che si pone. Il lettore si può trovare innanzi ad affermazioni che dichiarano che la filosofia è scomparsa, ma che “non è la scienza a dirci quello che dobbiamo fare”. Sottile è così l’artificio adottato dall’Autore per ricondurre la capacità del pensiero umano al proprio limite, che è limite conoscitivo in relazione all’oggetto indagato dalla volontà del sapere e del voler comprendere.
In maniera analoga, ci rammenta che “ciò che oggi noi chiamiamo fatto, ieri era una teoria”, e poi, di nuovo, ricorda che il Rinascimento non esistette finché Jules Michelet non lo inventò. L’inventare ed il conoscere dell’uomo sono aspetti del processo di indagine del mondo che non possono essere intesi in contrapposizione, ma solo in sintesi, ove la fantasia è motore dell’umana tensione verso la conoscenza e metodo dell’umana possibilità del conoscere: ecco cosa è il filosofare di Antiseri. Un filosofare che tende alla verità, come ideale etico, regolativo, del procedere della ricerca scientifica, ed anche un filosofare che accetta nelle sue teorie la “logica della discordia” per poter approdare ad una verità filosofica, che è quindi “vera” solo se “criticabile”. Mai quindi verità assolute, tuttavia persuasione che il saper pensare porti ad una qualche valida verità, purché non la si ammanti di tracotanza, di superbia. Purché si rifugga dalla tensione che induce verso l’aberrante forma di sapere cui tende tante volte la natura umana quando, carica di hybris, manifesta la potenza del pensiero, distorcendolo, assolutizzandolo.
Anche la ragione nell’etica si compiace della propria assenza di verità. “L’etica non sa. L’etica non è scienza. L’etica è senza verità”, ci ricorda Antiseri. Non esistono spiegazioni etiche, esistono solo limitate spiegazioni scientifiche, e limitate spiegazioni filosofiche. E quindi, allora l’etica a cosa serve? Risponde con sicurezza e disincanto l’Autore a tale importante domanda, ricordando che l’etica serve, eccome. Serve ad eliminare i disaccordi di atteggiamenti che trovano la loro origine nei disaccordi di credenze. Serve a rendere l’uomo responsabile, perché pone nell’uomo la responsabilità delle scelte; perché l’uomo, in fin dei conti, si misura sempre coi risultati delle proprie azioni. Risultati concreti, che non possono misurarsi coi soli criteri dell’intenzione, perché altrimenti le conseguenze non volute, inintenzionali, contrarie agli scopi intesi e voluti nell’azione umana, a chi possono venir imputate? Solo l’uomo è mezzo e fine delle proprie azioni e del proprio pensiero: all’uomo tutta la sua responsabilità.
L’autore ci porta per mano, passo dopo passo, a porci domande ovvie per condurci innanzi a risposte non scontate. Molte volte ci si trova addirittura davanti a risposte che non vogliono rispondere in senso dogmatico. Come quando capita di leggere il saggio sulla oggettività dell’informazione. Antiseri inizia a raccontare che l’informazione è come un animaletto strano, con due teste, l’obiettività da un lato e l’oggettività dall’altro. L’obiettività è virtù personale (valore etico?) e l’oggettività è una questione di pubblico controllo (teoria filosofica?). E il giornalismo, che cosa dovrebbe essere se non la continua individuazione di fatti ed argomenti contrari alle tesi esposte dai giornalisti stessi sui giornali? L’informazione non ha ad oggetto la verità, ma l’informazione è necessaria per comprendere la verità. Anche qui Antiseri ci ricorda che chi crede di sapere di più non è capace di domandare, e che per saper domandare, bisogna essere consapevoli di non sapere. Questo è l’unico metodo del conoscere e del pensare, sia della scienza, sia della filosofia, sia dell’uomo democratico. Le opinioni plurali, discordanti ma valide, sono il sale del sapere in tutte le sue forme. Perché non si può informare l’uomo, il cittadino, in maniera veritiera: è filosoficamente impossibile. Pena che incombe sui portatori di verità giornalistiche, sui narratori dei “fatti”, è lo sprofondare nell’ideologia, mare di quella tracotanza in cui il pensiero umano rischia tante volte di perdersi.
Dunque, informazione oggettiva, non veritiera, è quanto serve alla società attuale. Non è questa di Antiseri una constatazione originale, bisogna dirlo. Eppure l’Autore ci sorprende quando propone un decalogo per l’informazione oggettiva, che viene definita “oggettiva” solo quando “controllabile”. Perché è proprio la possibilità di controllare le informazioni, ci spiega l’autore, che ne consente la loro messa in discussione, la loro verificabilità o falsificabilità, la loro compartecipazione e condivisione, la loro contestabilità. Quindi, informazione come oggetto di conoscenza, e non come oggetto di verità. Questa è l’approdo ove ci guida con una semplicità disarmante Antiseri. Per questo anche la televisione non è strumento di verità, ma strumento di conoscenza, da trattare con cautela perché innestata in un mondo in cui la tracotanza del sapere deve essere contenuta e controllata, ove la patente di popperiana memoria non è limite alla libertà, ma garanzia per una società libera e democratica. Anche in relazione a tale tema Antiseri emerge nella sua originalità, dipanando il problema suscitato da talune ricostruzioni del pensiero di Popper circa la necessità di una patente, illiberale, come condizione necessaria per poter fare televisione. L’autore difatti ricorda che se una società aperta e democratica è chiusa alla violenza, allora i mezzi di comunicazione devono essere anch’essi chiusi alla violenza, e questo senza la necessità di imposizioni illiberali e ideologiche, ma grazie alla forza del saper pensare con relatività, il quale può portare alla capacità di usare il mezzo televisivo con la consapevolezza dei limiti entro cui se ne può godere. La patente è così, per Antiseri, strumento di pensiero, prima ancora che essere una qualsiasi forma di autorizzazione rilasciata da una mai precisata autorità. Al lettore si ricorda nell’occasione che Popper era contro la violenza che la televisione “rovescia sulle menti dei bambini”, e quindi secondo il principio della ragione etica, gli uomini che fanno televisione, nella rilettura dell’autore, devono essere responsabili delle produzioni televisive poiché devono allontanare la violenza dalla società. In questo senso, Antiseri pare indicare che l’autorità preposta al rilascio della patente è in primo luogo il pensiero umano.
Come dar torto all’argomentazione da lui proposta? Certamente, affidare al pensiero l’autorità del rilascio della patente equivale affidare al pensiero una qualche forma di capacità assoluta di conoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, col rischio quindi di vedere il pensiero umano scivolare in quella tracotanza da cui lo stesso Autore rifugge. Però, se si contestualizza questa forma di controllo dello strumento televisione in una società democratica e liberale, così come l’Autore la intende, allora un poco di questa assoluta potenza di verità affidata al pensiero si umanizza, si relativizza nel suo dispiegarsi civile e sociale. Quindi, fallibilità del pensiero come presupposto della società aperta. Una società aperta che richiede, necessariamente, il continuo confronto tra verità di ragione e verità di fede, senza arroccamenti e senza ideologismi, ma con lo sguardo disincantato di chi osserva la nostra società e si sente di affermare che informazione e comunicazione sono anche formazione. Formazione che è un dovere di responsabilità per la società aperta; formazione che passa anche attraverso il controllo della informazione televisiva pubblica, che ha il dovere di salvaguardare il pluralismo, l’identità tradizionale, di proporsi accanto alla scuola quale mediatore capace di formare una opinione pubblica critica e consapevole, in altre parole, libera. Una televisione che affianchi la scuola nella sua missione formativa ed istruttiva, capace di rifuggire dalla logica degli schieramenti e delle ideologie di parte, per offrire agli individui informazioni e proposte capaci di rappresentare il pluralismo politico, che è poi pluralismo di idee.
A riguardo della formazione, Antiseri richiama il lettore alla constatazione, a prima vista ovvia, che nelle attività di formazione affidate alla scuola è doveroso tener sempre conto del fatto che “dagli insegnanti dogmatici delle scuole statali, le famiglie meno abbienti non possono facilmente difendersi”. Così come per la televisione, anche sulla scuola l’Autore pone così all’attenzione del lettore una riflessione tanto breve quanto arguta: il problema non è quello di proporre una laicità dello Stato, democratico e plurale, in antitesi con la presenza di culture confessionali. Le scuole confessionali sono invece necessarie nella società attuale, aumentano il pluralismo delle informazioni e del sapere, costituiscono un argine allo smarrimento dei valori. Il vero problema è perciò quello di avere buone scuole, scuole sempre migliori, che siano anche sovvenzionate, purché siano in competizione tra loro. A nulla importando che siano laiche o confessionali. La laicità è dello Stato, non della scuola. Non scuole uguali per tutti, ma scuole diverse e migliori accessibili a tutti. La fallibilità è quindi condizione metodologica del sapere e del conoscere, e quindi anche dell’insegnare. Perché la società aperta è “chiusa soltanto agli intolleranti”, e le scuole confessionali, come quelle laiche, preoccupandosi della diversità, sono “l’essenza della società aperta”.
Per questo motivo tutte le scuole devono essere sovvenzionate, rese pubbliche (sussidiate) e messe in competizione le une con le altre a parità di condizioni. Perché la società aperta compete su tutto, sulle teorie scientifiche, sulle teorie filosofiche, sul mercato libero della conoscenza e dei capitali. Compete su tutto perché vincitore è sempre il mercato, che è in fin dei conti la cittadinanza. Mai una idea di verità è così posta al di sopra delle altre. La società aperta compete senza demolire ed annichilire gli sconfitti, perché dietro ad ogni sconfitto c’è pur sempre un uomo: la società aperta è pur sempre costituita da uomini, talora vincitori e talora sconfitti. Questa società complessa, ci dice Antiseri, è la società democratica degli uomini concreti, e non c’è società senza uomini concreti: uomini che sbagliano, uomini “a volte pigri ed a volte diligenti”. In altre parole, la società non esiste senza gli uomini; la società, di per sé, è un concetto astratto, è una ideologia. Per questo la democrazia può divenire ideologia se si dimentica di essere, in primo luogo, individualità sociale; non ha senso contrapporre quindi “individualismo” e “collettivismo”, che altro non sono che artifici retorici e categorie del pensiero spesso fuorvianti, che possono indurre solo alla deriva ideologica dell’utopista, dalla quale si deve invece prendere le distanze.
Perché anche l’utopista rifiuta il pensiero della ragione, si illude di aver tutte le risposte e smette di porsi le domande. Propugna soluzioni precostituite, eterne e per questo reazionarie: non c’è dogmatico peggiore dell’utopista che vuole imporre a tutti la sua società perfetta, nella presunzione della sua infallibilità. Anche qui Antiseri ricorda che la tracotanza si nasconde ovunque, in ogni piega del pensiero umano, e che tutte le volte che si impone la supremazia di una idea, si abdica alla ragione e si concede spazio all’hybris. Per tale motivo anche nel domandarsi quale identità debba caratterizzare l’idea di Europa, l’autore si sofferma sulle radici storiche dell’Europa, scorgendone le origini tanto nelle fedi confessionali quanto nell’idea di laicità, tanto nel concetto di uomo razionale quanto nel concetto di uomo inteso come psiche, come libero soggetto pensante immerso in una dimensione spirituale e religiosa. Un’idea complessa, quella dell’identità europea che ci propone l’autore, nella quale si prende atto che pur nella convivenza del rispetto degli altri e delle tradizioni “altre”, mai però si deve giungere alla cancellazione della tradizione che ha fondato l’Europa stessa: “rispettare gli altri non equivale ad annientare noi stessi”, ci ribadisce Antiseri.
Ognuno dei saggi proposti nel testo può essere letto senza aver prima letto il precedente, poiché ogni saggio è unico e chiuso, completo. Però con arguzia un filo rosso è teso tra le pagine del libro, e il lettore ne segue il tratto, quasi inconsciamente. Antiseri non propone nemmeno qui, perché non vuole farlo, esaurienti definizioni su ciò che è “ragione etica”, “ragione scientifica”, o ancora su ciò che è “ragione filosofica”. Eppure, agli occhi del lettore, tutto si tiene: ogni tema da lui affrontato è proposto sempre nella luce dei limiti dell’umana capacità del pensare quale limite dell’uomo sull’uomo, che Antiseri continuamente richiama con maestria, come quando parla di democrazia e di identità europea. Ci dice così che non ci può essere democrazia ed identità europea senza relativismo, ove per relativismo si intenda però non l’origine di un nichilismo autodistruttivo, ma la fonte di quel sano fallibilismo gnoseologico che apre le porte al pluralismo delle idee (teorie scientifiche e filosofiche) e dei valori (principi etici). Non è una novità la proposta di Antiseri, però incuriosisce il lettore la semplicità con cui viene riaffermata la validità di una posizione relativista del sapere che non abbassa la testa allo strapotere degli dei, che non si inchina ai limiti conoscitivi dell’uomo, che non si ritrae nei suoi confini come una tartaruga che ritrae la testa nel suo guscio, ma che diviene forza del divenire scientifico e sociale dell’umanità. In questo modo, secondo Antiseri, il relativismo diviene struttura dell’essere sociale di questa nuova umanità, libera ed individualista, sociale e pluralista, che può così arginare, colla forza che la consapevolezza del proprio limite le dona, l’accesso ai violenti ed agli intolleranti.
Quindi, relativismo come pluralismo, e vice versa. Il pluralismo è necessità della società democratica così come il relativismo è necessità della umana ragione. Ed ecco, infine, il colpo di teatro finale. Dopo che siamo stati condotti per mano ad incontrare il mondo con gli occhi del relativismo, dopo aver visto come la ragione ed il filosofare aiutino il comprendere la complessità del mondo, quando ora mai pare di aver capito che l’uomo deve razionalmente convivere coi propri limiti, che sono la sua virtù più profonda, ecco che anche la dimensione di fede viene considerata nella sua complessità. Il filosofare di Antiseri non arretra nemmeno innanzi ad una siffatta dimensione metafisica, e rileggendo alcuni passi dell’enciclica Fides et ratio, prima ci ricorda che Ludwig Wittgenstein aveva scritto “credere in Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto”, e poi segnala al lettore che nell’enciclica troviamo che “la Chiesa non propone una propria dimensione filosofica né canonizza una propria filosofia a scapito delle altre”: “le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; […]”. Non contento, Antiseri richiama pure le parole di Wittgenstein: “pensare al senso della vita significa pregare. Il senso della vita possiamo chiamarlo Dio”, per farle dialogare con quelle del card. Ratzinger, nuovo pontefice Benedetto XVI, che rispondendo alla domanda su quali possibilità abbia ancora la fede di successo, dice: “Perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo […] Nell’uomo c’è un indistinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; Solamente il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere”. Anche qui, verità e fede si confrontano, ragione relativa e fede assoluta si parlano, l’una senza voler soverchiare l’altra, senza hybris. Anche questa è una proposta interessante; meglio, una proposta tanto coraggiosa quanto interessante, non c’è che dire.
Indice
Introduzione
La “competizione” vista come la più alta forma di collaborazione
Le ragioni del “buono scuola”
Il principio di sussidiarietà
Le scuole ad “orientamento confessionale” non sono un pericolo per la società aperta
La consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana quale presupposto della “società aperta”
“Platone totalitario” è davvero una stravagante interpretazione di Popper?
“Individualismo” versus “collettivismo”
“Multae utilitates imprendirentur si omnia peccata districate prohiberentur”
Perché il politico non si comporti come quel medico che per salvare la diagnosi uccise il paziente
Etica dell’intenzione ed etica della responsabilità
Il pensiero utopico tra “irrazionalità” e “violenza”
La “ragione” nella scienza
La “ragione” in filosofia
La “ragione” nell’etica
L’oggettività dell’informazione né una impossibilità, né un mito, ma un ideale regolativi
La televisione e i bambini. Il grido di allarme di Karl R. Popper e Hans-Georg Gadamer
Ragioni a difesa di un “servizio pubblico” radiotelevisivo
Per comprendere l’identità dell’Europa
La riconquista dello “spazio di fede”
Una domanda al cardinale Joseph Ratzinger: non è forse più che auspicabile un ritorno a Pascal?
L'autore
Dario Antiseri (Foligno 1940), dopo la laurea in Italia, ha proseguito i suoi studi, dal 1963 al 1967, presso le Università di Vienna, Münster e Oxford. Ha insegnato materie filosofiche nelle Università di Roma “La Sapienza”, Siena e Padova. Dal 1986 è docente di Metodologia delle scienze sociali presso la Facoltà di scienze politiche della Luiss “Guido Carli” di Roma. È autore di volumi e saggi – parecchi dei quali tradotti in più lingue – su questioni di natura analitico-epistemologica.
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