venerdì 31 agosto 2007

Larmore, Charles – Renaut, Alain, Dibattito sull’etica. Idealismo o realismo.

Tr. it. di René Capovin, Roma, Meltemi, 2007, pp. 68, € 10,00, ISBN 9788883535475.
[Ed. or.: Débat sur l’Éthique. Idéalisme ou réalisme, Grasset & Fasquelle, Paris, 2004.]

Recensione di Lorenzo Greco – 31/08/2007

Etica

Questo breve testo raccoglie gli interventi che Charles Larmore e Alain Renaut hanno presentato in un incontro tenutosi alla Sorbona nel maggio del 2003 sulla natura e lo statuto dell’etica. Viene qui pubblicata la corrispondenza privata intercorsa tra i due filosofi in merito a questo tema. Dal loro dialogo, sia pubblico che privato, emergono due posizioni molto diverse, indicative di due maniere contrapposte di concepire la sfera della moralità. Esse ruotando attorno al problema del fondamento dell’etica e delle ragioni che abbiamo per agire moralmente, ma toccano anche la questione della natura delle ragioni in generale e del soggetto che a quelle ragioni deve rispondere. Inoltre, sebbene Renaut e Larmore si confrontino senza alcun pregiudizio, si assiste a un incontro tra due modi di fare filosofia riconducibili a tradizioni di pensiero generalmente ritenute differenti, e da alcuni non conciliabili: più “continentale” quella di Renaut, più “analitica” quella di Larmore.
In che cosa consiste la moralità? È il prodotto dell’attività – razionale o di altra natura – degli esseri umani? Oppure si tratta di una dimensione a sé stante? Questa questione è il motivo di maggiore disaccordo tra Renaut e Larmore.
Il primo prende le mosse da una posizione che si rifà al pensiero di Kant. A suo avviso, la moralità non può che venire pensata come qualcosa che si trova in una relazione di qualche tipo con gli individui concepiti come soggetti morali. In particolare, bisogna tenere presente la capacità fondamentale da essi posseduta, vale a dire, la capacità di fare uso della loro volontà in maniera autonoma. Qualsiasi spiegazione della moralità che non tenga conto di ciò risulta incompleta, perché tralascia un aspetto centrale dell’etica: quello per cui essa, per dirsi tale, deve poter essere accettata come propria da coloro che vi sottostanno. Se è lecito parlare di ragioni morali, esse devono essere sempre ragioni per qualcuno: “perché la presenza di queste ragioni porti ‘me’, e proprio me, ad agire in un senso piuttosto che nell’altro, bisogna che ‘io’, e proprio io, le riconosca come delle ‘buone’ ragioni, cioè che io, e nessun altro al mio posto, vi aderisca, che io mi riconosca in esse” (p. 19).
Renaut specifica questo punto di partenza della riflessione morale in quella che egli definisce una struttura “io mi”: la moralità deve la sua autorità al fatto che io, in quanto soggetto morale, decido di impegnarmi a rispettare quelle ragioni che sono tali proprio in quanto frutto dell’esercizio libero della mia riflessione. Un esercizio che prescinde da considerazioni circa la mia appartenenza a una tradizione particolare, ma precede qualsiasi mia realizzazione concreta, per offrirsi come la possibilità stessa di pensare il mondo in termini di ragioni in generale: “ritengo”, sostiene Renaut, “che il mondo non abbia di per sé né verità, né senso, ma che l’ordine delle ragioni sia costruito dalla nostra ragione e non inscritto in un universo intelligibile” (p. 25). Dal momento che sono in grado di scegliere in una maniera pura, e di riconoscermi nella mia scelta, le ragioni dell’etica acquistano allo stesso tempo uno statuto oggettivo, da una parte, e sono capaci di determinare la mia volontà ad agire secondo i loro dettami, dall’altra. In questo senso, Renaut abbraccia una peculiare forma di kantismo di stampo esistenzialistico, che lo allontana sia da pensatori come Jürgen Habermas e Karl-Otto Apel, che piegano la dottrina kantiana nel senso dell’elaborazione di un’etica del discorso, sia da John Rawls e dal suo liberalismo politico. Individuando nel momento della scelta l’aspetto fondamentale della dimensione dell’etica, Renaut avvicina Kant a Jean-Paul Sartre, prestando particolare attenzione alla condizione di intrinseca libertà che contraddistinguerebbe i soggetti morali: “a rigore, però, credo si debba tener ferma l’esistenza di una dimensione della libertà che, come a suo modo il progetto sartreano, precede e fonda l’autonomia della volontà stessa” (p. 22). L’opzione di Renaut si delinea pertanto come “idealista”, nella misura in cui non ha senso parlare di etica se non si prende atto del fatto che “non possiamo uscire dalla sfera della rappresentazione e che è dunque nell’ambito di questa sfera che bisogna rifondare, mediante procedure di selezione della verità, ciò che distingue l’oggettivo dall’irrimediabilmente soggettivo” (p. 63).
Renaut offre una spiegazione che parte dall’assunto che non si possa parlare di oggettività – e tanto meno di oggettività “etica” – prescindendo dalla constatazione che si tratta sempre di oggettività per qualcuno. Da parte sua, Larmore presenta invece una soluzione di stampo decisamente “realista”. Se Renaut ha in Kant il proprio campione, Larmore sceglie Platone. Egli muove dalla constatazione dell’esistenza di una dimensione normativa che, ben lungi dall’essere il riflesso dell’autonomia degli individui, ne indirizza, al contrario, il pensiero e l’agire: “esiste un ordine normativo al quale il pensiero è chiamato a rispondere, un ordine oggettivo delle ragioni di cui non siamo gli autori, ma di cui ci spetta riconoscere (e non istituire) l’autorità” (p. 28). Ragioni che, per Larmore, comprendono senz’altro le ragioni morali, ma non solo. È proprio delle ragioni in quanto tali di essere parte di un “terzo ordine ontologico” (p. 33), di carattere squisitamente normativo e non riducibile né a qualcosa di fisico né a uno stato psicologico di coloro che le riconoscono. Una ragione non corrisponde a una credenza della mente; piuttosto ne è l’oggetto: “non presupponiamo di avere una ragione perché crediamo di averla; vale l’inverso, crediamo di averla perché presupponiamo di averla davvero” (p. 32). Questo porta Larmore a sostenere un “platonismo delle ragioni” (p. 33), o un “platonismo ammorbidito” (p. 27), per cui l’agire degli esseri umani è sempre visto come posto in un contesto a cui essi partecipano, ma che si dà precedentemente, e indipendentemente, da loro. L’autonomia è senz’altro da ammettersi, ma va concepita come impegno nei confronti di ragioni la cui verità non è affatto il riflesso dell’esercizio di questa autonomia. L’autonomia permette di riconoscere certe ragioni e di impegnarsi nei loro confronti; tuttavia, lo statuto di queste ragioni è determinato dalle circostanze. Si tratta di adeguarsi a esse, non di costruirle, poiché “la spiegazione ‘costruttivista’ non può mai giungere a rendere conto della normatività nel suo insieme” (p. 46). Nonostante ci sia da parte degli individui un commitment nei confronti delle ragioni che essi riconoscono come ragioni per loro, non si tratta però di collocare questo commitment in una struttura “io mi”. Bisogna piuttosto adeguare il proprio comportamento secondo quanto “si” dovrebbe fare in un senso universale; vale a dire, si deve pensare o agire secondo ragioni che si suppongono valide per chiunque si trovasse a pensare o agire partendo da premesse simili. Larmore rifiuta una spiegazione che renda conto della natura delle ragioni riconducendole, attraverso un percorso deliberativo di qualche tipo, a coloro che le fanno proprie. Egli contesta cioè la tesi di Bernard Williams per cui le ragioni sarebbero tutte “interne” all’insieme di “disposizioni valutative, modelli di reazione emotiva, legami personali, nonché progetti di vario tipo […] in cui si concretizza l’impegno dell’agente” (Bernard Williams, Ragioni interne ed esterne, in Sorte morale, Milano, Il Saggiatore, 1987, p. 138). Le ragioni sono, invece, sempre “esterne”, nel senso che “il nostro pensiero si muove sempre all’interno di uno spazio delle ragioni già costituito” (p. 41). Il riferimento allo “spazio delle ragioni” permetterebbe, secondo Larmore, di evitare l’accusa per cui, sostenendo la dipendenza degli individui da ragioni che non hanno contribuito a realizzare, ma che ricavano dalla tradizione a cui appartengono, si cederebbe al relativismo. Larmore, al contrario, vede la tradizione solo come una forma di addestramento, come un mezzo di accesso a una dimensione normativa che si rivela nella tradizione, senza però risolversi in essa. In questo senso, egli ritiene che non ci sia contraddizione tra l’adozione dei principi della democrazia liberale e l’appartenenza a una data cultura, giudicando la polemica tra liberali e comunitari un “falso dibattito” (p. 53).
Tanto Renaut quanto Larmore giungono, ciascuno a suo modo, a conclusioni interessanti riguardo ad alcuni aspetti centrali dell’etica. La struttura “io mi” di Renaut, facendo coincidere l’etica con l’impegno degli agenti nei suoi confronti, appare efficace quando ci si pone il problema del perché essa è in grado di motivare; l’ipotesi tracciata da Larmore, da parte sua, rifacendosi a una nozione di normatività che va presupposta, fornisce una risposta forte a proposito dell’oggettività dell’etica. Detto questo, Larmore sembrerebbe tuttavia spingere la propria tesi circa questa oggettività troppo avanti. Se infatti quanto egli sostiene sulla normatività delle ragioni si mostra plausibile quando si tratta di spiegare, ad esempio, il fatto che un individuo che ragiona deve seguire i principi fondamentali della logica, “necessari per spiegare come, alla luce della sua prospettiva particolare, una credenza o un desiderio avrebbe potuto fornirgli una ragione per pensare o agire come ha fatto” (p. 38), una volta che si passi al piano dell’etica in senso stretto, l’appello a una “razionalità universale” (p. 38) si fa più incerto. Da una parte, la moralità, per poter essere detta tale, sembrerebbe dover ammettere un tipo di autonomia ben più forte della semplice sottomissione del soggetto morale a ragioni indipendenti da lui o da lei – un’autonomia , tra l’altro, che non necessita di venire difesa esclusivamente da una prospettiva kantiana, come fa Renaut. Dall’altra, anche ammettendo che la normatività dell’etica trascenda la psicologia degli individui, non sembra però che questa normatività possa spingersi al di là della contingenza particolare in cui si realizza, per godere del tipo di oggettività promessa dal “platonismo ammorbidito” di Larmore. Un platonismo che, in verità, di ammorbidito sembra avere ben poco, ma che, al contrario, risulta molto più simile a quel “platonismo sfrenato” criticato da John McDowell (John McDowell, Mente e mondo, Torino, Einaudi, 1999, p. 83). Il quale parla anch’egli di “spazio delle ragioni”, ma guardandosi bene dall’accogliere il carico ontologico che invece grava la normatività come viene concepita da Larmore.

Indice

Prefazione
Patrick Savidan
Un’etica dell’autonomia
Alain Renaut
Un’etica delle ragioni
Charles Larmore
Corrispondenza
Conclusioni
Charles Larmore, Alain Renaut
Bibliografia


Gli autori

Charles Larmore è W. Duncan MacMillan Professor in the Humanities alla Brown University, Providence, RI. È autore di numerosi libri, tra cui Le strutture della complessità morale (Milano, Feltrinelli, 1990), L’eredità romantica (Milano, Feltrinelli, 2000), Pratiche dell’io (Roma, Meltemi, 2006).

Alain Renaut è professore di Filosofia morale e politica all’Università Sorbonne-Paris IV di Parigi. È autore, tra l’altro, di L’individuo. Riflessioni sulla filosofia del soggetto (Napoli, Ipermedium, 2003).

Nessun commento: