lunedì 25 febbraio 2008

Minazzi, Fabio, Filosofia della Shoah. Pensare Auschwitz: per un'analitica dell'annientamento nazista.

Firenze, Giuntina, 2006, pp. 362, € 25,00, ISBN 9788880572598.

Recensione di Francesca Rigotti - 25/02/2008

Filosofia politica, filosofia della storia

Nel raccogliere in volume una serie di saggi elaborati in anni recenti su differenti aspetti della Shoah, Fabio Minazzi fa il punto sulla riflessione filosofica intorno ad Auschwitz, presentandosi con una posizione fortemente personalizzata. Non certo quella del silenzio attonito davanti all'orrore, e nemmeno la posizione, opposta ma altrettanto sterile, dello studio storico-analitico dei campi di sterminio condotto come se l'oggetto di studio fosse più o meno neutro. La proposta di Minazzi parte dall'analisi del problema filosofico del male impostato secondo quello che chiamerò «il teorema di Epicuro», tanto difficile da non aver ancora trovato una soluzione da quando è stato posto. «Se la divinità vuole abolire il male e non può, è impotente; se può e non vuole, è impotente e malvagia: e se vuole e può (è buona e onnipotente) perché non lo abolisce?». Hans Jonas prova a risolvere il teorema con la sua risposta sul perché dio ad Auschwitz restò muto: perché se voglio continuare a postulare l'esistenza di dio non posso credere che, essendo buono, onnisciente e onnipotente, abbia assistito ad Auschwitz con indifferenza; ma poiché l'attributo della bontà di dio è immodificabile, resta soltanto la possibilità di rinunciare alla sua onnipotenza. Nella soluzione di Jonas dio scende dunque dal piedistallo della perfezione data dal possesso degli attributi tradizionali di bontà, onniscienza e onnipotenza e perde di necessità l'ultimo di questi.
Senza accettare l'ipotesi di Jonas, che presuppone in ogni caso l'esistenza di un dio creatore che si prende cura dell'uomo, Minazzi preferisce interrogarsi sulla natura della razionalità filosofica - che mi pare costituire la cifra costante della sua posizione filosofica dichiaratamente razionalista – per presentare un approccio sostanzialmente trascendentalistico di tipo kantiano al problema del male, anzi del male assoluto quale fu quello di Auschwitz. Il male di Auschwitz va inserito nella storia politico-morale dell'uomo, il quale della propria storia deve essere considerato responsabile. Nei campi di sterminio si è assistito al soffocamento della razionalità critica dell'uomo, la quale rappresenta invece l'unico sostegno teorico per una moralità umana che si appoggi kantianamente alle ragioni della conoscenza.
Un modo per conoscere un fenomeno è nominarlo, dal momento che dare un nome alle cose è esercizio ontologico specificamente umano. La semantica dello sterminio di Minazzi prende le mosse dal termine di genocidio (crimine efferato finalizzato alla cancellazione storico-culturale di un gruppo), rifiutato in quanto mischia il concetto di annientamento fisico con quello di distruzione dell'identità culturale. Anche olocausto non appare adeguato per indicare quel tipo di sterminio, a causa dell'insistenza sul senso di sacrificio della vittima che «brucia completamente», come se gli ebrei dovessero espiare qualche segreta colpa. Più pertinente dunque Shoah, parola ebraica del linguaggio biblico denotante una situazione di catastrofe e di distruzione in generale. L'analisi di Minazzi non si ferma comunque al gradino lessicale ma sale subito a quello concettuale, e dallo studio del concetto deriva l'innegabile conclusione – per troppi ancora una stupefacente rivelazione: che i nazisti non hanno fatto altro (!) che riproporre in Europa ciò che gli europei hanno fatto a danno dei non-bianchi e non occidentali con la conquista del nuovo mondo, la devastazione dell'Africa, la tratta degli schiavi e mille altre barbarie e crudeltà commesse in nome di dio, del progresso e dell'igiene, per dirla con Noam Chomsky, Domenico Losurdo, Tzvetan Todorov: il nazismo è figlio legittimo di un modello occidentale che ha assassinato sistematicamente e barbaramente milioni di persone con varie forme di genocidio e olocausto, senza provare mai alcun serio rimorso civile.
Quanto all'ermeneutica del male e alla posizione rispetto alla fede degli uomini del nazismo - ultimo punto filosofico che tratterò, dei molti che Minazzi coraggiosamente affronta e discute – il programma nazista non è né con dio né contro dio, e se prende posizione è per puro opportunismo. Il nazismo non fonda certo la propria delirante ideologia sull'«ateismo» (non c'è mai stato uno sterminio commesso in nome di non-dio, di fronte ai numerosissimi effettuati in nome di dio). La fonda, marginalmente, sull'avversione per il cristianesimo, considerato dottrina che sfianca e deprime la gente rendendola inadatta alle dure quanto improrogabili esigenze della dottrina del nazionalsocialismo. Torna qui, a conclusione, la prospettiva kantiana di Minazzi per il quale non esistono un bene e un male per sempre e univocamente definiti, quanto un'inclinazione, una tensione al, e una ricerca del, bene coltivate dalla ragione, o meglio dalla razionalità radicata sulla legge morale. È ad essa che secondo l'autore si dovrebbe ricorrere ogni volta che la barbarie si ripresenta nella storia.

Indice

Introduzione
Nota al testo
Per un'analitica del paradigma nazista dell'annientamento
Capitolo primo
Auschwitz e la riflessione filosofica
Capitolo secondo
Sterminio, genocidio, olocausto o Shoah?
Dai nomi dello sterminio al suo concetto critico
Capitolo terzo
Per un'ermeneutica del male: la Shoah e il razzismo nazista
Capitolo quarto
La cultura fascista e il razzismo:
dalla voce Fascismo sull'Enciclopedia Italiana alle leggi razziali

Capitolo quinto
Fenomenologia epistemica del testimone della Shoah
Appendice
Contributo per una pedagogia dopo Auschwitz
Considerazioni cronachistico-storiografiche a margine di un seminario di studio presso lo Yad Vashem di Gerusalemme
Il treno della memoria per Auschwitz. Cronaca di un viaggio
Alfredo Violante: dalla Puglia a Mauthausen
L'epurazione della scuola fascista.
Elenco degli insegnanti ebrei espulsi dalle scuole medie italiane
Indice dei nomi


L'autore

Fabio Minazzi (Varese 1955), ordinario di Filosofia teoretica dell'Università degli Studi di Lecce, ha pubblicato una ventina di monografie e curato una quarantina di testi vari. Si è occupato del problema del realismo, del dibattito epistemologico contemporaneo, della rivoluzione scientifica galileiana, del pensiero di filosofi come Giulio Preti, Karl Popper e Ludovico Geymonat, del problema della scuola italiana e della didattica della filosofia. Ha curato testi di protagonisti della Resistenza europea e italiana e diversi volumi dedicati alla storia del Novecento, alla Shoah e al totalitarismo nazista.

Link

Sito del Dipartimento di Filologia classica e Scienze Filosofiche dell’Università degli Studi di Lecce

venerdì 22 febbraio 2008

Faucitano, Simona, Il vuoto e il legame. Simone Weil e la pedagogia dell’ascesi.

Milano, Unicopli 2007, pp. 249, € 13,00, ISBN-9788840012148

Recensione di Rita Fulco - 22/02/2008

Pedagogia, filosofia della religione

Una ricerca specialistica e approfondita – condotta con sapienza storico-filosofica e filologica – sui temi dell’ascesi e sul rapporto di essa con la pedagogia, a partire da una rilettura di quelle pagine weiliane che interrogano e offrono risposte all’orizzonte – quello pedagogico – scelto dall’autrice per avvicinare il pensiero di Simone Weil: questa, in estrema sintesi, l’inedita prospettiva offerta dal libro Simona Faucitano, il cui taglio, certamente complesso, chiama pedagogia e filosofia a un incontro e confronto su temi spesso estranei all’uno o all’altro ambito. Già questo, a livello formale, costituisce un esercizio “di legame”, che ci fa addentrare, per via esperienziale, in una delle tematiche più importanti che Faucitano prende in considerazione nel testo, quella, appunto, delle “pratiche di legame”. Un legame che dovrebbe essere teoretico e forte, innanzitutto, nell’ambito stesso delle scienze umane, sviluppate, purtroppo, in modo spesso ermetico e autoreferenziale, privando i concetti interni a ciascuna di esse della sovrabbondanza di senso che potrebbe derivare da un confronto interdisciplinare di prospettive.
La “formazione all’aperto”, concetto chiave del testo di Faucitano, richiama subito alla mente le immagini fotografiche che ritraggono Simone Weil con la sua classe femminile di filosofia, mentre fa lezione all’aperto, sotto grandi alberi, intenta a parlare di filosofia greca, di letteratura francese, di politica europea, di differenti sistemi pedagogici, tessendo fili di pensiero in una trama sapiente, volta a disegnare orizzonti, piuttosto che a delimitare campi di riflessione. Ma altrettanto calzante potrebbe essere il riferimento agli incontri con gli operai, i minatori, i contadini, i pescatori, che la ascoltano mentre legge e commenta le tragedie greche o spiega Platone. L’aperto – nella sua accezione concreta e, soprattutto, in quella analogica – è il luogo dello spaziare dello sguardo, dell’acuire l’udito, dell’esercizio dell’attenzione, della percezione del vuoto, che può preludere a smarrimenti nell’infinito o a una ricettività salvifica dell’infinito stesso. Una Lichtung in cui ogni cosa si ritrova raccolta e quieta nell’immemore tempo dello spirito, attraverso l’addestramento a cogliere il simbolismo analogico presente nell’ordine dell’universo, senza per questo sfuggire al malheur, che destinalmente unisce gli esseri umani e chiede di essere meditato e ripensato, proprio a partire dalla sperimentazione del vuoto che esso stesso provoca.
Gli ambiti a cui Faucitano, con Weil, rivolge la sua attenzione – la bellezza, la letteratura, la filosofia – sottolineandone la manifestatività spirituale, non sono quelli tradizionalmente appartenenti al cristianesimo e, tuttavia, è soprattutto in essi che l’autrice coglie una “qualità ascetica”, poiché essi riprenderebbero «dalla codificazione religiosa dell’ascesi e del rapporto dell’ascesi con la mistica i due temi-problemi della contemplazione e della imitazione di Cristo» (p. 57). Proprio questi due temi «possono essere l’ispirazione spirituale e la forma di pensiero di una predisposizione pedagogica a istituire pratiche generative di legame, meditando e dischiudendo gli orizzonti immaginali-simbolici delle pratiche ascetiche e mistiche cristiane, liberate da una dimensione istituzionale, che, come sottolinea Weil nei suoi scritti, ha forma totalitaria, la forma della chiesa, e risituate “nell’aperto”: si tratta di risvegliare un’idea di “formatività” pedagogica che ha i tratti della ricettività spirituale, della sensibilità incarnata e della partecipazione cosmica, per poter accedere a forme di memoria, di legame e di comunità, spiritualmente vive e storicamente specifiche per la cultura occidentale contemporanea» (pp. 58-59).
L’attenzione di Simona Faucitano si concentra – dopo aver offerto, in un dialogo appassionato con l’opera di Marco Vannini, un excursus storico-filologico del termine “ascetica” – sulla decostruzione di quelle posizioni, piuttosto diffuse soprattutto tra alcuni esegeti cattolici, che, con una lettura deproblematizzante del pensiero di Simone Weil, la inseriscono nell’orizzonte della mistica cattolica, accanto a figure come Edith Stein, non ponderando adeguatamente la critica weiliana all’istituzione-Chiesa e travisando anche temi importanti, quali quello della critica alla forza e alla potenza. Un esempio per tutti può essere quello della lotta di Giacobbe con l’angelo, interpretato positivamente da alcuni lettori cattolici di Weil, a partire dal cambiamento di nome – da Giacobbe in Israele – dopo la vittoria contro Dio; episodio riorientato da Faucitano in modo quanto più possibile aderente al pensiero di Weil, teso a esaltare la rinuncia alla propria egoità e la debolezza come uniche pratiche possibili e virtuose di fronte a Dio, le uniche che permettano un’autentica ricettività spirituale: «La grande macchia non è forse la lotta di Giacobbe con l’angelo? […] Non è forse la massima sventura (malheur), quando si lotta contro Dio, quella di non essere vinto?» (S. Weil, L’Ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2003, p. 299). Faucitano, attenta alla spendibilità pedagogica dell’episodio in quanto esempio di pratica ascetica e di legame, sottolinea come Giacobbe, di fronte a Dio, sia nudo in senso materiale – di beni, di figli – ma sia ancora ricco «della domanda intorno al nome e all’identità dell’uomo con cui combatte […] ancora attaccato alla dimensione agonale di le moi: dall’identità del nemico dipende l’entità della vittoria. Oggetti, l’identità del nemico e la vittoria, di un desiderio gravitazionalmente terrestre, che rimane chiuso all’irruzione di Dio e ai mutamenti catastrofici da essa pro-vocati; solo lo svuotamento operato dall’esterno e dall’interno, in modo sempre attivamente passivo, può rendere l’interiore recettivo» (p. 65). Non a caso, prendendo le distanze da un’etica della “consegna”, nella quale il Terzo istituzionale è, comunque, la Chiesa, Faucitano si accosta alle posizioni di Alessandro Dal Lago, il quale ripensa la nozione weiliana di impossibilità, che riporta Dio fuori dal campo delle possibilità umane, anche della loro impositiva domanda di salvezza; anzi, la nozione di impossibilità assume un ruolo decisivo di delegittimazione rispetto al “richiedere” – quasi un pro-vocare in senso heideggeriano – la salvezza «che presuppone, da una parte, un diritto d’accesso, dall’altra, un diritto di sovranità» (p. 77). Inoltre, l’assetto “giuridico” della morale cristiana «tende a restringere elettivamente, in modo intra e inter-specifico, il senso spirituale e la portata ontologica della domanda di salvezza» (ibidem). Occorrerebbe, invece, una pedagogia della “delicatezza” che dovrebbe condurre dai “forti contro Dio” ai “forti che declinano”, figure nuove – o “originariamente” cristiane, come suggerirebbe il forte richiamo alla debolezza di Paolo – di un’umanità a-venire.
La rinuncia alla richiesta provocante di salvezza, si accompagna alla rinuncia al giudizio tecnico-scientifico, e, di conseguenza, al tentativo di un’educazione, che può provenire anche dalla sapienza poetica custodita, ad esempio, da tragedie greche come Elettra o Antigone, o da miti quali quello di Prometeo; si tratta della rinuncia, quindi, a un comprendere che sia frutto delle facoltà umane di giudizio, e si riveli, piuttosto, «il movimento stesso della manifestazione universale, che, nella molteplicità delle sue articolazioni, si sop-pesa e si colloca. Quando l’etica oblia il proprio statuto cosmico di sapienza della calibrazione, diventa sapere positivamente centrato sulla nozione di “diritto”» (p. 95).
Il punto naturale di arrivo di queste riflessioni sul pensiero di Simone Weil – corroborate dall’attenta meditazione di testi weiliani, come il controverso Prologo – è la critica all’ordine sociale in quanto luogo del prestigio; critica che, pedagogicamente, assume «lo statuto ascetico-morale di purificazione» (p. 151), proprio perché educa a sondare la volontà di potenza celata, ad esempio, persino dietro pratiche di “umiliazione”, che spesso permangono, tuttavia, in un orizzonte di riconoscimento collettivo. In questo frangente, la volgarizzazione delle conoscenze, nodo cruciale della pedagogia weiliana, più che essere mero strumento di acculturazione delle masse escluse dalla cultura ufficiale, diventa mezzo per mettere in grado anche gli spiriti sempre a contatto con la materia, come i contadini o gli operai, di cogliere, mediante procedimenti analogici – energia che permette al seme di crescere/energia che permette all’anima di innalzarsi al surnaturel, per fare solo un esempio – la spiritualità universale, che parla attraverso la bellezza del mondo, quella della poesia e delle opere d’arte. La rivoluzione che Simone Weil pensa, non è, dunque, una rivoluzione messianica o apocalittica, ma un tentare, quotidianamente e con tutte le proprie forze, di alleggerire il peso che schiaccia quella parte di umanità avvilita dal lavoro e dal potere.
Nell’opera La prima radice, con l’analisi della quale si chiude il percorso di Simona Faucitano, si giunge anche a comprendere meglio lo statuto analogico-simbolico della pedagogia dell’ascesi, che emerge «con il suo tratto storico-destinale di poetica dell’enracinement, del radicamento» (p. 223). Se lo sradicamento, nell’assolutezza con la quale si manifesta nel moderno, in quanto rottura dei legami non solo di luogo ma anche di tempo – spiriti immemori e naufraghi abitano le città novecentesche, incapaci di comprendere la falsa mistica e l’idolatria nascoste dietro concetti come quelli di nazione, diritto, sovranità – appare come il male sociale per eccellenza, segno del “ritrarsi dello spirito di verità”, il rimedio al tratto totalitario dell’idolatria e della falsa mistica è un’azione educativa che, per Weil, è il radicamento in quanto amore per il passato e orientamento del pensiero verso un u-topos che sia, tuttavia, «il luogo storico-geografico-morale dei legami vitali e veri» (p. 228). Pensare un’educazione agli obblighi verso l’essere umano, che superi la cultura dei diritti – fondata necessariamente su una legalità accompagnata alla forza, che deve garantirne il rispetto – è un compito che Simone Weil affidava alla Francia post-bellica e che Simona Faucitano ritrova come possibile ri-fondazione di un pensiero pedagogico che riscopra la centralità del singolo come nutrimento e forza di qualsiasi vita comunitaria; singolo che deve, dunque, essere destinatario dell’obligation, innanzitutto in quanto rispetto del soggetto irripetibile e unico che è ogni altro. Questa obligation ha origine in un ordine diverso da quello della pesanteur, della gravità mondana, scaturendo, piuttosto, dal surnaturel, a partire da un ordine «oltre o proto morale dell’imitazione della sapienza misteriosa, che rende splendente l’ordine dell’universo nella quale è inscritta» (p. 229). Tuttavia, nonostante l’origine oltre-mondana, essa si manifesta con il rispondere proprio ai “bisogni terrestri” dell’anima e del corpo, i quali, purtroppo, con un’educazione uniformata e “al chiuso” – nei “non luoghi” che spesso sono divenute le scuole, ma anche le università – non riescono più a emergere e restano, spesso, l’impensato problematico di ogni rapporto pedagogico, contribuendo, di fatto, allo sradicamento dall’universo e dalla sua misteriosa sapienza: «la domanda pedagogica riguarda, quindi, la disponibilità, da parte della cultura e della società moderna e contemporanea, delle risorse immaginali e simboliche per pensare “all’aperto”» (p. 234). Proprio una formazione all’aperto, infatti, dischiuderebbe una via di guarigione dallo sradicamento, educando alla ricettività mediante un’immersione nello spirituale e una ripresa del contatto, attraverso l’uso dell’analogia, con l’intero universo.

Indice

Prefazione, di Paolo Mottana
Introduzione, di Stefania Ulivieri Stiozzi
Cap. 1 Pedagogia dell’ascesi e questioni storiografiche di storia dell’ascesi e della mistica cristiane
Cap. 2 Una lettura cattolica del problema spirituale della preghiera nell’opera weiliana. I temi mistici della lotta, della ferita e dell’abbandono
Cap. 3 Il Prologo dei Quaderni, il Padre Nostro dell’Evanelo di Matteo, Amore di G. Herbert. Il contatto con Dio e l’efficacia sacramentale della preghiera fra liturgia e recitazione poetica
Cap. 4 L’ispirazione spirituale della morale catartica nelle meditazioni weiliane fra letteratura e filosofia. L’educazione alla virtù virile e la figura ascetica di Antigone di “essere assolutamente puro”
Cap. 5 L’ispirazione spirituale della morale catartica nelle meditazioni weiliane fra letteratura e filosofia. Il tema mistico del riconoscimento di Elettra e Oreste.
Epilogo
Pedagogia dell’ascesi e “formazione all’aperto”. Una lettura della nozione weiliana di radicamento
Bibliografia degli scritti weiliani
Bibliografia generale


L'autrice

Simona Faucitano è dottore di ricerca in Teorie della formazione e modelli di ricerca in pedagogia e didattica, collabora con la cattedra di Psicopedagogia del linguaggio e della comunicazione del corso di laurea di Scienze dell’educazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca ed è docente per l’area pedagogica del corso di Scienze dell’educazione I della SILSIS dell’Università degli Studi di Milano; è, inoltre, educatrice presso la comunità psichiatrica “La Villetta S. Gregorio” del CeAS e svolge attività di consulenza pedagogica presso Servizi educativi che si occupano di disagio psicosociale e psichiatrico.

giovedì 21 febbraio 2008

Fraser, Nancy - Honnet, Axel, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politica.

Meltemi, Roma, 2007, € 24, ISBN 9788883535949

Recensione di Alex Grossini - 21/02/2008

Filosofia politica

Il tema della redistribuzione ha dominato il discorso etico-politico liberale occidentale dagli anni '70. In seguito sono emersi i problemi delle differenze chiamate "culturali" come genere, razza e orientamento sessuale: per queste si chiede riconoscimento. Nancy Fraser predilige la categoria della redistribuzione a quella del riconoscimento, ma le comprende entrambe nella sua proposta di un dualismo di prospettiva; Axel Honnet ritiene invece che esista una sola categoria (monismo normativo), il riconoscimento, che comprende anche le istanze di redistribuzione di beni economici. Nancy Fraser spiega nelle prime pagine che nella tradizione angloamericana vige un'idea di giustizia impersonale (Moralität kantiana), mentre la base del riconoscimento sarebbe da ricercare nella filosofia hegeliana (Sittlichkeit). La priorità della redistribuzione non esclude il riconoscimento, ma servono entrambi: la tradizionale distinzione cristallizza le categorie e i rimedi alle ingiustizie che quelle categorie subiscono - per esempio, per i sostenitori della redistribuzione l'ingiustizia è di natura economica, il rimedio è la riorganizzazione economica, le collettività colpite sono le classi (terminologia marxista) e il fine è abolire le differenze perché sono ingiuste; per i sostenitori del riconoscimento l'ingiustizia è sociale, il rimedio è una riorganizzazione sociale, le collettività colpite sono i gruppi (terminologia weberiana) e il fine non è l'abolizione delle differenze, ma delle gerarchie arbitrarie tra le differenze. Questa schematizzazione non rispecchia la realtà: pensiamo alla classe operaia, che nella visione marxista subisce ingiustizie di stampo economico; ma è piuttosto evidente che nel mondo contemporaneo subiscono anche una ingiustizia sociale, perché gli operai non contano niente, decidono ben poco nelle democrazie occidentali - e al contrario, pensiamo a un gruppo che non ottiene riconoscimento sociale, i neri: questo gruppo subisce anche ingiustizie economiche, perché i neri nelle società occidentali sono in larga parte poveri (p. 38). Il non-riconoscimento non è un ostacolo sulla via dell'autorealizzazione, ma «una relazione istituzionalizzata di subordinazione e quindi una violazione della giustizia» (p. 43), cioè una discriminazione che la società non ha risolto e quindi ha permesso (istituzionalizzato). L'autrice suggerisce un'idea bidimensionale di giustizia: il nucleo è la nozione di parità partecipativa, che ha una condizione oggettiva (l'equa distribuzione economica) e una intersoggettiva (il riconoscimento). Possiamo capire meglio la posizione di Fraser quando usa i termini "classe" e "status" proprio per indicare le subordinazioni, facendo corrispondere alla prima la maldistribuzione e alla seconda il misconoscimento; la subordinazione di status (es.: genere, razza, orientamento sessuale) è radicata nei modelli di valore culturale istituzionalizzati, mentre la subordinazione di classe (es.: poveri, operai) è già nelle caratteristiche strutturali del sistema economico - il capitalismo produce poveri. Ma il fatto che non esistano società "pure" in un senso (economia -> società di solo mercato) o nell'altro (cultura -> gerarchie, famiglie, clan) ci porta a chiederci quale caratteristica abbia la priorità. Per Fraser nessuna delle due, c'è lo status che è un misto di entrambe. Vanno affrontate assieme nel dualismo di prospettiva: valutare se la redistribuzione non crei misconoscimenti e se il riconoscimento non crei maldistribuzione. Una politica può funzionare solo se assume queste due prospettive analitiche (p. 84) e le applica a uno stesso problema. La forma di governo che sembra più appropriata alla filosofa è una democrazia mista, dove un gruppo di esperti (di prospettive analitiche) valuta le situazioni e i problemi e offre alcune alternative ragionevoli, e poi il popolo sceglie tra quelle. Nella tradizione ci sono due strategie: affermative e trasformative; una strategia affermativa è il welfare state, che vuole eliminare gli effetti delle ingiustizie senza toccare le cause, mentre una strategia trasformativa è il socialismo realizzato che cambia le cause delle ingiustizie (il capitalismo è abolito) per eliminare gli effetti. Nessuna delle due è completamente valida, bisogna trovare una via di mezzo: una strategia affermativa radicale può avere effetti trasformativi - è quello che Fraser chiama «riforme non riformiste» (p. 103), intraprese in base a due principi di controllo: il "rimedio incrociato" (p. 109), vale a dire l'uso di metodi distributivi per risolvere problemi di misconoscimento e dei metodi di riconoscimento per problemi di maldistribuzione, e la "coscienza del confine", cioè la consapevolezza dei cambiamenti che i rimedi potranno avere a lungo termine sui confini dei gruppi. Honnet invece ritiene che l'ingiustizia sociale è in primo luogo il mancato riconoscimento, non la cattiva distribuzione (p. 139). Già ora la lotta politica si concentra più sui temi del riconoscimento, e la teoria critica dovrebbe aggiornarsi - invece si occupa solo di chi, tra i sofferenti, ha già un riconoscimento politico, per esempio la "classe" degli operai (p. 141). Bisogna muovere tre passi: contare quante ingiustizie non sono ancora percepite pubblicamente. Poi, passare da una concezione di «conflitti divisibili» a «conflitti indivisibili»: le identità collettive sono indivisibili, non possono essere trattate nell'ottica della redistribuzione. Terzo passo, è necessario ampliare la prospettiva storica: le richieste di riconoscimento ci sono da sempre, non sono recenti come crede Fraser: «Unendo queste tre esclusioni, è chiaro come l'analisi di Fraser sia un artefatto sociologico» (p. 151). Il malcontento sociale ha radici morali e non solo razionali/utilitaristiche - gli individui hanno aspettative morali nei confronti della società e non la preferiscono solo per calcolo. Dunque è il caso di pensare agli individui come attori morali, non attori razionali. Per Honnet la resistenza contro le ingiustizie è motivata più da un mancato riconoscimento di rivendicazioni identitarie che da un mancato rispetto di ideali procedurali nelle formazioni istituzionali: «I soggetti intendono le procedure istituzionali come un'ingiustizia sociale quando vedono non rispettati tratti della propria personalità per cui credono di possedere il diritto al riconoscimento» (p. 161). Ci sono tre sfere di riconoscimento (p. 168): la sfera di amore, affetto e cura, liberi ma protetti dalle istituzioni; la sfera della legge, che si fonda sul principio di eguaglianza giuridica - mentre le società tradizionali costruivano gerarchie rafforzate dal principio dell'onore -; la sfera della realizzazione, che è costruita sull'eguaglianza giuridica per impostare la meritocrazia. Certo questa meritocrazia dei Paesi capitalisti è pura ideologia, perché ricrea gerarchie e impone uno status: in cima resta il maschio borghese ed economicamente indipendente. Le discriminazioni non vengono cancellate dal progetto meritocratico, vengono solo sostituite: la donna resta, per esempio, concettualmente incapace di provvedere a se stessa e/o di provvedere ad altri che non siano bambini. Il riconoscimento assume forme diverse a seconda della sfera nella quale viene richiesto (p. 176). L'autore si concentra sul principio di realizzazione: è un principio individualistico che ha sostituito l'antico principio gerarchico di onorabilità, perché all'apparenza è più equo, ma serve solo a introdurre forme di discriminazione diverse. La sua eliminazione sarebbe possibile se davvero i meriti di tutti fossero riconosciuti (quindi, se venisse applicato), ma comporterebbe la perdita di alcuni vantaggi che legalmente può produrre, vale a dire il welfare state, la redistribuzione di un surplus di ricchezze a chi ne ha bisogno. La redistribuzione torna sotto i riflettori: Fraser sbaglia nel ritenere che i conflitti anteriori al nostro tempo siano lotte per la redistribuzione, perché sono in primo luogo lotte per il riconoscimento come il movimento femminista. Chiedere il rispetto di una uguaglianza di fronte alla legge significa chiedere che il principio di realizzazione, una delle tre sfere del riconoscimento, venga applicato senza pregiudizi: da qui nasce la possibilità che ognuno si costruisca la propria vita e magari la propria fortuna economica. Il progetto critico quindi non deve più pensare all'abbattimento del capitalismo ma in qualche modo a una sua riforma: mantenere il principio di realizzazione è essenziale in una società libera, ma bisogna calibrarlo dialetticamente e soprattutto tenendo davanti agli occhi la presenza di tre ambiti nei quali la persona si muove (amore, legge e autorealizzazione). In società, il sentimento di essere disprezzati porta alla lotta; anche nel caso di maldistribuzione, il motore della rivolta è l'aspettativa morale che l'individuo ha nei confronti della società, e questa aspettativa è appunto essere riconosciuti, rispettati. La richiesta di rispetto travalica il sistema capitalista basato su principio di eguaglianza e principio di realizzazione, e invita a considerare le pratiche culturali minoritarie o discriminate come beni sociali che hanno valore in se stessi, non per quello che possono dare in termini economici (p. 203). A livello politico, però, non si può obbligare nessuno a stimare qualcun altro: «Una società democratica deve possedere la virtù procedurale di saper trattare le sue minoranze come candidate alla stessa stima sociale mostrata nei confronti della propria cultura» (p. 205). Certo, non sempre: richieste folli (come possono essere quelle integraliste di ogni segno) non devono essere accolte; solo proposte che muovono in direzione di quella che riteniamo una società buona troveranno appoggio (p. 208). Honnet ritiene infatti che ci siano «"interessi quasi trascendentali" della razza umana» (p. 211), vale a dire aspettative morali abbastanza stabili storicamente e contenutisticamente riassumibili nel desiderio di integrazione e rispetto (mutuo riconoscimento, p. 212). Solo queste sono "buone". Le società democratiche seguono lo schema, integrando la realizzazione individuale in un tessuto sociale: l'individualizzazione avviene anche con l'inclusione dei soggetti nella società (p. 224).

Indice

Introduzione. Redistribuzione o riconoscimento? Nancy Fraser, Axel Honnet.
Giustizia sociale nell'era della politica dell'identità: redistribuzione, riconoscimento e partecipazione. Nancy Fraser.
Redistribuzione come riconoscimento: una replica a nancy Fraser. Axel Honnet.
La dilatazione distorta del riconoscimento: replica ad Axel Honnet. Nancy Fraser.
Il senso del riconoscimento: una replica alla replica. Axel Honnet.
Ringraziamenti.
Bibliografia di Nancy Fraser.
Bibliografia di Axel Honnet.


Gli autori

Nancy Fraser insegna Scienze Politiche e Sociali alla New School for Social Research a New York ed è una nota teorica femminista.
Axel Honnet insegna Filosofia all'Università di Francoforte sul Meno e dirige l'Institut für Sozialforschung.

domenica 17 febbraio 2008

Nannini, Sandro, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente.

Macerata, Quodlibet Studio, 2007, pp. 249, ISBN 9788874621224.

Nota di Alessandra Melas – 17/02/2008

Filosofia della mente, psicologia, neuroscienze

Introduzione
Naturalismo cognitivo di Sandro Nannini raccoglie alcuni saggi scritti tra il 1999 e il 2006 e riguardanti studi condotti dall’autore sulla storia della filosofia della mente e delle scienze cognitive. La convinzione che anima il lavoro di Nannini è che le soluzioni attualmente date al problema mente-corpo non siano molto lontane da quelle proposte anticamente da Platone, Democrito e Aristotele. Per Platone, infatti, l’anima è qualcosa di ontologicamente distinto dal corpo, come per molti antiriduzionisti contemporanei. Per Democrito ed altri atomisti l’anima è corporea, come lo è oggi per molti materialisti. Infine, sembra indubitabile all’autore l’analogia tra l’ilomorfismo aristotelico e la concezione funzionalistica del mentale, in cui la mente appare come mera “forma” o funzione del cervello.
L’obiettivo di Nannini appare quello di sottolineare lo scarto tra i progressi della scienze empiriche sul funzionamento del cervello e l’immutato paesaggio, rispetto alle antiche concezioni, delle differenti correnti filosofiche sul tema del rapporto mente-corpo.
È qui che si inserisce l’innovativa proposta metodologica dell’autore, che vede in stretta collaborazione tra loro filosofia delle mente e neuroscienze.
Verso un’ontologia materialistica del mentale
L’attento quadro delineato dal libro di Sandro Nannini focalizza l’attenzione sulla proposta che «la sola vera realtà è quella fisica e le sole vere spiegazioni di tutti i fenomeni sono quelle date in termini fisici. In altre parole, in primo luogo, i livelli superiori d’analisi sono solo differenti descrizioni di fenomeni che possono essere descritti anche in termini fisici (almeno in linea di principio)» (p. 67).
Pertanto, dall’analisi dell’autore emerge essenzialmente che «se i differenti fenomeni che sono oggetto rispettivamente delle neuroscienze e della psicologia scientifica non sono che ridescrizioni, a vari livelli di analisi, di una medesima realtà neurologica, allora la tendenza naturalistica a costruire un’unica scienza naturale della mente e dell’uomo trova un solido fondamento in un’ontologia materialistica» (p. 70).
Questa è la tesi naturalistica che anima l’intero testo di Sandro Nannini e che trova le sue radici nella filosofia di Willard van Orman Quine. Secondo quest’ultimo, infatti, l’epistemologia non può essere una disciplina normativa che consenta al filosofo di dettare a priori il giusto modo di procedere con la scienza ma, al contrario, deve divenire una scienza empirica, più precisamente una «‘scienza dei processi cognitivi’, ramo della psicologia scientifica» (p. 63). Così l’autore sostiene che se siamo «ancora fedeli all’essenziale della posizione di Quine: pensiamo ancora che l’epistemologia, in quanto disciplina filosofica, debba scomparire a vantaggio di una scienza naturale (o quanto meno empirica) dei processi cognitivi; ossia aderiamo ad una dottrina filosofica (più precisamente meta-epistemologica) che può essere chiamata naturalismo epistemologico forte» (p. 64).
Il naturalismo di Quine è stato spesso interpretato come avente un carattere unicamente epistemologico. Questa posizione si ricongiunge con il relativismo cognitivo, secondo cui esistono tanti mondi reali diversi quante sono le teorie scientifiche. Nannini osteggia quest’interpretazione della filosofia di Quine, sostenendo che quest’ultimo «non è affatto un relativista e non sembra rinunciare, quale presupposto necessario del fare scienza, ad un’ontologia filosofica di tipo realista» (p. 65). Secondo l’autore, pertanto, è presente in Quine anche un naturalismo di tipo ontologico che assume inevitabilmente i caratteri del materialismo.
Ciò che soggiace al naturalismo cognitivo di Nannini consiste in un’ontologia interdisciplinare di tipo materialistico. Così l’autore, seguendo l’insegnamento di Quine, riduce ontologicamente gli stati mentali a stati cerebrali e questi sono appunto oggetto di scienze naturali come la neurobiologia.
L’autore distingue quattro principi fondamentali che guidano il filosofo naturalista:
La mente fa parte del mondo reale.
La natura costituisce l’intero mondo reale.
La natura può essere conosciuta solo dalle scienze empiriche e pertanto la mente può essere conosciuta solo da questo tipo di scienze.
Ogni evento fisico può essere spiegato solo in termini fisici, ovvero l’universo fisico è un sistema causalmente chiuso.
Alla luce di questi quattro principi Nannini analizza la posizione della correnti filosofiche più in voga nel campo della filosofia della mente, col risultato che agli antipodi del naturalismo cognitivo troviamo il dualismo. Per il dualista la mente fa certamente parte del mondo reale, tuttavia la natura non costituisce l’intero mondo reale; da ciò scaturisce l’implausibilità della terza condizione sopra menzionata e l’insorgere di enormi difficoltà per riuscire a spiegare come sia possibile che entità mentali possano agire causalmente su entità fisiche. Infatti, la quarta clausola pone al dualista notevoli problemi: se si ammette che l’universo fisico non sia causalmente chiuso rimane in ogni caso difficile spiegare come due entità così distinte, come il mentale e il fisico, possano interagire in senso causale; al contrario, se si ammette la validità della chiusura del mondo fisico si va incontro all’epifenomenismo, ossia il mentale non può agire in nessun modo sul mondo fisico. Ma è indispensabile supporre l’esistenza di qualcosa che non ha alcun potere causale? Come precisa l’autore, l’applicazione del principio portato avanti dal cosiddetto “rasoio di Ockham” ci impedisce di rispondere positivamente a questa domanda.
Contro l’irriducibilità dell’esperienza soggettiva
È proprio dagli eredi del dualismo di matrice cartesiana che giungono le maggiori critiche contro il naturalismo cognitivo. L’argomento più rilevante di tutti è basato sull’irriducibilità dell’esperienza soggettiva: «come può la visione di un colore, ad esempio, essere identica all’attività di determinati neuroni? Nessun processo fisico ha infatti nulla di neppur lontanamente simile a quella che si presenta invece come proprietà essenziale di tutte le esperienze soggettive: in esse realtà e apparenza non sono distinguibili. Di qualunque oggetto materiale o evento fisico è sempre lecito chiedersi se sia veramente come sembra essere. Un’esperienza soggettiva, viceversa, è necessariamente ciò che sembra essere» (p. 94).
Questa obiezione assume varie forme, alcune delle quali notissime. L’autore dedica particolare attenzione alle proposte di Saul Kripke e David Chalmers, insieme a quelle di Thomas Nagel e Frank Jackson.
L’obiezione di Kripke, tratta da Identity and Necessity, è basata su un argomento a priori che presuppone la conoscenza della logica modale che lo stesso filosofo ha contribuito a fondare. In particolare si richiede la conoscenza del concetto di “mondo possibile” (ripreso da Leibniz). Un qualsiasi mondo possibile può essere visto come uno “scenario”, un “palcoscenico”, in cui certi fatti accadono oppure non accadono, certe proprietà sono vere oppure non lo sono. Certamente il nostro mondo è un mondo possibile e tutti gli altri mondi possibili concepibili differiscono per qualche dettaglio dal nostro. Così nel mondo reale Bush è presidente degli Stati Uniti, ma nulla toglie che sia concepibile un mondo possibile dove è vero che qualcun altro sia il presidente degli Stati Uniti. Il concetto di mondo possibile ci consente di mostrare la differenza tra un espressione contingente, come ‘Bush è presidente degli Stati Uniti’, ed un’espressione necessaria come ‘piove o non piove’. Infatti, possono esistere dei mondi in cui la prima espressione sia falsa, ma non possono esistere dei mondi in cui sia falsa anche la seconda espressione: questa è sempre vera in qualsiasi mondo possibile da noi concepibile. Inoltre, stando a quanto lo stesso Kripke sostiene, non è ammesso un mondo in cui Bush, se esiste in quel mondo, non sia Bush, e questo in virtù del principio di identità, secondo cui ogni cosa è identica a se stessa. Perciò, mentre la descrizione ‘l’attuale presidente degli Stati Uniti’ può riferirsi, in mondi possibili diversi, a persone diverse, il nome proprio ‘Bush’ si riferisce alla stessa persona in tutti i mondi possibili. Così i nomi propri sono designatori rigidi, cioè non cambiano il loro riferimento passando da un mondo possibile all’altro. Secondo Kripke, anche tutti i nomi che designano dei generi naturali, come ‘mente’ e ‘corpo’, sono designatori rigidi. Se nel mondo reale gli stati mentali si riferiscono a stati cerebrali, cioè se gli stati mentali sono identici a stati cerebrali, allora quest’identità dovrebbe valere in tutti i mondi possibili. Giunti a tal punto, è semplice vedere la critica che Kripke fa ai sostenitori della teoria dell’identità. Questi hanno insistito sul carattere contingente ed empirico dell’identità tra mente e corpo: il dualismo è falso nel nostro mondo ma potrebbe essere vero in qualche altro mondo possibile. Ma poiché la mente è un designatore rigido, essa dovrebbe essere in tutti i mondi possibili identica a stati cerebrali, in modo che l’identità in questione non sia contingente ma sia piuttosto necessaria. In tal modo il dualismo non solo sarebbe falso, ma sarebbe anche logicamente inconcepibile. Se accettiamo questa conclusione dobbiamo rinunciare alla premessa fatta dagli stessi teorici dell’identità, cioè dobbiamo rinunciare all’idea che siano concepibili dei mondi in cui è valido il dualismo cartesiano.
L’argomento di Kripke può essere riassunto dal seguente schema logico, in cui le lettere M e F stanno rispettivamente per ‘mentale’ e ‘fisico’, i simboli □ e ¯ stanno rispettivamente per gli operatori logici ‘è necessario che’ e ‘è possibile che’, e MP sta per Modus ponens.

1. "x (Mx®Fx) Assioma: ipotesi d’identità
2. ‘M’ ed ‘F’ sono designatori rigidi Assioma
3. "x (Mx®Fx)®□ (Mx®Fx) Dall’assioma 2
4. □("x (Mx®Fx)) Dall’assioma 1 e da 3, per MP
5. ¯Ø("x (Mx®Fx)) Assioma aggiuntivo
6. Ø□("x (Mx®Fx)) Dall’assioma 5
7. □("x (Mx®Fx)) Ù Ø□("x (Mx®Fx)) Da 4 e da 6

Per evitare la conclusione contraddittoria mostrata da 7, esistono solo tre possibilità: o si nega l’assioma 1, o si nega l’assioma 2, o si nega l’assioma 5.
Negare l’assioma 5 appare a Kripke implausibile, in quanto gli stessi sostenitori della teoria dell’identità affermano la contingenza dell’ipotesi di riduzione del mentale al fisico. D’altro canto, negare l’assioma 2, significherebbe per Kripke rivedere l’intera sua teoria sui designatori rigidi.
Dunque, risulta ovvio che per evitare la contraddizione 7 occorra negare l’assioma 1, ossia l’ipotesi di identità tra stati mentali e stati cerebrali.
Riproponendo le parole di Nannini, se ne conclude che nell’interpretazione di Kripke «il dolore coincide con il provare dolore e che questa esperienza soggettiva non può essere identica ad un qualsiasi processo cerebrale, poiché tale identità, se fosse vera, sarebbe vera in tutti i mondi possibili e quindi il dualismo, in contrasto con ciò che i fautori stessi della teoria dell’identità ammettono e sostengono, sarebbe ed apparirebbe intuitivamente come logicamente impossibile» (p. 100).
Tuttavia, Nannini critica la posizione di Kripke rigettando la clausola numero 5 sopra indicata: perché dobbiamo, infatti, continuare a sostenere che il dualismo sia logicamente possibile? La possibilità logica del dualismo cartesiano ha origine, secondo l’autore, da una concezione del mentale che è il sedimento di una tradizione di derivazione cristiana e cartesiana. È possibile che il concetto che abbiamo di mente sia fuorviante e che possa mutare alla luce dell’insegnamento delle neuroscienze. Al riguardo, Nannini sostiene che «ad un fisico di oggi, ad esempio, appare inconcepibile, e non solo di fatto falso, che il fulmine non sia una scarica elettrica, ma non era così secoli fa. Perché il concetto di mente non dovrebbe poter seguire un mutamento analogo?» (p. 100).
Una critica simile è posta dall’autore all’argomento di David Chalmers, basato sulla possibilità logica dell’esistenza degli zombi. Dio avrebbe potuto creare un mondo identico al nostro ma privo di esseri dotati di coscienza, cioè un mondo dove gli esseri umani sono sostituiti da zombi. Per Chalmers la possibilità logica che esistano degli zombi è la prova dell’irriducibilità della coscienza a processi cerebrali. Gli zombi, infatti, sono fisicamente identici all’uomo, ma non sono dotati come l’uomo di una coscienza. Tuttavia è ammissibile che l’esistenza degli zombi ci appaia logicamente possibile a causa dei nostri concetti di coscienza e mente, tutti impregnati di retaggi di origine cristiana e cartesiana. Chi può dirci, infatti, che le nostre intuizioni sul mentale cambino con la nostra acquisizione dei progressi fatti dalle neuroscienze?
Un argomento molto noto contro la riducibilità del mentale al fisico è quello proposto da Thomas Nagel in What Is It Like to Be a Bat? Le domande che animano il lavoro di Nagel sono le seguenti: come vede il mondo un pipistrello? Cosa si prova ad essere un pipistrello? Ebbene la risposta di Nagel è: solo il pipistrello lo può sapere. Anche se avessimo una descrizione in termini fisici del sistema nervoso dei pipistrelli, non sapremmo comunque nulla sulle loro esperienze soggettive. Da ciò, Nagel conclude che le esperienze soggettive dei pipistrelli non sono qualcosa di fisico.
Nella stessa direzione di Nagel si muove anche Frank Jackson proponendo un celebre esperimento mentale. Jackson descrive l’esperienza di Mary, una neuroscienziata che è sempre vissuta in una stanza grigia e che conosce il mondo esterno solo grazie da un televisore in bianco e nero. Tuttavia Mary è scientificamente onnisciente e conosce alla perfezione tutti i processi cerebrali che rendono possibile la visione dei colori. Un bel giorno la scienziata entra in contatto con il mondo e vede i colori. Mary, con quest’esperienza, ha appreso qualcosa di nuovo che prima ignorava, nonostante la sua totale conoscenza dei processi neuronali che sottendono ai colori. Poiché la scienziata non può aver appreso nulla di nuovo con ulteriori studi scientifici, dato che come detto essa è onnisciente, allora ciò che ha imparato non fa parte del mondo fisico. I colori, in quanto qualia, ossia qualità secondarie soggettive, non sono descrivibili in termini fisici.
Interessante è la critica rivolta a Nagel e Jackson da Paul Churchland. Per mostrare il nodo centrale di questa critica Nannini precisa che «ciò che è stato chiamato ‘accesso privilegiato’ ai nostri propri stati di coscienza dipende in realtà […] dal fatto che il cervello dispone di un sistema di auto-monitoraggio di alcuni dei suoi propri stati interni. È in virtù di tale sistema che il cervello può percepire, sotto forma di esperienze soggettive, come nessun altro può farlo, ciò che avviene al suo interno […]. Analogamente Mary può vedere i colori solo quando i suoi centri della vista vengano messi in funzione dallo stimolo esterno necessario e quindi quando l’attività di tali centri sia monitorata da altre parti del cervello a ciò preposte» (p. 108). Pertanto, esiste una differenza tra la conoscenza neurofisiologica del cervello e il provare esperienze soggettive. La prima è una forma di conoscenza “esterna”, la seconda è una forma di conoscenza endoscopica. Tuttavia, ciò non toglie assolutamente nulla al fatto che la seconda forma di conoscenza sia riconducibile a processi fisici. La differenza tra mentale e fisico non è ontologica, l’unica differenza che soggiace tra fenomeni mentali e fenomeni fisici riguarda solo il modo attraverso cui questi fenomeni vengono conosciuti.
Sul processo di naturalizzazione dei qualia e della coscienza
Ci dirigiamo, così, verso quello che Nannini ha definito processo di naturalizzazione dei qualia e della coscienza. Quanto più accurata sarà la conoscenza scientifica dei processi cerebrali, tanto più accurato sarà il processo di ri-definizione in termini naturalistici di concetti come “coscienza”, “qualia”, “libero arbitrio” e “intenzionalità”.
Secondo l’autore, la naturalizzazione dei qualia va inserita all’interno di una teoria che consideri il contenuto degli stati mentali come tappa intermedia di un processo di elaborazione dell’informazione dall’input sensoriale all’output motorio. Un processo nel quale l’input sensoriale è trasformato nell’output motorio adatto alla sopravvivenza dell’individuo. Così, la sensazione di dolore che proviamo dopo alcuni input sensoriali ha lo scopo di produrre l’output motorio adeguato: evitare una circostanza che ostacolerebbe la nostra sopravvivenza.
Prima di procedere all’apertura di una strada per la naturalizzazione della coscienza, l’autore analizza le teorie filosofiche che assimilano quest’ultima alla memoria, per poi mostrare che esiste una netta distinguibilità tra queste due facoltà mentali. Tra le teorie filosofiche che Nannini prende in considerazione troviamo quella che John Locke ha esposto nel 1690 in An Essay Concerning the Human Understanding. Alla domanda “cosa sono io?” Locke risponde di essere la continuità dei suoi ricordi. Questa concezione empiristica del mentale trova sviluppo successivo in David Hume. Nel suo A Treatise on Human Nature, Hume sostiene il nodo centrale di quella che è stata definita come bundle theory, affermando che «ciò che chiamiamo mente non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, unite da certe relazioni, e che si suppongono, sebbene erroneamente, dotate di una perfetta semplicità e identità» (Hume, p. 220). Dunque, per Hume, io non ho stati mentali ma sono un sistema di relazioni tra stati mentali. Precisamente «io sono quel nesso mnemonico tra i miei stati mentali che mi consente di pensarmi come ciò che permane costante nel flusso temporale delle mie percezioni e dei miei pensieri» (p. 126) .
Tuttavia gli studi attuali ci mostrano che esiste una netta differenza tra fenomeni di depersonalizzazione e fenomeni di amnesia. Si pensi ad esempio ad un individuo che abbia perduto la capacità di memorizzare in seguito ad una lesione. Il paziente ogni due minuti perde la memoria e chiede al suo medico dove si trovi e cosa ci faccia in ospedale. Nonostante questo, il paziente non mostra significativi disturbi della personalità. Quando afferma “io sento freddo” è convinto di essere proprio lui stesso a provare quella sensazione di freddo. Analogo, ma contrario, è il caso degli schizofrenici. La schizofrenia è caratterizzata da forti disturbi della personalità: alcuni gesti e pensieri non vengono riconosciuti dagli schizofrenici come propri. Nonostante questo, lo schizofrenico ha una memoria di “ferro”.
Questi esempi mostrano che memoria e coscienza sono implementate nel cervello in modo differente. Tuttavia, Hume, affermando che il nostro Io altro non sarebbe che un fascio di percezioni, anticipa alcune concezioni materialistiche della mente, soprattutto quella proposta da Daniel Dennett nel 1991. Secondo Dennett, infatti, il cervello non è costituito da un “processore centrale”, bensì da un insieme di microprocessori che operano in parallelo e che tutti insieme lavorano come un sistema intelligente, un po’ come le reti neurali artificiali. Ma cosa dà unità al sistema? Come afferma Nannini, una qualche unità deve esistere e deve essere rintracciato quel qualcosa che la rende possibile per evitare di andare incontro alla critica che già Immanuel Kant aveva rivolto a Hume. Qui si inserisce la proposta originale dell’autore, che espone una variante della teoria di Dennett aggiungendo che «ogni orchestra per suonare all’unisono ha bisogno di un direttore. Tuttavia orchestre molto affiatate possono suonare, almeno per un lasso di tempo limitato, senza direttore, ossia “A Podio Vuoto”. In realtà, quando ciò avviene, gli orchestrali guardano tutti in genere il primo violino. Immaginiamo però che questo trucco non venga posto in atto e che ogni orchestrale suoni guardando contemporaneamente tutti gli orchestrali (o chi questo o chi quello) e che questo risultato di guardare gli altri sia il formarsi nella mente di ciascuno della rappresentazione di una sorta di direttore fittizio. Il direttore in realtà non c’è, ma gli orchestrali suonano all’unisono come se ci fosse» (p. 132).
Il come se evidenziato in corsivo nella citazione riportata ci fa capire che l’unità cosciente che fa da sfondo a tutti in nostri fenomeni mentali per Nannini è illusoria allo stesso modo in cui è illusorio il direttore di un orchestra “A Podio Vuoto”. Non è del tutto implausibile, pertanto, una concezione della coscienza analoga a quella proposta dapprima da Hume e poi da Dennett: la coscienza è una funzione distribuita tra parti diverse del cervello agenti in parallelo.
L’illusione del libero arbitrio
Interessante è la teoria proposta da Nannini per quanto concerne il libero arbitrio. Infatti, uno dei problemi più consistenti che il filosofo naturalista materialista deve affrontare riguarda il seguente quesito: è compatibile l’esistenza del libero arbitrio con la visione scientifica del mondo?
L’autore procede dapprima a chiarire il significato dell’espressione ‘libero arbitrio’. Esistono, infatti, differenti sensi in cui ci possiamo sentire liberi; sono libero, ad esempio, di compiere un’azione rispetto a P, se P non può né impedirmi di compierla né tanto meno punirmi se compio quell’azione stessa. È questo il caso della libertà sociale che è una relazione triadica tra un agente, un’azione e un potere. Ma la libertà sociale non ha niente a che vedere con il senso di volontarietà che accompagna le nostre azioni. Ancora, posso sentirmi libero in un altro senso: sono libero di fare un’azione se ho la capacità e la possibilità di farlo. Tuttavia, neppure questo senso di libertà, che poi consiste nella libertà d’agire, ha a che fare con l’agire volontariamente. La libertà che a noi interessa è quella che Sandro Nannini classifica come libertà di volere. Poiché ci sia libertà di volere devono essere soddisfatte tre condizioni fondamentali:
Ho compiuto un’azione ma avrei potuto agire diversamente
Ho agito per delle ragioni (agire liberamente non vuol dire agire per caso)
L’agente sente di essere stato proprio lui a compiere quell’azione.
In quest’ultimo senso di “libertà” consiste il libero arbitrio.
Ritorniamo ora al quesito precedente: è compatibile il libero arbitrio con la visione scientifica del mondo? La fisica moderna ci ha indotto a riflettere su come le nostre azioni possano cambiare il corso del mondo, dato che ogni evento sembra essere determinato con precisione dalle leggi del moto. La domanda sopra posta allora diventa: è compatibile il libero arbitrio con il determinismo? I filosofi al riguardo si dividono ancor oggi tra coloro che ritengono il determinismo incompatibile con l’esistenza del libero arbitrio e coloro che invece pensano il contrario. I primi sono detti “incompatibilisti”, i secondi “compatibilisti”. Tra gli incompatibilisti troviamo i libertari, gli incompatibilisti duri e gli eliminativisti (detti anche “illusionisti”). I libertari, spesso propugnatori di una teoria dualistica del reale, ritengono che, poiché il libero arbitrio esiste, al contrario il determinismo non possa esistere. Più precisamente il libertario non esclude l’esistenza del caso, in quanto, anche se questo non coincide con il libero arbitrio, ne è un presupposto assolutamente necessario. I libertari, inoltre, hanno spesso fatto notare come il determinismo sia oramai contestato anche dalla scienza contemporanea e hanno pensato di poter trovare una conferma al loro indeterminismo nella meccanica quantistica. Tuttavia, la meccanica quantistica dà al caso la possibilità di esistere, ma tali processi casuali non spiegano comunque l’origine di presunti processi volontari. Contrariamente al libertarismo, l’incompatibilismo duro ritiene che debba essere mantenuto il determinismo ed in qualche modo messa in dubbio l’esistenza del libero arbitrio. L’eliminativismo, in più rispetto all’incompatibilismo duro, sostiene che il libero arbitrio è incompatibile con una qualsiasi visione scientifica del mondo, sia essa deterministica che indeterministica. Una delle critiche che viene rivolta agli incompatibilisti duri e agli eliminativisti è la seguente: se il libero arbitrio non esiste, che senso ha allora punire una persona per una qualche azione visto che la persona in questione non ne è responsabile? La risposta a tale accusa potrebbe essere, come sostiene Nannini, di tipo hobbesiano: sono ritenuto responsabile di un’azione quando la punizione a me inflitta è utile, cioè quando essa ha lo scopo di dissuadermi dal commettere nuovamente l’azione stessa. Certamente, ciò presuppone che l’etica poggi non sul vero, ma piuttosto sull’utile.
La posizione dei naturalisti è prevalentemente di tipo eliminativistico: il libero arbitrio è incompatibile con la visione scientifica del mondo ed esso è, pertanto, una mera illusione. Ma andando più a fondo, vediamo in che cosa consiste l’eliminativismo proposto dai propugnatori del naturalismo cognitivo.
Uno dei primi problemi che i naturalisti devono affrontare è il seguente: com’è possibile che si conosca l’inesistenza del libero arbitrio, ma ognuno di noi continui a credere di essere comunque libero? Non ha molto senso, infatti, dire: «‘So che non è vero che piove, ma credo lo stesso che piova’» (p. 152). Tuttavia, Nannini implicitamente si chiede: possiamo continuare a credere in qualcosa anche se non lo reputiamo vero? Per rispondere a questo quesito l’autore si appella alla grammatica logica del verbo ‘vedere’, prendendo come esempio le illusioni ottiche e le figure impossibili. Sappiamo che i soggetti di dipinti come quelli rappresentati, ad esempio, da Maurits Escher sono inesistenti, tuttavia non possiamo far a meno di continuare a vederli e percepirli. Allo stesso modo si potrebbe certamente sostenere che il senso di agency che accompagna le nostre azioni sia un’illusione, ma un’illusione inevitabile, che Madre Natura ha reso necessaria per la nostra sopravvivenza. In conclusione la naturalizzazione del libero arbitrio procede verso l’eliminazione di quest’ultimo come concetto prettamente illusorio, ma indispensabile per la nostra salute psichica.
I ficta
Come rendere conto di concetti di oggetti inesistenti, come quello di “libero arbitrio”, nella teoria scientifica della mente-cervello? Nannini riprende la distinzione, risalente a Hans Reichenbach e riproposta da Daniel Dennett, tra illata e abstracta:
I T-oggetti di una teoria scientifica T sono dei T-illata se e solo se essi sono considerati in T come esistenti indipendentemente dal loro essere oggetto di T stessa. In sostanza da T dipende l’“essenza” dei T-illata ma non la loro “esistenza”.
Sono dei T-abstracta tutti i T-oggetti la cui esistenza in T dipende dall’esistenza dei T-illata. Un T-abstractum emerge come proprietà da un certo insieme di T-illata. In questo caso bisogna tuttavia precisare che i T-abstracta non richiedono un livello linguistico-descrittivo differente rispetto a quello dei T-illata.
Ogni teoria scientifica T può collocarsi ad un qualsiasi livello d’analisi Ln; allora, i suoi T-illata e T-abstracta sono esistenti a quel particolare livello Ln in cui essa si colloca.
Ad esempio, la meccanica quantistica si colloca al livello fondamentale L0 della realtà fisica, pertanto i suoi T-illata-fotoni saranno esistenti a quel particolare livello di realtà.
Molte teorie scientifiche, una delle quali è la psicologia cognitiva, si collocano ad un livello d’analisi superiore a L0 , coincidente col livello d’analisi L1. Gli oggetti descritti da queste teorie sono esistenti a livello L1. La maggior parte di questi concetti esistono a livello L1, ma anche a livello L0, poiché sono implementati da illata o abstracta appartenenti a teorie scientifiche che si collocano al livello fondamentale della realtà, cioè al livello fisico e biologico. Tuttavia altri concetti esistenti a livello L1, sono inesistenti al livello L0, poiché sono dei T-oggetti non implementabili dal livello fondamentale L0 della realtà fisica. Sono questi gli oggetti che Nannini introduce ex novo e che chiama ficta:
«Un T-fictum è un T-oggetto che non è implementabile al livello fondamentale L0 della realtà fisica» (p. 172).
Come si collocano gli stati mentali all’interno di questo schema? Alcuni stati mentali sono direttamente illata o abstracta biologici, cioè sono direttamente riducibili a processi cerebrali appartenenti al livello fondamentale di realtà. Ad esempio, la coscienza potrebbe essere ridotta al comportamento di certi neuroni che agiscono alla stessa frequenza. Altri processi mentali appartengono ad una sorta di realtà virtuale, cioè sono esistenti ad un livello L1 d’analisi, cioè al livello in cui si colloca la teoria che li descrive, tuttavia essi sono implementati da illata o abstracta del livello biologico, per cui esistono anche al livello fondamentale di realtà. Altri stati mentali, invece, sono in tutto e per tutto dei ficta. Un esempio di fictum è, appunto, il libero arbitrio. Come già visto, il libero arbitrio per il naturalista non esiste a livello ontologico fondamentale: è solo un’illusione indispensabile per la sopravvivenza della nostra specie.
Intenzionalità e teoria avverbiale della percezione
All’interno del progetto di Nannini, volto alla naturalizzazione degli stati mentali, si inserisce anche il tentativo di naturalizzazione dell’intenzionalità brentaniana. Franz Brentano, riprendendo il significato del termine latino intentio, definisce tutti gli stati mentali come intenzionali in quanto necessariamente rivolti ad un oggetto. Ogni stato mentale ha sempre una direzione, intentio, verso qualcosa. Al naturalista si pone il problema del come sia possibile che stati mentali assimilabili interamente a processi cerebrali, possano entrare in relazione con un oggetto esterno, ossia avere un’intenzionalità. In sostanza, il naturalista si chiede se sia possibile naturalizzare stati intenzionali, riducendoli a processi cerebrali, nonostante essi “guardino” il più delle volte ad oggetti esterni. Il merito più rilevante di questa parte del lavoro di Nannini consiste nell’aver riproposto una versione della teoria avverbiale della percezione, suggerita da Curt Ducasse (1942) e da Roderick Chisholm (1957). Questa teoria ci consente di rendere “interno” il contenuto degli stati mentali. In poche parole «il contenuto rappresentativo per mezzo del quale una percezione è diretta verso un certo oggetto esterno viene considerato nella teoria avverbiale come una proprietà della percezione stessa» (p. 219). Questo è possibile perché il ‘vedere un cane’ diventa ‘vedere caninamente’, il ‘vedere una macchia rossa’ diventa ‘vedere macchiamente e rossamente’. Il contenuto dello stato mentale viene, in sostanza, descritto grazie all’utilizzo di un avverbio, ossia da un predicato monadico. In tale modo sembra più facile spiegare come sia possibile che stati mentali intenzionali in senso brentaniano possano essere descritti da processi cerebrali. Rimane tuttavia un’altra questione da risolvere: come può un nostro stato intenzionale rappresentato da un predicato monadico generare un’azione e quindi una qualche modificazione nel mondo esterno? Stando a quanto sostiene Nannini questo problema è risolvibile se si accetta l’ipotesi che il predicato monadico che rappresenta il contenuto dello stato intenzionale si riferisca ad una certa dinamica del cervello. Così, «secondo questa ipotesi dobbiamo ritenere che il mio percepire il colore rosso sia implementato da dei processi cerebrali che, tra le loro innumerevoli funzioni, hanno anche quella di scatenare il movimento del mio piede destro sul pedale del freno quando vedo un semaforo rosso» (p. 227). Tutto questo accadrebbe perché «Madre Natura ha selezionato la nostra capacità di vedere i colori perché ciò era utile alla sopravvivenza dei nostri antenati (umani ed animali); e di conseguenza la percezione dei colori coincide con quei processi cerebrali che controllano le azioni nella cui esecuzione la capacità di distinguere gli oggetti in base al loro colore è in media vantaggiosa» (p. 228).
Quest’ipotesi di naturalizzazione degli stati intenzionali rafforza la teoria causale dell’azione (causalismo), secondo cui l’intenzione di un agente A di ottenere Y, unita alla credenza che compiere l’azione X è il mezzo migliore per ottenere Y, costituiscono due stati mentali che insieme causano l’azione dell’agente A di fare X, proprio come un incendio causa del fumo. Il legame causale qui descritto è, dunque, unicamente naturale.
La teoria causale dell’azione ha ricevuto diverse critiche. Uno degli argomenti più noti è quello del “Nipote Assassino” (N.A.). L’argomento descrive il caso di un tizio che vuole entrare in possesso dell’eredità di suo zio e crede che il modo migliore per ottenere ciò che vuole sia ucciderlo. Decide, pertanto, di assassinarlo. Prende la pistola e si dirige in macchina a casa dello zio per portare a termine il suo proposito. Ma l’avere preso questa decisione lo agita a tal punto che, nel tragitto, esce fuori strada con la macchina e investe una persona, che guarda a caso è suo zio. Il nipote ha ucciso lo zio certamente a causa della sua intenzione di ucciderlo, tuttavia la sua azione non è stata intenzionale. L’esempio ambisce a dimostrare, pertanto, che non sempre le azioni causali possono essere descritte anche come intenzionali e che non c’è coincidenza tra le prime e le seconde.
Ora, il migliore dei contro-argomenti che i sostenitori della teoria causale dell’azione hanno trovato per controbattere l’argomento del “Nipote Assassino” si basa sull’assunzione che l’argomento faccia in realtà ricorso ad una catena causale deviante. Così, «il N.A e gli altri contro-esempi della stessa natura mostrano solo che, se l’intenzione di fare X causa l’azione di fare X in modo diverso da come l’agente aveva programmato, allora l’azione non è intenzionale; essi non provano affatto che in casi normali la descrizione di un’azione intenzionale […] non sia equivalente alla descrizione di un’azione causale fra l’intenzione e l’azione in questione» (p. 210).
Ma gli oppositori della teoria causale dell’azione hanno dalla loro parte un nuovo argomento contro tale teoria: l’argomento dell’ “Alpinista Assassino” (A.A.). In quest’argomento l’azione realmente compiuta rimane involontaria, nonostante non sembra ci sia nessuna catena causale deviante, ossia il corso reale degli eventi rimane identico a quello programmato. In questo argomento due alpinisti stanno scalando una montagna. Un alpinista odia l’altro e da molti anni aspetta l’occasione per ucciderlo. Sembra che il mezzo migliore per farlo sia quello di fingere di perdere la presa della corda che impedisce al compagno di cadere nel vuoto. Decide perciò di lasciare la presa, ma lo stato di agitazione che questa decisione gli provoca gli fa perdere involontariamente la presa della corda nello stesso modo in cui egli aveva già stabilito di lasciarla andare. Questo è un esempio di catena causale non-deviante, in cui però l’azione di lasciare andare la presa, pur essendo causata dall’intenzione di uccidere il compagno di cordata, non è certamente intenzionale. Ancora una volta sembra che non ci sia alcun legame tra causalità naturale e intenzionalità, anche se siamo in presenza di una catena causale non-deviante. Come ribatte questa volta il causalista? La risposta che questi può dare è la seguente: anche nel caso dell’A.A siamo in presenza di una catena causale deviante. Esiste infatti una sfasatura tra il corso programmato degli eventi e il corso reale degli eventi. Nel corso programmato degli eventi l’azione di uccidere il compagno di cordata è intenzionale perché l’assassino causerebbe la sua morte anche se non fosse in uno stato di eccitazione, purché intendesse ucciderlo. Nel corso reale degli eventi l’assassino causerebbe la morte del suo compagno di cordata anche se non intendesse ucciderlo, purché fosse eccitato. Ma un oppositore alla teoria causale dell’azione potrebbe ancora trovare il modo di replicare. Egli potrebbe dire che nel caso in cui il lasciare la corda sia accidentale, l’intenzione di uccidere il compagno di cordata è causalmente efficace solo indirettamente, cioè per mezzo dello stato di eccitazione, e non in virtù del suo contenuto intenzionale. Insomma, se non ha rilevanza il contenuto intenzionale, allora si può parlare di relazione causale naturale. Ma se il contenuto intenzionale ha una qualche rilevanza, allora non si può assolutamente parlare di relazione causale naturale. Ma è effettivamente vero che laddove ha importanza il contenuto intenzionale non c’è causalità naturale? La teoria avverbiale della percezione consentirebbe al causalista, come sostiene Nannini, di uscire da questo groviglio di argomentazioni astratte. Infatti, il contenuto dell’intenzionalità, come visto, può essere, descritto come una proprietà della percezione stessa ed essere, dunque, in un secondo momento ridotto a precisi processi cerebrali. Siffatti processi hanno potere causale verso il mondo esterno e questo potere rientra perfettamente nell’ordine della causalità naturale.
È con questo tentativo di naturalizzazione dell’intenzionalità brentaniana che si conclude l’intero percorso attraverso cui Nannini propone la sua concezione materialistica del mentale, concezione che ora ci consente di leggere il titolo del suo libro come “Naturalismo cognitivo. Per un’ontologia materialistica della mente”. 

Bibliografia

Chalmers, D.J., 1996, The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory, New York, Oxford University Press (La mente cosciente, trad. it, Milano, McGraw-Hill 1999).
Churchland, P.M., 1989, A Neurocomputational Perspective: The Nature of Mind and the Structure of Science, Cambridge MA, MIT Press.
Dennett, D.C., 1991, Consciousness Explained, Boston, Little Brown & Co (Coscienza, trad. it., Milano, Rizzoli 1993).
Hume, D., 1739-40, A Treatise of Human Nature, London (Trattato sulla natura umana, trad. it, in Opere, Bari, Editrice Laterza 1971).
Jackson, F., 1986, «What Mary Didn’t Know», Journal of Philosphy, 83, pp. 291-95.
Kripke, S.A., 1971, Identity and Necessity, in M. Munitz, Identity and Individuation, New York, New York University Press, pp. 160-164.
Locke, J., 1690, An Essay Concerning Human Understanding, London (Saggio sull’intelligenza umana, trad. it, Roma-Bari, Laterza 1972).
Nagel, T., 1974, «What Is It Like to Be a Bat?», Philosophical Review, 83, pp. 435-50 («Cosa si prova ad essere un pipistrello?», trad. it. in D.C. Dennet, D.R. Hofstadter, L’io della mente, Milano, Adelphi 1985).
Nannini, S., Sandkühler, H.J., 2000, Naturalism in the Cognitive Sciences and the Philosophy of Mind, FranKfurt a.M., Peter lang.
Nannini, S., 2002, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Roma-Bari, Laterza.

Indice

Introduzione
1. Mente e corpo
2. Le concezioni naturalistiche della conoscenza
3. Il ‘naturalismo liberalizzato’ è un vero naturalismo?
4. I qualia della filosofia della mente
5. I ‘Patiti di Zeus’ e la naturalizzazione dei qualia
6. La naturalizzazione della memoria e del self
7. Esiste il libero arbitrio?
8. Per un’ontologia del mentale
9. Atti mentali e processi cerebrali
10. Coscienza ed inconscio nell’odierna filosofia della mente
11. La teoria causale dell’azione e la naturalizzazione dell’intenzionalità
Bibliografia


L'autore

Sandro Nannini insegna filosofia teoretica all’Università di Siena. Dopo essersi occupato di filosofia delle scienze sociali, di meta-etica, di teoria dell’azione e della struttura logica delle spiegazioni in storia si è dedicato alla filosofia della mente e delle scienze cognitive. Tra le sue principali pubblicazioni si possono ricordare Wurzeln und philosophische Grundlagen der Kognitionswissenschaften (2006), L’anima e il corpo. Una introduzione storica alla filosofia della mente (2002), Naturalism in the Cognitive Sciences and the Philosophy of Mind (2000), Il Fanatico e l’Arcangelo. Studi di filosofia analitica pratica (1998), Cause e ragioni. Modelli di spiegazione delle azioni umane nella filosofia analitica (1992), Il pensiero simbolico. Saggio su Lévi-Strauss (1981).

Links

Homepage personale di Sandro Nannini:
L’insegnamento delle scienze cognitive in Europa:

giovedì 14 febbraio 2008

Duprè, John, Natura umana. Perché la scienza non basta.

Roma- Bari, Laterza, 2007, pp. 258, € 18,00, ISBN 9788842081708
[Ed. or.: Human Nature and the Limits of Science, Oxford University Press, 2001]

Recensione di Rosanna Oliveri - 14/02/2008

Filosofia della scienza

Con il saggio Natura umana. Perché la scienza non basta John Duprè intende prendere posizione contro un’opinione ormai dominante nella filosofia della scienza di oggi, ovvero l’idea di poter ricondurre tutto alle medesime leggi, che sono poi quelle causali tipiche della fisica.
L’attacco che Duprè sferza a questa posizione, che arriva a definire “imperialismo scientifico”, non manca di toni polemici e l’autore non lesina di fare nomi e cognomi di coloro che egli ritiene i principali responsabili di questa mentalità che può essere definita, nel migliore dei casi, riduzionista.
Le leggi della fisica, infatti, possono spiegare una grande quantità di fenomeni naturali, ma per quanto riguarda i comportamenti umani la questione cambia, in quanto questi non sono così semplici come i fenomeni naturali: nelle ragioni di una scelta comportamentale di una persona entrano in gioco molti più fattori. Mentre per i fenomeni naturali del mondo fisico si può parlare di “movimenti”, per le persone umane dobbiamo usare il termine “azioni”.
Nel passare in esame le teorie che hanno contribuito a creare quest'atteggiamento, Duprè parte dalla sociobiologia, passando in rassegna i pensatori che maggiormente hanno contribuito a fondarla come Edward O. Wilson e Stephan Joy. Questo ambito di ricerca scientifica si basa soprattutto sul tentativo di usare la tesi evoluzionista di Darwin per spiegare la natura umana. Le argomentazioni dei sociobiologi solitamente girano intorno alla convinzione di base che esistano determinati comportamenti che in passato avrebbero incrementato le possibilità riproduttive.
Si nasconde, però, un grande pericolo dietro queste convinzioni, ovvero che esse si trasformino facilmente in forme di dannoso genocentrismo o, addirittura, come definisce lo stesso autore, di determinismo genetico.
Secondo i sociobiologi, tutti i comportamenti umani si potrebbero spiegare ammettendo che la nostra mente sia costituita da moduli, ciascuno dei quali si riferisce a un’azione, cosicché esisterebbe un modulo per il corteggiamento, uno per il sesso e uno anche per lo stupro. Oltre alla gravità dell’affermare che esista un modulo per lo stupro, e quindi creare una giustificazione per un atto criminale, si possono notare anche discrepanze di tipo logico-razionale. Infatti, pur accettando l’esistenza di questi moduli, non si capisce in che modo si stabilisca una precedenza di uno rispetto a un altro. In altre parole, non è chiaro perché una persona scelga di usare un modulo invece di un altro, visto e considerato che, in situazioni simili, ogni persona sceglie di comportarsi in un modo diverso.
Successivamente, l’autore passa in esame le teorie che si riferiscono alla cosiddetta sociobiologia del sesso e del genere. Secondo queste ultime gli uomini e le donne sarebbero fondamentalmente diversi a causa di una differenza innata che li spinge a fare di volta in volta scelte molto diverse gli uni dagli altri. Le donne sarebbero spinte dal desiderio di avere figli e di crescerli bene, pertanto sarebbero portate a cercare un partner che garantisca loro la sicurezza, sia essa intesa come protezione fisica, quindi un uomo forte e muscoloso, sia essa intesa come sicurezza economica. I più ambiti sono quindi gli uomini forti, ma soprattutto benestanti. Questa seconda proprietà, infatti, è la più importante perché particolarmente utile per far crescere i figli nel modo migliore, garantendo loro un futuro roseo.
Per quanto riguarda gli uomini, invece, gli impulsi che li spingerebbero all’azione sarebbero di tutt’altra natura, essi sarebbero attratti più che altro dall’aspetto fisico delle donne, cosa che garantirebbe una maggiore possibilità di riuscita per la gravidanza. Per questa ragione preferirebbero avere relazioni con donne più giovani.
La giovane età della donna, inoltre, sarebbe, sempre secondo i teorici della sociobiologia del sesso e del genere, una garanzia di verginità, altro requisito molto importante per la scelta di una donna per un uomo. La difficoltà, e fino a poco tempo fa l’impossibilità, di accertare la paternità di un figlio, è per i maschi un motivo di grandissima frustrazione che solo la fedeltà della donna può contribuire a sedare. Non esistono, però, garanzie che la donna non tradisca il proprio compagno, l’unico fattore che possa essere d’aiuto per questa sensazione di impossibilità in cui si trova il maschio è rappresentata, secondo questi scienziati, dal sapere che fino a quel punto la donna abbia mantenuto un comportamento per così dire irreprensibile.
Inutile dire che il rischio principale è quello di cadere in una serie di banalità e di stereotipi sociali come per esempio la necessità che la donna sia vergine o che l’uomo debba essere più anziano, oppure che ciò che cerchino le donne in un uomo siano solo i soldi e il benessere economico. Si potrà notare facilmente che si tratta di una concezione semplicemente ancorata alla tradizione che troppo spesso giustifica teorie maschiliste di sottomissione della donna.
Il fatto che spesso succeda così non significa che questo sia dovuto a cause genetiche e che quindi segua una legge deterministica che porta per forza di cose a questi risultati. Esistono anche altre cause che hanno questi effetti come risultati, per esempio il fatto che in molte società un uomo già affermato scelga una donna molto più giovane, mentre raramente accade il contrario, può essere dovuto anche al fatto che avere un o una partner più giovane rappresenta senz’altro un privilegio, un segno di affermazione sociale e potere che nelle società contemporanee viene ancora destinato in maggioranza agli uomini piuttosto che alle donne. La verginità, poi, è anche un segnale di sottomissione al maschio e il desiderio da parte degli uomini di ritrovarla in una donna può essere dovuto al desiderio di possessione, dovuto anche questo a una posizione di dominio sociale dell’uomo nelle nostre società.
Anche la ricerca di benessere economico da parte delle donne in un uomo può essere dovuta anche ad altri fattori che non siano legati alla procreazione e alla gravidanza. Troppo spesso, infatti, la donna è confinata a un ruolo subalterno nella società e incontra molti ostacoli per la propria affermazione sociale e economica, pertanto il fatto di avere una relazione con un compagno ricco o almeno benestante le garantirebbe una vita più agiata. Ma tutti questi elementi di ricerca si annullerebbero se vivessimo in una società che garantirebbe maggiore equità tra uomini e donne.
Un altro argomento molto considerato da questi teorici della sociobiologia del sesso è lo stupro. Questo viene considerato un comportamento normale e istintivo nei maschi che cercano in questo modo di garantirsi una discendenza. In base alle teorie che abbiamo visto prima, secondo questi scienziati, gli uomini appartenenti a una classe sociale medio – alta non avrebbero grossi problemi a trovare qualcuna per potersi accoppiare, mentre quelli di un ceto sociale basso riscontrerebbero delle enormi difficoltà per realizzare questo scopo e sarebbero, di conseguenza, portati a usare la violenza per uscire da questa strada senza uscita.
L’immagine stereotipata dello stupratore povero e disadattato socialmente che si apposta nei vicoli bui della città in attesa che qualche poveretta passi di là, è piuttosto evidente. Peccato che basti guardare i dati di moltissime ricerche volte a scoprire l’identità dello stupratore tipo per scoprire che nella maggior parte dei casi non si tratta di sconosciuti, ma di persone molto vicine alla vittima, conoscenti, amici e spesso addirittura persone appartenenti alla stessa cerchia familiare come padri, mariti della madre, e così via.
Spiega, infatti, lo stesso Duprè: “Anche se alla fine tutto quello che facciamo ha come scopo la sopravvivenza e la riproduzione, le strade per raggiungere questi fini sono diverse e a volte molto ardue. La sopravvivenza e il valore ai fini riproduttivi di un partner sessuale dipendono da cose come la salute, l’alimentazione, l’abbigliamento e da mezzi ancora più generali per ottenere queste cose come il denaro e l’istruzione” (p. 128).
Molto spesso le teorie della sociobiologia individuano in una delle possibili cause, la causa per eccellenza e questo per cercare di ricondurre tutti i fenomeni, fisici o umani, a degli unici principi causali, anche se questo cela il forte rischio di cadere nel riduzionismo, come sostiene lo stesso Duprè all’interno del saggio in questione: “Il caos si rivela in forma ordinata di costituenti strutturali (le menti umane). E questa idea di trasformare il disordine in schemi coerenti scendendo a un livello strutturale più basso è tipica delle visioni più decisamente riduzionistiche che dell’unità della scienza” (p. 81).
Se si guarda alla storia dell’umanità, ci si accorge facilmente che il comportamento e la mentalità umana hanno subito dei grandissimi cambiamenti che non permettono di ricondurre la natura umana a una struttura unitaria. L’apparente conflitto tra storia e scienza è però facilmente risolvibile se si ammette la disunità della scienza. Esiste una pluralità metafisica, per la quale non si può spiegare la natura umana nello stesso modo che si spiega quella fisica.
Senza dubbio i nostri movimenti sono spiegabili con leggi scientifiche riconducili alla fisica e alla chimica, ma queste scienze non potranno mai spiegarci perché abbiamo scelto di fare proprio quel movimento e proprio in quel momento. Molte parti di noi si comportano esattamente come una macchina e le loro azioni possono essere spiegate in modo meccanicistico e deterministico, ma esiste una parte di noi per cui la fisica e la chimica non bastano. Richiamandosi a celebri filosofi come Kant e Hume, Duprè ribadisce l’autonomia della sfera morale.
La natura umana si può spiegare solo in parte con tesi e teorie meccanicistiche che si rifanno al determinismo: non ammettere che oltre a questo esista un quid in più quando si parla di persone significa cadere necessariamente nel riduzionismo.

Indice

Introduzione
I fondamenti della psicologia evolutiva
La psicologia evoluzionistica del sesso e del genere
Il fascino e le conseguenze della psicologia evoluzionistica
Tipologie di persone
la teoria della scelta razionale
Libero arbitrio
Bibliografia


L'autrice

John Duprè insegna Filosofia della scienza all’Università di Exeter. In questa stessa sede dirige l’Egenis (EESRC Centre for Genomics in Society).

giovedì 7 febbraio 2008

Fabio Vander, Critica della filosofia italiana contemporanea. Dialettica e ontologia: i termini di una contrapposizione.

Genova-Milano, Marietti, 2007, pp. 165, € 18,00, ISBN 9788821165375.

Recensione di Paolo Calabrò – 07/02/2008

Filosofia teoretica, Storia della filosofia

Il problema del divenire è antico come la filosofia: se l’essere è, come può divenire? Come può “essere” il “mutamento”: come può cioè una cosa non essere “più”? Questo è il punto di partenza dell’ultimo libro di Fabio Vander, che mostra quanto il tema, antico ma non vecchio, sia più che mai presente nell’odierno dibattito filosofico italiano, al quale per scelta l’Autore si limita: per Vander infatti «la maggiore filosofia al mondo si fa oggi in Italia» (p. 9). Ed è quindi con quattro autori italiani di spicco che si confronta: Emanuele Severino, Gennaro Sasso, Massimo Cacciari ed Andrea Emo.
Soltanto un fondamento come la contraddizione può permettere di venire a capo del problema del divenire senza cadere in aporie: questo è il tema del libro. «È perché ogni uomo è buono/cattivo che può poi essere detto buono, cioè può dar luogo all’incontraddittoria “opinione” della bontà (o cattiveria) di un singolo» (p. 21). L’Autore si rifà esplicitamente ad Hegel, del cui pensiero dialettico il libro è in verità una ricapitolazione puntuale e priva di sbavature, che ha il pregio della chiarezza: una volta identificato il dispositivo intellettuale, per il quale all’ente necessariamente bisogna riferirsi in modo incontraddittorio, secondo il dettato del principio di non contraddizione aristotelico (p.d.n.c. nel testo), mentre l’essere è di necessità contraddittorio, l’argomentazione fluisce piana, regolare, senza sorprese. La contraddizione è regula veri, la non contraddizione è regula falsi. Solo la contraddizione, fondamento di una realtà che il linguaggio è costretto ad oggettivare secondo il p.d.n.c., può dare conto della realtà dell’esperienza nel suo multiforme divenire. Solo il Tutto è. Ed è tutto, cioè – nel comprendere gli estremi, ogni cosa ed il suo opposto – è contraddittorio. L’esperienza è parziale, unilaterale, non contraddittoria ed infine falsa. La parte può essere conosciuta autenticamente solo se ricondotta al tutto di cui è parte. Il meccanismo di riconduzione è la dialettica.
Purtroppo il libro (ma forse meglio si dovrebbe dire l’Autore) non ha anche il pregio dell’umiltà: Vander, che non perde tempo «con filosofie analitiche, epistemologie, postmodernità e “pensieri deboli”» (p. 13), intende stabilire non solo «che cosa davvero Aristotele disse a riguardo della contraddizione» (p. 12) ma soprattutto «cosa i nostri autori [cioè i quattro criticati] ne hanno capito» (ivi); per Vander Severino ha «un modo invero ben strano di ragionare» (p. 18) ed Emo trae conclusioni in maniera assurda (p. 140), «resta fermo alla più ingenua delle ontologie» (p. 143) e deve «riconoscere il suo finale fallimento» (p. 150). Ma il suo vero bersaglio è Cacciari, il quale: «riscopre la mediazione ma si ostina a pensarla non dialetticamente, il che semplicemente è impossibile» (p. 96), sbaglia nell’interpretazione dell’enigma dell’oracolo di Delfi (p. 108), è arbitrario nella sua considerazione della dialettica (p. 111n.), «applica in modo errato la sua concezione della dialettica non solo a Croce ma anche a Gentile» (p. 115n.), «ha una percezione distorta, rovesciata del problema della politica» (p. 119), mantiene presupposti surrettizi a causa della sua «cattiva intelligenza della dialettica» (p. 123), si fa domande “retoriche” e “sbagliate” (p. 124), «è prigioniero del suo pregiudizio irrazionale» (p. 126), quando cita Aristotele «lo fa in modo improprio» (p. 126n.) ed in definitiva «confonde l’essere dell’ente con l’essere in quanto essere» (p. 128n.).
Vander intende mostrare la forza e la consistenza della concezione della dialettica di Hegel, e sceglie di farlo con “metodo dialettico”, cioè per contrapposizione alle filosofie dei quattro autori citati, facendo leva sulle debolezze di queste, mettendone in luce le aporie e spiegando infine i vantaggi che offre la dialettica hegeliana nella soluzione di tali problemi. In verità, la presentazione della dialettica gli riesce meglio della critica: la prima risulta infatti chiara, conseguente e precisa, mentre alla seconda sarebbe forse meglio convenuta una trattazione più estesa, basata su una bibliografia più ampia. Vander prende in esame tre testi di Severino, tre di Sasso, quattro di Emo ed addirittura uno solo di Cacciari (oltre alla prefazione di quest’ultimo ad un libro di Emo, che certo non si può considerare un “testo” da criticare). Egli dice di voler restringere il confronto all’«ultima filosofia italiana» (p. 11), ma è probabile che autori come quelli in questione, che hanno all’attivo decine e decine di libri ed il cui percorso intellettuale si dispiega in decine d’anni, si riconoscerebbero difficilmente nell’immagine che Vander ne restituisce; per cui la sua critica è quantomeno “parziale”. Inoltre, manca quasi del tutto la bibliografia secondaria sugli autori trattati, ciò che estromette la critica di Vander dal dibattito attuale intorno agli stessi.
Quest’appunto vale anche per la sua interpretazione di Aristotele, della quale non rivendica l’originalità, ma certo la correttezza (contro «determinati errori ermeneutici che il pensiero di oggi condivide con una secolare tradizione di interpretazioni aristoteliche», p. 12). Francamente questa è una cosa che lascia sconcertati. Vander, che non è certo uno scrittore alle prime armi, porta avanti la sua critica a queste vecchie interpretazioni e la sua proposta d’interpretazione senza citare una sola volta il testo greco di Aristotele (mentre le citazioni dal greco si sprecano in tutto il resto del libro, dove sono molto meno necessarie che su questo punto). Basa tutto su un paio di passi controversi, fa affermazioni apodittiche su questioni quantomeno discutibili e cita raramente la letteratura secondaria sull’argomento; il tutto senza astenersi dall’affermare a ogni piè sospinto (come già visto) che gli autori italiani (Cacciari soprattutto, che a sua volta novellino non è) sbagliano l’interpretazione di un problema filosofico di queste dimensioni, cioè la portata ontico-ontologica del p.d.n.c. Così come, pur comprendendo bene che l’opinione di Semerano e Giannantoni (benemeriti) non è probante in un ambito eminentemente filosofico (e non solo) come quello delle origini presocratiche della dialettica, nondimeno è in grado di affermare al riguardo, dopo sole sei pagine di trattazione, di aver raggiunto la dimostrazione cercata (p. 158).
È impossibile negare la conoscenza della materia e quella degli autori che Vander certamente possiede; anzi, è proprio per questo che si resta stupiti. Escluso ogni sospetto d’imperizia, non resta che pensare che l’atteggiamento descritto sia semplicemente il riflesso di quello che Vander ha nei confronti dei pensatori che critica: egli li tratta di continuo come se, avendo a disposizione una filosofia consistente e adamantina come quella hegeliana, si ostinassero – per motivi oscuri, o per cattivo carattere – a battere sentieri impervi e sdrucciolevoli, la cui sola meta non può che essere l’aporia. Sembra accusare questi filosofi di non aver letto Hegel e Aristotele, o di averli capiti male (e quasi, certe volte, di farlo apposta); non dà conto, a chi non ha letto Della cosa ultima, del fatto che Cacciari non può assumere integralmente una prospettiva hegeliana perché attanagliato dal seguente dilemma: «Abbiamo visto come il testo aristotelico stesso [il libro V della Metafisica] sembri alludere ad altro, a ‘qualcosa’ che il pensiero ‘patisce’ senza poter ‘risolvere’. Dobbiamo mettere a tacere questo suo dramma? Il pensiero vuol far vedere; il nostro discorso tende sempre ad apparire puramente apofantico. Ma l’arché sembra avere una voce che è difficile non ascoltare, e ancor più difficile ‘ripetere’» (M. Cacciari, Della cosa ultima, p. 40). Ma, per Vander, come per lo stesso Hegel, la filosofia hegeliana è un punto d’arrivo; ciò che viene prima sbaglia per difetto, ciò che viene dopo, per eccesso. (Russell, che è probabilmente il «“maestro” dispensabile del Novecento» di cui Vander parla a p. 144n., rilevò che, secondo la Fenomenologia dello spirito, «l’Universo sta gradualmente imparando la filosofia di Hegel». B. Russell, Storia della filosofia occidentale, Milano, Longanesi, 19962, p. 704).
Ma la coerenza interna del sistema non è l’unica esigenza della filosofia. Un problema come quello di Cacciari (e di Aristotele) non può essere semplicemente “messo a tacere”. In più, oggi la filosofia non può esimersi dal confronto con la scienza moderna – qualunque sia l’ambito ed il livello di validità che si è disposti a riconoscerle in quanto forma di sapere – il che non vuol dire che essa debba essere accomodante anche quando, giustamente, rinuncia ad essere mera ancilla scientiae. Leggendo il libro, non si può non chiedersi cosa penserebbe un uomo di scienza, ancorché non prevenuto e genuinamente interessato alla speculazione filosofica, di fronte ad un’affermazione del genere: «“Determinazione noetica” è allora quella che indica proprio la natura contraddittoria del bianco e del nero; per cui il nero è non-nero ed è condizione della sua determinazione (dianoetica) come “opinione” del puro nero. In altre parole posso avere l’opinione (non la verità) che il nero è solo nero, sulla scorta della determinatio della verità del nero, che è dialettica, cioè contraddittoria, cioè nero/non-nero. L’opinione è la determinatio della verità, è l’unilateralizzazione della contraddizione» (p. 26). Non è solo una questione di linguaggio. Per la scienza è indispensabile attingere ad un saldo fondo di oggettività (anche se solo in termini di intersoggettività); essa non può fermarsi al fatto che «il miele è dolce/amaro, ma c’è “chi lo guarda” dolce e “chi lo guarda” amaro» (p. 62). Per la scienza, l’ontologia della contraddizione è problematica da conciliare con il dato imprescindibile d’esperienza (anche di fronte a fenomeni e teorie “olistici”, quali ad esempio l’entanglement quantistico o la teoria fisica del bootstrap); detto altrimenti, non le è sufficiente affermare la mera utilità pratica del p.d.n.c. , dicendo che «serve a non buttarsi nei burroni» (p. 46).
Dalle pagine trapelano l’entusiasmo e la passione dell’Autore, che ci tiene a fugare ogni dubbio, non è avaro di esempi che possano giovare alla spiegazione e fa di tutto per non lasciare nulla in sospeso. Né manca vivacità al testo, pur dotato di un linguaggio omogeneo e rigoroso: come quando Vander rievoca il pirandelliano “uno, nessuno e centomila” a proposito della incontraddittorietà degli enti (p. 80), o come quando dice che «l’esperienza è solo la fugace indian summer del finito» (p. 60). In conclusione questo libro, solida introduzione alla dialettica hegeliana – la cui lettura può risultare impegnativa per la mole delle note (che spesso superano in ampiezza lo stesso testo) ma non per farraginosità dell’esposizione – resta una testimonianza lampante di quanto forte possa essere ancora oggi, a due secoli di distanza, il fascino di una filosofia avvolgente come quella di Hegel che ha preteso – e pretende – di fondare la filosofia “incontraddittoriamente, sulla contraddizione”. Pochissimi i refusi tipografici di questa bella edizione Marietti. 

Indice

INTRODUZIONE
PARTE PRIMA
La contraddizione come fondamento. Su Severino
Tempo e contraddizione in Gennaro Sasso
PARTE SECONDA
Cacciari e la riconquista della mediazione
La dialettica «senza fondamento» di Andrea Emo
CONCLUSIONE
Origini presocratiche della dialettica. Su Semerano
INDICE DEI NOMI


L'autore

Fabio Vander, nato a Roma nel 1958, è laureato in filosofia e storia contemporanea ed è diplomato presso l’Alta scuola di studi legislativi (ISLE). Ha pubblicato: con M. Fotia, Neo-centrismo e crisi della politica, Asterios, 2006; con G. Pieraccini, Socialismo e riformismo, Marietti, 2006; La democrazia in Italia, Marietti, 2004; Kant, Schmitt e la guerra preventiva, Manifestolibri, 2004; Che cos’è socialismo liberale?, Lacaita, 2002; L’estetizzazione della politica, Dedalo, 2001; Aldo Moro, Marietti, 1999. Collabora con le riviste «Behemoth», «Il cannocchiale», «Telos», «Teoria politica».

Links

www.filosofiaitaliana.it (sezione del «Giornale di filosofia» dedicata alla filosofia italiana)
www.filosofia-italiana.org (centro per la filosofia italiana)
www.lelettere.it/site/d_Page.asp?IDPagina=42 (sito dell’editrice del «Giornale critico della filosofia italiana, fondato nel 1920 da Giovanni Gentile)