venerdì 28 novembre 2008

Tarantino, Stefania, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Marìa Zambrano.

Milano, Mimesis Edizioni, Collana Filosofie, 2008, pp. 184, € 17,00, ISBN 978-88-8483-600-7.

Nota di Fabrizio Chello – 28/11/2008.

Filosofia, Etica, Pedagogia filosofica, Filosofia dell’educazione, Libertà

Il volume La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Marìa Zambrano è il risultato di un lungo percorso condotto dall’autrice, Stefania Tarantino, in relazione alle attività della Scuola di dottorato in Filosofia dell’Università di Ginevra e al progetto di ricerca Jeanne Hersch: Portrait d'une femme philosophe «présente à son temps». Un itinéraire à travers éthique, pédagogie, esthétique, finanziato dal Fondo Nazionale di Ricerca (FNR) Svizzero. Il progetto, coordinato da Roberta De Monticelli, si è caratterizzato per un intenso studio volto alla valorizzazione e alla diffusione dell’opera di Jeanne Hersch: filosofa ginevrina, allieva al tempo stesso fedele ed eterodossa di Karl Jaspers (Kiblansky, 1998, pag. 25), riconosciuta dopo la sua morte, avvenuta nel 2000, come una delle voci più acute del panorama filosofico contemporaneo per l’interesse dimostrato verso i problemi del tempo presente – dalla questione dei diritti umani a quella della diffusione delle nuove tecnologie e alle relative implicazioni bioetiche sulla salute e sulla vita – secondo una prospettiva esistenzialista, che pone la libertà e il limite come tratti fondamentali della condizione umana.

Nell’ambito di questa attività di ricerca – che ha consentito la diffusione in Italia delle traduzioni delle maggiori opere della filosofa, comprese le sue prove letterarie – Stefania Tarantino si è interessata alla concezione herschiana della pedagogia filosofica, sottolineando il possibile ruolo etico della filosofia nella formazione umana e comparandolo al concetto di vocazione filosofica ampiamente presente nell’opera di Marìa Zambrano, al cui studio l’autrice del testo recensito si dedica da numerosi anni. Lì dove la ricostruzione, l’interpretazione e l’interrogazione del pensiero delle due filosofe dello scorso secolo vuole sondare l’emblematica affinità, al di là delle numerose ed evidenti differenze non solo teoriche, esistente nel modo di intendere la filosofia come una pratica il cui senso è da individuarsi nella ricerca di una verità esistenziale.

Tale studio – così come viene definito nel sottotitolo del testo – è preceduto da una breve ma incisiva prefazione di Salvatore Veca e si articola in tre parti, che indagano, rispettivamente, la natura della pratica filosofica, la sua relazione con la tradizione metafisica occidentale e il legame che tale pratica intrattiene con la trama temporale di cui è intessuta la condizione umana. L’argomentazione procede attraverso un ritmo che cerca di rimanere prossimo al sentire delle due pensatrici, lasciando dunque spazio al loro modo di dar forma al linguaggio attraverso riferimenti diretti ai loro scritti.

La questione che si pone come centrale nella prima parte del testo è l’influenza che il bisogno di concretezza di Hersch e Zambrano, ovvero la loro esigenza di essere presenti al loro tempo, di vivificare il pensiero attraverso l’esperienza e di vivere il «mestiere di filosofo» (Hersch, 1957) come strettamente interconnesso all’agire politico e sociale, ha sul modo di concepire – o sarebbe meglio dire, fare – filosofia.

In questo senso, per entrambe le pensatrici il pensiero filosofico sembrerebbe emergere da quella particolare condizione che caratterizza l’essere umano: una condizione di penuria, di mancanza, di separazione, di esilio. Infatti, come sottolinea l’autrice, Zambrano considera la soggettività come ciò che si forma a partire da quella resistenza che la realtà oppone ai desideri dell’uomo, resistenza a cui è necessario rispondere attraverso l’individuazione di un pensiero vivo, sanguigno, corporeo – il pensiero poetico, che si differenzia da quello metafisico – affinché il soggetto non soccomba di fronte all’incontro con ciò che è l’altro da sé, bensì si cali in esso attraverso quella specifica postura che Zambrano definisce «stare passivi». Lì dove la passività, da intendersi non unicamente come l’epoché husserliana bensì come un’estasi mistica (Mortari, 2006, pp. 37-39), è quel fare vuoto dentro di sé che lascia spazio all’apparenza del fenomeno che ne dichiara l’essenza: come a dire, solo se il soggetto si pone in ascolto, ovvero si fa ricettivo, può accogliere la verità dell’altro e quindi può vedere illuminata, da una luce positiva e affermativa, quella realtà intesa precedentemente come limite e che adesso si caratterizza come «chiari del bosco» (Zambrano, 1991).

In questo senso, in Zambrano, il pensiero filosofico vivo, che è tutt’uno con il sentire, e la conoscenza, intesa come ricerca della verità, nasce «… per mancanza d’altro, per una negazione radicale che non può essere colmata se non dalla tensione creativa di possibilità e realtà, di necessità e libertà» (p. 31). Lì dove tale relazione tra il sentimento soggettivo e l’apparenza dei fenomeni viene a definirsi come vocazione ovvero come una «chiamata» necessaria, ineludibile, che consente al soggetto di decidere ciò che egli è, o meglio di riconoscere ciò che non si è potuto fare a meno di essere. Sicché la vocazione è un movimento che procede in un doppio senso: interno – il sentire, l’addentrarsi nella propria soggettività – ed esterno – il lasciarsi invadere dalla sensualità della realtà e il mostrarsi ad essa per ciò che si è; ma anche nel doppio senso di un movimento che rende assolutamente unica e irripetibile ogni esistenza umana e che al tempo stesso trascende la sua relatività, ponendosi come essenza stessa della vita.

Un doppio movimento che è possibile ritrovare anche nel pensiero di Jeanne Hersch che, pur non usando mai il termine «vocazione», sostiene che la filosofia nasca da quel vuoto, da quello sgombero, da quella messa a nudo che sola può indurre la soggettività in formazione a decidere di sé di fronte all’oggetto a cui ha da attribuire un senso (Hersch, 2004a, p. 39). Se, infatti, sostiene Stefania Tarantino, Jeanne Hersch abbia dichiarato più volte di non avere una vocazione filosofica – lasciando l’uso di tale termine in relazione alla figura del suo maestro Karl Jaspers e definendosi, con ironica modestia, una maestra di scuola (Hersch, 2006a, p. 50) al fine di eliminare dalla pratica filosofica quell’ascendenza astratta della tradizione e attribuirle quella dimensione radicale di educazione al pensiero –, tale vocazione, nel senso appena delineato attraverso la filosofia di Zambrano, emerge quando Hersch sostiene che il ragionamento filosofico si configura come presenza del soggetto a se stesso ovvero come presa d’atto della propria capacità d’agire, «di imporre una forma alla materia data» (Hersch, 2006b, p. 76) e dunque come capacità della propria libertà.

In tal senso, per Jeanne Hersch, la ragione si configura sempre come pratica incarnata, come ciò che ha a che vedere con la condizione umana e, per tale motivo, la filosofa considera la ragione astratta come ciò che produce uno sguardo fintamente imparziale, impersonale e totalizzante, mentre pensare la realtà è guardarla dal piano modale in cui si è situati ovvero è interpretare il proprio sguardo secondo i gradi d’essere, senza pretendere di poter dire la totalità dell’essere stesso. Totalità che sempre ci sfugge perché la condizione umana si caratterizza all’origine come de-cisione, come scissione, separazione da quella totalità dell’essere (Hersch, 2000a, pp. 13-24), che permette, d’altro canto, all’uomo la libertà che è alla base della ricerca della verità metafisica.

La condizione umana è, dunque, condizione d’incarnazione e la possibilità di esercitare la propria capacità d’agire dipende unicamente da tale condizione: come a dire, secondo il linguaggio di Zambrano, il pensiero deve incontrare la dimensione materiale del corpo e del sangue o, proseguendo sulla scia di Hersch, il pensiero non cerca di dire solo ciò che caratterizza l’oggetto verso cui lo sguardo del soggetto protende, bensì il pensiero cerca costantemente ciò che fa essere il soggetto (Hersch, 2004a, p. 27), ciò che consente di intercettare quella radice da cui proviene la spinta ad essere. Radice che sembrerebbe rimanere, nel pensiero herschiano, sempre qualcosa di ineffabile per la ragione umana: la verità, intesa come stupore che genera il pensiero e che caratterizza il singolo, è qualcosa che trascende la singolarità. Sicché anche in Hersch il movimento filosofico è duplice: il movimento esplicito che afferma qualcosa dell’oggetto, la cosiddetta verità oggettiva, e il movimento implicito che sottende la verità metafisica del singolo, ossia quella verità che porta con sé il valore trascendente dell’esistenza dell’uomo, lì dove però quest’ultimo movimento è possibile solo se si attraversa il primo.

Una filosofia intesa, dunque, alla maniera di Hersch e Zambrano, come ricerca della verità metafisica o della propria vocazione esistenziale è, secondo la tesi di Stefania Tarantino, una pratica che trasforma il soggetto, ovvero è kierkegaardianamente «pensiero soggettivo esistente» (p. 62), carico di pathos. Pensiero, dunque, che deve incarnarsi nella storicità del tempo affinché possa rivelare, attraverso una luce rischiarante, la verità: storicità e trascendenza si legano per lasciare al soggetto la libertà di rifare costantemente il cammino della propria scelta d’essere. In questo senso, la filosofia non è un sapere disinteressato in quanto sottende sempre una scelta etica ovvero sottende quella pratica formativa, storicizzata e situata, attraverso cui il soggetto, incompiuto per natura, cerca e si dà la propria forma ovvero riconosce soggettivamente, nel senso di esistenzialmente, ciò che di ontologico lo permea.

In questo senso, Jeanne Hersch ha buon gioco nel parlare di mimesis ­­­­ovvero di quel processo di comprensione che sostanzia l’attività dello studioso di filosofia. Richiamandosi a Bergson – a cui la filosofa ha dedicato i suoi primissimi studi durante gli anni della laurea (Hersch, 2001) –, Jeanne Hersch concepisce la filosofia come ciò che emerge da un «centro di forza» che il filosofo cerca, attraverso tutta la sua opera, di tradurre secondo un linguaggio vicino a quella durata pura del tempo che sfugge ad ogni categorizzazione, sicché la comprensione dell’opera filosofica, essendo intrisa da quella che Hersch definisce «verità metafisica» ovvero la verità implicita, non può essere condotta unicamente sul piano oggettivo, ma deve puntare a rivivere, per «simpatia», quel processo di formazione del pensiero e, dunque, della soggettività dell’autore. Lì dove tale percorso, pur cercando di caratterizzarsi attraverso quel fare vuoto che è condizione per l’emergenza del pensiero filosofico, si sostanzia sempre per la sua differenza ovvero per la discrepanza tra ciò che esistenzialmente ha vissuto l’autore e ciò che ha provato il lettore.

La comprensione, da parte del lettore, dunque, non è coincidenza di prospettive, pena la trasformazione di quest’ultimo in un non-soggetto, bensì azione mimetica che si avvicina asintoticamente al centro di forza dell’autore e che individua, in tal modo, lo spazio di formazione della soggettività del lettore ovvero lo spazio della sua libertà. Sicché la comunicazione filosofica diventa quello spazio in cui l’autore cerca di dire a se stesso la propria verità metafisica, la cui comprensione mimetica da parte del lettore genera un percorso di ricerca uguale, per le fasi attraverso cui si manifesta, ma al tempo stesso opposto, per la forma che prende, a quello dell’autore.

L’attività mimetica è, per Hersch, possibile in quasi tutte le letture filosofiche, mentre per la Zambrano, una filosofia intesa come un dialogo tra autore e lettore, entrambi alla ricerca della propria vocazione, non può darsi nella filosofia sistemica che ha privilegiato la dimensione oggettiva della spiegazione, ma può darsi solo in quelle opere frutto della concreta capacità umana di patire quando si è alle prese con la realtà del tempo. Sicché, sostiene Tarantino, tale comprensione può darsi, per Zambrano, unicamente nel genere letterario della confessione in cui si stabilisce un forte intreccio tra verità e vita attraverso la narrazione e la chiarificazione dell’esperienza; lì dove tale genere restituisce quella logica relazionale, emotivamente connotata, – o direbbe Zambrano, quello «scontro amoroso» – che genera ogni possibile pensiero che è alla ricerca non tanto della conoscenza (scientifica) quanto della saggezza incarnata. Di conseguenza è possibile sostenere che, in entrambe le pensatrici, il pensiero non può scindersi da quella coloritura emotiva che caratterizza l’incontro/scontro tra l’io e il mondo, poiché è questa coloritura – o meglio, questo stupore – a generare le questioni filosofiche dell’esistenza del mondo e dell’esistenza di se stessi.

Tale configurazione che il discorso filosofico assume viene attraversata, nella seconda parte del testo recensito, mediante la comprensione della sua genesi in relazione alle figure che più hanno influenzato il percorso di ricerca delle due pensatrici, lì dove il rapporto con la tradizione si caratterizza per entrambe come una relazione complessa e per certi versi problematica. Per Marìa Zambrano, infatti, essa assume, come viene ben delineato da Luigina Mortari (2006), la forma di una critica diretta all’intera filosofia occidentale che, a partire da Parmenide, ha pensato l’essere come ciò che sempre è e che permane alla mutevolezza delle cose, riducendo, platonicamente, la verità a ciò che trascende il sensibile, a ciò che non appare ma anzi si nasconde, inducendo il soggetto, pensato cartesianamente come dimensione cogitante, a scandagliare la natura, ormai spogliata di ogni vitalità, con il fine di attribuirle una sequenzialità meccanica e prevedibile che, se positivamente conosciuta, diviene utile a quel progetto di dominio trasformativo, insito nella ragione calcolante, e che riduce drasticamente lo spazio a quella ragione poetica che, per Zambrano, è alla base di ogni costruzione di senso. Mentre, per Jeanne Hersch, la volontà zambraniana di recuperare quella ragione generativa che prende forma nel pensiero di Socrate e di Seneca non si esplicita in un’uscita dalla tradizione filosofica e in un ingresso in uno spazio espressivo che si rifà alla mistica e alla poesia, bensì Jeanne Hersch, dichiarando assolutamente legittima la pretesa della tecnicità del discorso filosofico (Hersch, 1943), pur avventurandosi in alcune prove di prosa caratterizzate da una musicalità poetica indiscutibile (Hersch, 1990, 2000a e 2005), conduce un percorso volto ad individuare quella «illusione» (Hersch, 2004a) insita in ogni filosofia. Ovvero Jeanne Hersch vuole rendere evidente come alla base di ogni pensiero filosofico, sia esso caratterizzato da una maggiore o minore sistematicità, vi è l’illusione di possedere l’essere nella sua totalità ovvero «di arrivare a cogliere l’unità di noi stessi e del mondo attraverso un processo meramente oggettivo» (p. 105), lì dove la decostruzione di questa illusione – rintracciata nella filosofia critica di Kant, nell’attenzione di Kierkegaard all’esistenza e nell’etica della finitezza di Jaspers – non vuol dire dichiarare morto il discorso filosofico, ma vuol essere un suo attraversamento al fine di vivificarlo ulteriormente, riconoscendo, nel limite della ragione umana di fronte alla trascendenza, quella libertà che rende l’uomo un’esistenza irripetibile.

In questo senso, la relazione che in Jaspers (2005), maestro di Jeanne Hersch, si esplicita tra storicità dell’essere e scacco filosofico, che consente di intravedere quelle aperture alla trascendenza, si traduce, nel pensiero della filosofa ginevrina, nella relazione tra la dimensione orizzontale del tempo e la verticalità dell’assoluto, al cui incrocio si situa il soggetto con la sua verità metafisica (Guccinelli, 2005). Ovvero lo scacco che la ragione esperisce di fronte all’essere, che si dà nella sua storicità esistenziale, evidenza quella limitatezza intrinseca alla natura umana che è condizione della stessa pensabilità della realtà: come a dire, la realtà immanente è ciò che l’uomo può comprendere solo a partire dal paradosso della sua posizione di essere separato dalla totalità a cui peraltro appartiene. Tale condizione è il simbolo di quella divisione tra storia e trascendenza che si incide nell’esistenza del singolo ossia nel suo camminare nella voragine di tale limite al fine di non sprofondare nella relatività dell’esclusiva immanenza e di non innalzarsi «angelicamente» (Hersch, 2006a) nelle astrattezze di una trascendenza impossibile, così da riconoscere, mediante la libertà, quell’accesso parziale alla verità dell’essere che si dà nella situatività dell’esistenza.

Tale immagine della libertà, che si configura come necessaria – sia nel senso di una libertà connaturata alla condizione umana e che come tale deve essere attualizzata, sia nel senso di una libertà che si fa carico di ciò che è necessario e che quindi si configura come responsabilità –, distanzia drasticamente il pensiero della filosofa ginevrina da quello di Martin Heidegger. Infatti, come evidenzia Stefania Tarantino – rifacendosi sia allo scritto herschiano Les enjeux du dèbat autor de Heidegger, dalla stessa autrice tradotto in lingua italiana, sia ai commenti effettuati su tale testo dal gruppo di ricerca (Tarantino, 2004; De Monticelli, 2004) –, una libertà che si traduce in una responsabile presenza al proprio tempo non può coincidere con l’interpretazione heideggeriana dell’inautenticità della vita quotidiana, ovvero dell’«anonimicità da cui l’esistente può uscire solo se si rivolge all’essere per la morte» (p. 127), in quanto tale visione trasforma la vita, e la cura che ad essa bisognerebbe rivolgere (Sola, 2008), in una realtà in cui ciò che è autenticamente valido è unicamente quel «processo destinale» insito nell’essere proiettati verso la morte. Lì dove, invece, per Jeanne Hersch, la libertà è il riconoscimento del limite della nascita e della morte, in funzione del quale il soggetto agisce attraverso delle costanti «prese» sulla materialità della realtà, individuando così quel senso dell’irriducibile di cui è alla ricerca e che, appunto, non coincide con la morte.

Tale visione della situatività insita nella verità metafisica – ciò che Hersch (1950) definisce «la trascendance du singulier» – e nella vocazione filosofica viene ulteriormente chiarata, da Stefania Tarantino, nella terza parte del volume, in cui analizza la concezione fenomenologica dell’ascolto in Marìa Zambrano e quella del tempo in Jeanne Hersch. Se della seconda si è già accennato in precedenza, conviene qui fare riferimento a quella paticità dell’esistenza che in Zambrano si traduce in quel sentimento della «pietà», che non è da confondersi con l’atteggiamento compassionevole di chi vuole dimostrare solidarietà affettiva nel dolore altrui, bensì è da intendersi nel significato latino della parola ossia come dovere verso gli dei o meglio come attenzione alla «giustizia umana in rapporto a ciò che è divino» (p. 107). Sicché una pietà intesa come riconoscimento di ciò che è giusto attraverso il pathos provato dall’anima vuol dire sostenere che il sacro, ovvero la radice metafisica di ciò che è irriducibile tanto all’esistenza personale tanto alla concretezza oggettuale, si viene a situare in ciò che vi è di più umano: l’anima, ossia quel pensiero incarnato nel sanguigno sentimento di stupore per la vita. In questo senso, la pietà è intimamente interconnessa a quella condizione di ascolto, di attenzione disinteressata alla fenomenicità dell’essere, che si traduce in Zambrano nello stare passivi, nel fare vuoto dentro di sé ovvero nell’abbandonare ogni prefigurazione cognitiva al fine di lasciare spazio all’apparire dell’altro e, dunque, al fine di porsi in quella disposizione accogliente verso ciò che di disperante e di meraviglioso caratterizza la vita, intesa come esilio o, per dirla con Hersch, come separazione.

In questo senso, il testo di Stefania Tarantino, nel suo continuo dialogo con le opere delle due pensatrici, permette di evidenziare come la formazione, da intendersi nel senso di processo di costruzione dell’identità del soggetto (la soggettività), sia un percorso mai terminato, ma caratterizzato dalla categoria zambraniana della «nascita» o dalla categoria herschiana della «presa»: come a dire, il nucleo vitale che siamo, per essere ciò che è, deve divenire ovvero la categoria della formazione – o sarebbe meglio dire, della formatività che porta con sé quella della praticità, intesa nel senso sopra delineato di stupore – appare come caratterizzante l’essere umano e il suo pensiero. Lì dove tale formazione, per non appiattirsi né sulla dimensione dell’educere (o del formarsi) né su quella dell’educare (o del dare una forma), deve svolgersi secondo quella relazione strutturante tra libertà e necessità, tra storia e trascendenza.

Indice

Prefazione
di Salvatore Veca

Introduzione

Parte prima: Per una pedagogia della vita o della comunicazione come “combattimento amoroso”
Vocazione filosofica e presenza al proprio tempo
L’ombra o dell’altra cosa della filosofia
L’attività filosofica come pratica di trasformazione
La mimesis e lo stupore come metodi di trasmissione filosofica

Parte seconda: La relazione alla tradizione filosofica occidentale
Rifare il cammino della filosofia
“Relatività dell’assoluto” e “coscienza del limite”
L’eredità Jasperiana nello stile filosofico di Jeanne Hersch
La responsabilità del pensare: la distanza incolmabile da Heidegger
Il “logos del Manzanares” di Ortega y Gasset e l’eredità orfico-pitagorica nello stile filosofico di Marìa Zambiano

Parte terza: Discontinuità e contraddizione. La musica come arte del tempo
L’ascolto: ricettività attiva, passività che risponde
“La musica come assenza di patria”: il tema dell’esilio
L’intersezione del tempo e la perpendicolare assoluta

Bibliografia

Bibliografia generale
Bibliografia delle opere di Jeanne Hersch
Bibliografia delle opere di Marìa Zambrano

Bibliografia

DE MONTICELLI R., Jeanne Hersch. Il dibattito su Heidegger e la posta in gioco in Ascarelli R. (a cura di), Oltre la persecuzione. Donne, ebraismo, memoria, Carocci, Roma, 2004.

GUCCINELLI R., Jeanne Hersch. Tempo e decisione in Miglio G., Fedeltà a se stesse e amore per il mondo, ETS, Pisa, 2006.

HERSCH J., Défense de la technicité en philosophie, in «Etre et pensere. Cahiers de philosopie»: L’Homme. Métaphysique et trascendance, 1, La Baconnière, Neuchate, 1943, pp 54-71.

HERSCH J., La trascendance du singulier (1948) in «Studia philosophica», vol. X, 1950, pp. 44-51.

HERSCH J., Le métier du philosophe in «Revue de Théologie et de Pilosophie», Lausanne, 1957, pp. 3-6.

HERSCH J., Temps et musique (saggi scritti tra il 1945 e il 1990), Le feu de nuict, Fribourg, 1990.

HERSCH J., Textes (1985), trad. it. di F. Leoni, La nascita di Eva. Saggi e racconti, Interlinea, Novara, 2000.

HERSCH J., Les images dans l’oevre de M. Bergson (1931), trad. it. di A. Carenzi, Le immagini nell’opera di Bergson in Bergson H., Lucrezio. Con un saggio di Jeanne Hersch, a cura di De Benedetti R., Medusa, Milano, 2001.

HERSCH J., L’illusion philosophique (1936), trad. it. di F. Pivano, L’illusione della filosofia, Bruno Mondadori, Milano, 2004a.

HERSCH J., Les enjeux du dèbat autor de Heidegger (1988), trad. it. S. Tarantino, La posta in gioco del dibattito su Heidegger in Ascarelli R. (a cura di), Oltre la persecuzione. Donne ebraismo memoria, Carocci, Roma, 2004b.

HERSCH J., Temps alternés (1942/1990), trad. it. R. Guccinelli, Primo amore. Esercizio di composizione (Temps alternés), Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2005.

HERSCH J., Èclarar l’obscour. Entretiens avec Gabrielle at Alfred Dufour (1986), trad. it. di L. Boella e F. De Vecchi, Rischiarare l’oscuro. Autoritattato a viva voce. Conversazioni con Gabrielle e Alfred Dufour, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006a.

HERSCH J., L’être et la forme (1946), trad. it. di S. Tarantino e R. Guccinelli, Essere e forma, Bruno Mondadori, Milano, 2006b.

JASPERS K., Der philosophische Glaube (1948), trad. it. di U. Galimberti, La fede filosofica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005.

KLIBANSKI R., Le philosophe et la memoire du siècle, Les Belles Lettres, Paris, 1998.

MORTARI L., Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in Maria Zambrano, Liguori, Napoli, 2006.

SOLA G., Heidegger e la pedagogia, Il Melangolo, Genova, 2008.

ZAMBRANO M., Claros del bosque (1977), trad. it. di C. Ferrucci, Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano, 1991.


L'autore

Stefania Tarantino, laureatasi in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e addottoratasi in Filosofia presso l’Università di Ginevra (Svizzera), svolge attualmente la sua attività di ricerca, presso l’Istituto di Scienze Umane, sul pensiero di Simone Weil. Fa parte del collettivo ADA (rivista online http://www.adateoriafemminista.it/) e si è da sempre interessata al pensiero filosofico femminile e della differenza attraverso lo studio e la traduzione di opere di Marìa Zambrano e Jeanne Hersch.


Link

Introduzione a Jeanne Hersch (in francese)
http://alumni.ecolint.net/authors/hersch.html

Lire Jeanne Hersch (in francese)
http://www.aidh.org/Hersch/00Hersch.htm

Fundaciòn Maria Zambrano (in spagnolo)
http://www.fundacionmariazambrano.org/

Nessun commento: