domenica 27 dicembre 2009

Bitsakis, Eftichios, La natura nel pensiero dialettico.

Gassino (TO), PonSinMor, 2009, pp. XXII+392, € 20,00, ISBN 9788890277535.
[Ed. or.: La nature dans la pensée dialectique, l’Harmattan, Paris 2001]

Recensione di Maurizio Brignoli – 27/12/2009

Storia della filosofia, Filosofia della scienza, Filosofia politica

In questo testo, edito nel 2001 in Francia, Bitsakis, fisico e filosofo, non si propone di scrivere una ‘dialettica della natura’, ma di testare la validità di questa concezione e di vedere se, sulla base della ricerca scientifica, si aprano nuove prospettive.
Sui rapporti fra scienza, ideologia e filosofia Bitsakis sottolinea come una sorta di scientismo gnoseologico, sorto soprattutto in ambito filosofico, interpreti le scienze come negazione dell’ideologia e della filosofia. Ideologie e scienze hanno in realtà influenze reciproche. Le scienze, pur essendo con la mediazione delle tecnologie, forze produttive, fanno parte della sovrastruttura e non sono pertanto libere dall’ideologia, ne sono anzi produttrici, pur dotate di una logica di sviluppo interna, si realizzano nella società e pertanto il loro sviluppo è determinato anche dalla funzione, di ostacolo o di catalizzatore epistemologico, dell’ideologia e sono subordinate agli interessi della classe dominante. Non esiste né scienza pura, né ideologia pura, ma un processo diversificato e insieme unito di conoscenza. Fra scienze e filosofia vi è un’unità storicamente determinata in quanto condividono lo stesso oggetto, il còsmos, pur con una differenza statutaria: le categorie della filosofia hanno pretese di universalità, i concetti e le leggi delle scienze vertono su realtà specifiche. Ora le scienze della natura tendono alla formulazione di leggi sempre più universali, ma la differenza con la filosofia permane perché, pur utilizzando termini comuni, che Bitsakis definisce ‘concetti quasi filosofici’ (materia, movimento, spazio, interazione, causalità, ecc.), gli scienziati li usano per denotare oggetti della ricerca, mentre i filosofi come categorie ontologiche.
Nella filosofia greca si contrappongono due correnti: gli ionici, Eraclito e poi Anassagora per i quali la natura è ‘da sé’, ingenerata e in divenire, e dall’altra parte la metafisica dell’essere eterno e immobile degli Eleati che delineano una teoria della conoscenza antiempirista e che oppongono la logica formale alla dialettica eraclitea. Gli ionici hanno posto il principio dell’oggettività e ‘aseità’ della natura (nel senso di una natura increata, causa di sé, precedente l’uomo e indipendente da questi), una filosofia fondamentalmente materialistica con l’essere inteso come divenire immanente. Al monismo materialistico di ionici e atomisti si contrappone il dualismo materia-spirito dei pitagorici, e chi vorrà trasformare il mondo in ‘puri simboli’ (Heisenberg), dove le formule matematiche possano prendere il posto del reale, troverà qui fonte d’ispirazione. Con Aristotele l’essere torna a identificarsi con la natura e la forma si realizza attraverso il movimento, proprietà inalienabile della materia. I contrari, se non possono coesistere nell’essere realizzato, possono però farlo nell’essere potenziale. In questo modo si apre la via alla comprensione del divenire superando il concetto formale della contraddizione. Se si tralascia la concezione teleologica del movimento, l’entelechia aristotelica si presenta come un principio dialettico.
Bitsakis sottolinea come fra i dialettici antichi e Hegel non vi sia il vuoto, il nominalismo di Duns Scoto è una prima espressione di materialismo, nel panteismo di Bruno e Spinoza si cerca di superare la contraddizione materia-spirito spesso a favore della prima, per Cartesio il movimento è una proprietà del mobile e non una sostanza, ed è una caratteristica generale della materia, il calcolo infinitesimale di Leibniz e Newton è un’opera dialettica. Anche la scienza meccanicistica mantiene un’oggettività della natura (le leggi sono indipendenti dal soggetto) pur negandone l’aseità (le leggi della natura e la natura stessa sono poste da Dio); realismo scientifico e concezione teologica coabitano nella concezione meccanicistica. In Hegel la natura non è una realtà in sé. Nonostante tutto sia dialettico e vi sia quanto meno una dialetticità nella natura, malgrado ciò, questa, in quanto alienazione dell’idea, è suscettibile solo di una perpetua ripetizione. Nonostante il principio teleologico che mina la dialettica, Hegel rimane comunque attuale: ha criticato l’antistoricità del materialismo meccanicistico e ha aperto la strada per comprendere la storicità della natura.
La natura per Marx è caratterizzata da oggettività e aseità e si presenta come categoria filosofica ed economica e come base dell’antropologia: una totalità identificata con l’essere. L’uomo è un animale sociale e il lavoro è relazione fisica con la natura mediata dai rapporti di produzione. Le contraddizioni immanenti al capitalismo spingono all’estremo il divorzio fra l’uomo e la natura; è l’aspetto umano del problema ‘ecologico’ dimenticato dalla maggioranza dei movimenti ecologisti: non si può scindere la storia della natura dalla storia dell’uomo.
Fra Sette e Ottocento fisica, geologia, meccanica celeste, cosmologia e biologia scalzano la statica concezione meccanicistica del mondo. A partire dai dati scientifici dell’epoca, Engels cerca di elaborare una prima, e frammentaria, versione di una dialettica della natura. Quando Engels afferma che della vecchia filosofia resta solamente la dottrina del pensiero e delle sue leggi è in contraddizione col suo progetto, visto che la Dialettica della natura è un saggio sulla teoria dell’essere e la contraddizione è categoria ontologica e non solo epistemologica o logica. Engels non combatte solo la concezione spiritualistica del primo impulso (oggi incarnata dalla teoria del big bang), ma anche la concezione allora dominante che separava materia e movimento; la teoria della relatività confermerà poi le sue intuizioni. Engels infine mette in risalto la storicità delle scienze e delle leggi, a ogni epoca deve corrispondere una dialettica della natura conforme all’insieme delle conoscenze e della pratica sociale.
Fra il XIX e il XX secolo il campo elettromagnetico, la teoria atomistica, le idee quantistiche e la teoria della relatività distruggono la concezione meccanicistica del mondo. Molti fisici di fronte alle nuove scoperte giungono a conclusioni positiviste o idealiste (Poincaré) e molti interpretano il superamento del meccanicismo come scomparsa della materia approdando ad una conclusione solipsistica, ma anche scettica, agnostica, fideistica, mistica, circa la conoscibilità del loro stesso oggetto d’indagine. Lenin deve fronteggiare un attacco alla teoria dell’essere e della conoscenza materialistica e sviluppa la teoria engelsiana del ‘riflesso’ che mette in risalto l’oggettività e l’anteriorità della natura rispetto al soggetto conoscente stabilendo come la verità possieda una contropartita ontica. Lenin riesce a evitare le due deformazioni opposte riguardanti il carattere delle leggi naturali: il meccanicismo che le considera assolute e l’agnosticismo che le interpreta come meri prodotti dell’intelligenza umana. Le leggi invece sono oggettive nel senso che riflettono una realtà indipendente dall’uomo e sono relative in quanto esprimono solo alcuni aspetti dell’interdipendenza universale.
All’epoca di Newton la materia era identificata con la massa, e l’energia era considerata una sostanza non materiale, ma la relatività ristretta è stata interpretata come identificazione di massa ed energia aprendo la strada ad un nuovo energetismo e quindi ad un nuovo idealismo e fideismo. La massa non è la materia, ma la misura di uno dei suoi attributi, l’inerzia. L’energia non è una sostanza separata, ma è la misura di un attributo contrario e complementare della materia, il movimento, e la relazione di Einstein esprime il loro rapporto quantitativo. Ciò che sembra ‘energia pura’ è solo forma di materia in movimento.
Superando il quadro spazio-temporale assoluto di Galilei e Newton la relatività ha condotto al relativismo, gnoseologico e ontologico, gli scienziati abituati ad usare solo la logica formale. Nel periodo di passaggio dalla fisica classica a quella quantistica e relativistica, Paul Langevin (che dal punto di vista filosofico approderà al materialismo dialettico) è, con Einstein (filosoficamente parlando vicino al materialismo spinoziano), sostenitore di una realtà oggettiva indipendente dal soggetto. L’ottica ondulatoria e l’elettromagnetismo hanno fatto saltare il quadro della fisica newtoniana. Spazio e tempo assoluti spariscono in quanto hanno un carattere relativo legato al sistema di riferimento. Fisici e filosofi, che hanno visto solo questo aspetto della relatività ristretta, si sono orientati verso il relativismo: le grandezze fisiche dipendono dal sistema di riferimento e quindi dall’osservatore. Da qui soggettivismo e agnosticismo. Come sottolineato da Langevin, le grandezze fisiche non dipendono dall’osservatore, ma dal sistema di riferimento che non presuppone la presenza di un osservatore. La teoria della relatività ha dimostrato il carattere relativo dello spazio e del tempo presi separatamente e il carattere relativo di massa ed energia, ma con una sintesi dialettica ha creato una nuova grandezza invariante, indipendente cioè dal sistema di riferimento: il quadrivettore (elemento di uno spazio vettoriale dotato delle quattro componenti, che esprime l’unità dello spazio e del tempo in una unica entità che è elemento di una molteplicità a quattro dimensioni) energia-impulso (le tre componenti spaziali corrispondono alla massa e quella temporale all’energia). La teoria della relatività ha dimostrato il carattere relativo dello spazio e del tempo presi separatamente e il carattere relativo di massa ed energia, ma con una sintesi dialettica ha creato una nuova grandezza invariante, indipendente cioè dal sistema di riferimento. La nuova grandezza relativistica non è dunque relativa. L’esistenza di grandezze invarianti, indipendenti dal movimento o dal sistema di riferimento, è un argomento in favore non solo dell’oggettività dell’essere, ma anche della conoscenza che ne abbiamo.
La formula di Einstein è stata interpretata come una relazione di equivalenza fra massa ed energia o, peggio, fra materia ed energia. Si è quindi arrivati a immaginare un universo ‘smaterializzato’; una nuova forma di energetismo destinata ad approdare al misticismo (Teilhard de Chardin). La massa è in realtà un concetto scientifico che misura l’inerzia e l’energia non è una sostanza, ma la misura del movimento. Questi due attributi della materia sono legati dalla relazione quantitativa di Einstein. La materia invece non è un concetto scientifico, la sua conservazione è un principio ontologico non provato dalla legge della conservazione della massa (o dell’energia) di un sistema chiuso. I principi filosofici non possono essere dimostrati, ma possono essere conformi, o in contraddizione, con i risultati delle scienze.
Langevin non rifiuta né causalità, né determinismo e vede nella meccanica quantistica una nuova forma: il determinismo statistico. Diversamente da Bohr, Heisenberg, Dirac, Pauli, ecc. che, sottolinea Bitsakis, con un’interpretazione meccanicistica della microfisica sono arrivati a concludere che causalità e determinismo non siano validi nei fenomeni atomici, che le microparticelle dispongano di libero arbitrio, e che la realtà si riduca a formule matematiche.
Secondo le conclusioni di Bitsakis una dialettica della natura presuppone l’oggettività e l’aseità della natura, l’unità della materia e del movimento. Le scienze odierne possono costituire il fondamento di una concezione dialettica della natura, oggi sappiamo che c’è una storia delle forme fondamentali della materia. D’altro canto la fisica ha dimostrato l’esistenza di forme di determinazione che vanno oltre la fisica meccanicistica, una dialettica concreta tra caso, determinismo e necessità che scaturisce non solo dalla microfisica, ma anche dalla genetica. Le scienze naturali hanno evidenziato i limiti della logica formale e la logica dialettica si impone come la sola capace di adeguarsi ai modelli del reale. La tesi (filosofica) dell’oggettività e dell’aseità, se impossibile da provare è però conforme alle scienze della natura e alla pratica, si tratta qui di un’oggettività ontica la cui accettazione implica la ricerca delle relazioni col soggetto, nell’oggettività relativa, storicamente determinata dalla conoscenza. Le leggi della natura costituiscono una relazione oggettiva e interna della realtà, ma non esaustiva e nemmeno eterna.

Indice

Premessa dell’editore
Introduzione: scienza, ideologia e filosofia
La natura nella filosofia greca
La filosofia della natura di Aristotele
La dialettica di Hegel e la critica marxiana
La natura nell’opera di Karl Marx
Karl Marx, precursore dell’ecologia
Engels e la Dialettica della natura
Lenin, il materialismo e la fisica
Paul Langevin: dalla fisica al materialismo
Nuove prospettive per la dialettica della natura
A titolo di epilogo: L’uomo nella natura
Postfazione di S. Tagliagambe


L'autore

Eftichios Bitsakis (Creta, 1927), dopo aver partecipato alla resistenza greca e alla guerra civile, ha insegnato fisica teorica e filosofia della scienza a Parigi, Atene e Jannina. Fra le sue opere principali: Fisica contemporanea e materialismo dialettico, Lavoro liberato, Milano 1974; Le basi della fisica moderna, Dedalo, Bari 1992; Le nouveau réalisme scientifique, l’Harmattan, Parigi 1997.

mercoledì 23 dicembre 2009

Ivaldo, Marco, Libertà e moralità. A partire da Kant.

Saonara (PD), Il prato, pp. 226, € 15,00, ISBN 9788863360691

Recensione di Antonella Ferraris - 23/12/2009

Storia della filosofia (moderna), Etica

Il filo conduttore del libro di Marco Ivaldo è la questione della libertà, un tema fondamentale nel pensiero di Kant, non sempre approfondito e compreso appieno. La legge morale è il fondamento di conoscenza della libertà, la quale a sua volta costituisce in noi la modalità d'essere della legge morale.
Il libro di Ivaldo è diviso in due parti, a loro volta costituite di tre capitoli ciascuna, veri e propri saggi sviluppati in piena autonomia, ma con fili conduttori interdipendenti. Si tratta di testi composti in momenti diversi, pubblicati in varie sedi tra il 1990 e il 2008. La prima parte verte su Kant e sul problema della libertà in relazione a questo autore; la seconda parte trae spunto dalla filosofia di Kant per trattare temi di etica contemporanea.
Il primo saggio, Percorsi della Ragion Pratica: Kant, Reinhold, Fichte, confronta la filosofia morale di Kant con quella di Reinhold e Fichte. Per Kant la legge morale è un fatto della ragione, non può cioè essere colto mediante un’intuizione perché è meta – sensibile. Si parla infatti di ragion pura pratica perché agisce senza la mediazione dell’inclinazione.
Tra i contemporanei di Kant, sia Reinhold sia Fichte aggiungono una serie di precisazioni alla nozione di ragion pura pratica e di legge morale. Per Reinhold la fonte della morale sta nella natura attiva della ragione; distingue tra ragion pratica e volontà, una distinzione che secondo lui Kant non sa adeguatamente precisare. La ragione prescrive alla volontà la legge morale, universale e necessaria, che solo la libertà della volontà può accettare o rifiutare. Per Fichte la volontà è l’assoluto tendere della coscienza verso l’assoluto, un impulso accompagnato dalla riflessione, ma non da un concetto, come sostenuto da Kant, piuttosto da una visione/idea.
Il secondo saggio, La libertà e il problema del male in Kant, è analizzata la questione del male come elemento oscuro e in relazione alla libertà. Il tema viene affrontato da Kant in diverse opere e con esiti diversi, tuttavia un dato rimane costante ed è la distinzione tra libertà empirica e libertà morale. La prima è l'arbitrio (Willkür) può essere sia appetizione sensibile, sia il razionale (e tradizionale) libero arbitrio; la seconda è la volontà (Wille) razionale pura, che sua volta determina l'arbitrio. In conseguenza dall'arbitrio derivano le massime, cioè la libertà del poter fare, mentre dalla volontà deriva la legge morale, che è necessaria perché non si riferisce all'azione, ma alla legislazione universale. Kant rifiuta la cosiddetta libertà di indifferenza; l'arbitrio infatti non è indifferente alla legge morale - occorre ricordare, a questo proposito, che Kant distingue tra l'azione e l'ambito trascendentale. Delle opere di Kant, quella che affronta il tema del male radicale è La Religione entro i limiti della sola ragione: qui Kant cerca l'aspetto razionale all'interno dell'esperienza religiosa. La ragione umana, in ambito morale, può estendersi sino a certe idee trascendentali (grazia, miracoli, misteri, effetti della grazia), che non sono conoscenze, né condizionano l'assunzione di massime, ma determinano "la fede riflettente", il cui vaglio critico impedisce il fanatismo che ha contraddistinto i secoli passati. La religione poi rappresenta in modo naturalistico il trascendente per renderlo comprensibile. Qui l'origine del male è ricondotta tanto nella sfera della libertà (che è una forma qualificante dell'uomo), quanto nella natura stessa dell'uomo, che si integra nella libertà se depurata del suo naturalismo. In altre parole alla sfera della libertà va ricondotta la natura dell'uomo, intesa come possibilità soggettiva di un uso della libertà stessa sotto una legge morale, la quale precede l'azione. In questa ottica il male è una possibilità ontologica, cioè ha un'origine razionale nella libertà. Da qui il rigorismo morale di Kant assume una nuova connotazione: l'uomo è originariamente disposto verso il bene, ma è anche tendente al male.
Il terzo saggio, Volontà e arbitrio nella Metafisica dei Costumi, riprende la distinzione tra volontà e arbitrio già presentata precedentemente. Il tema è quello della morale concreta, fatto proprio da contemporanei come Reinhold o Creuzer, che criticavano la ragion pratica di Kant in nome dell'esito finale della moralità, à di applicarla all'azione concreta. La Metafisica dei Costumi è scritta da Kant con questa finalità in mente, la possibilità di collegare i principi morali all'antropologia. In questo modo, oltre al comando del dovere, Kant indaga fenomenologicamente anche l'appetizione, vera analisi dell'animo umano che si rapporta alla legge morale non solo con la ragione, ma con una varietà di atteggiamenti: il sentimento morale, l'amore per il prossimo, la coscienza morale e il rispetto di sé. Questa facoltà di appetire è sia inferiore, cioè volta al piacere (a qualsiasi tipo di piacere, pratico o contemplativo), sia superiore, cioè secondo concetti. In questo caso ritorna la distinzione tra arbitrio e volontà. Il primo è legato alla presenza di un oggetto, la seconda no.
L'espressione classica "libero arbitrio" significa per Kant un arbitrio determinato dalla Ragion pura pratica, mentre l'arbitrio semplice è determinato dall'inclinazione. Il libero arbitrio non è indifferente alla legge morale, perché è piuttosto quest'ultima che "rivela l'arbitrio come un arbitrio libero" (p.121); è la facoltà delle massime, ed è in relazione tanto con l'inclinazione al male, quanto con la disposizione al bene. Questa concezione, tra l'altro, avvicina Kant tanto a Reinhold quanto a Fichte; la Metafisica dei Costumi così come il tentativo più compiuto del filosofo di Königsberg costruire una moralità concreta per l'uomo.
La seconda parte del libro è dedicata ad un "tentativo" - così sostiene l'autore - di utilizzare la filosofia trascendentale di Kant per cercare di rispondere ad interrogativi nell'ambito della ricerca etica, che spaziano dal tema della libertà a quelli di intersoggettività e natura umana.
Il primo saggio, Libertà della volontà, autonomia, teonomia, 'affermazione, successivamente ripetuta, che l'essere non solo comprende ma vuole, affermazione che Lauth, filosofo di riferimento per l'autore, interpreta come unità di gnoseologia e metafisica. La determinazione etica è tuttavia quella iniziatrice, determina la libertà chiamata ad un compito morale. La virtù implica la sua realizzazione pratica nel mondo interpersonale e naturale; ma esiste sempre uno scarto tra l'agire secondo una normativa e i risultati fattuali. La domanda che si pone l'uomo, allora, è dove si colloca la sua speranza. La filosofia della religione aiuta a sottolineare l'autonomia dell'uomo. In Fichte, ad esempio, la religione è il punto di vista dell'io della coscienza, possibile solo per una scelta morale di libertà. Questa autonomia non contrasta con la teonomia, la legge di Dio: Dio è volontà pura del bene, assolutamente santa, è Bene realizzato pienamente, ed è ciò che pone la legge morale.
Il secondo saggio, L'intersoggettività come relazione etica,è il più fortemente radicato nella filosofia contemporanea. L'intersoggettività viene analizzata, da Husserl e da Heidegger, in due modi differenti: di tipo esistentivo nell'Heidegger di Essere e Tempo, fenomenologia ontologica in Husserl. In entrambi i casi l'intersoggettività è una struttura costitutiva dell'essere come essente. La posizione dell'autore, in contrapposizione a quella di Lévinas che viene in seguito discussa, è quella di una ontologia eticamente qualificata, che affonda le sue radici nell'etica di Kant, e in particolare in due qualità presenti nelle formulazioni dell'imperativo categorico, l'universalità e il considerare l'umanità sempre e solo come fine. In tal modo nell'etica di Kant è intrinsecamente presente una dimensione intersoggettiva; come in Fichte, nel momento in cui la posizione dell'io - puro è la posizione di una pluralità di io che si riconoscono reciprocamente in quanto esseri morali. In questo ambito Ivaldo analizza tre posizioni differenti: Apel, Buber e infine Lévinas.
L'approccio di Apel vuole superare la posizione trascendentale classica, secondo la quale la vera ragione è solo quella scientifica. In questo modo risulta impossibile fondare l'etica. Alla struttura trascendentale si aggiunge il pragmatismo alla Peirce: l'etica è un fatto della ragione se risulta dall'autoriflessione trascendentale. Nel sistema comunicativo di Apel i principi sono di ragion pratica e teoretica, e le regole di condivisione della comunicazione chiare; il riconoscimento reciproco avviene poiché gli individui sono persone in senso hegeliano.
Il tema di Buber è quello della reciprocità; l'io è sempre in relazione con altro: con gli uomini, con la natura, con le entità spirituali, tra cui Dio. La relazione con la natura è oscura, si rimane sempre ai margini, la relazione con gli uomini è manifesta (è il discorso), la relazione con le entità spirituali non è percepita, ma esiste la "chiamata". Oltre a queste esiste una relazione ulteriore, a priori, il cosiddetto tu innato, che rappresenta la preminenza ontologica della relazione umana Ich - Du su quella tra soggetto e cosa Ich - Es.
Lévinas infine espone il tema della responsabilità dei soggetti non come semplice attributo della soggettività, ma come elemento costitutivo di essa. Essere responsabile rinvia ad una dimensione diversa da quella spazio - temporale: il soggetto non è per - sé, ma per - un - altro, e questa relazione non è in equilibrio, il dare prevale sul ricevere; il che è l'attuazione eticamente concreta della giustizia. Questo rapporto uomo - con - uomo è un libero compito etico che ci si assume senza attende una risposta.
Nel saggio finale, Persona umana e Natura umana, viene sinteticamente delineato il tema del rapporto tra natura e persona secondo due possibilità differenti e opposte, una di tipo sostanziale (le determinazioni invariabili dell'essere umano), l'altra di tipo esistenziale (l'uomo si determina, per dirla con Sartre, in ciò che fa). Nel primo caso non si può descrivere l'aspetto estatico dell'esistenza, nel secondo manca un apporto ontologico. Secondo Ricoeur le due prospettive possono integrarsi se anziché partire dalla natura, si parte dall'ipse, cioè dalla persona, che sarebbe il primato della ragion pratica di cui parla Kant. In Kant, l'io penso, atto costituente la conoscenza, è anche io voglio. Questa posizione, secondo Lauth, è presente nel Cartesio del cogito, filosofo tedesco interpreta non come pensare, come ponderare, il punto iniziale rispetto al compito di cogliere la verità; nel dir di sì a quest'ultima, ossia nell'assenso della volontà, il cogito attua se stesso. stesso può dire sia in Kant sia in Fichte. Se la persona si determina come relazione, come un appello alla libertà e alla ragionevolezza, questo stesso appello presuppone un appellante dello stesso tipo dell'appellato. La libertà e la ragionevolezza, secondo Lauth, individuano la natura della persona. L'individuazione può essere spiegata dalla filosofia di Fichte o come persona individuata in un corpo, o come carattere, prodotto naturale determinato dalla propria autoconservazione, cui si aggiunge un in sé spirituale, la libertà. In questo modo, se si ritorna alla definizione di natura, o questa è distinta dalla coscienza, come insieme dei fenomeni, e allora la persona non è un essere naturale, ma una relazione fondante di tipo pratico; o è il modo necessario con cui l'ipse sua propria una determinazione essenziale.
In questo breve resoconto ho cercato di enucleare l'idea fondamentale da sei saggi molto densi, rivolti ad un lettore che già conosce in modo approfondito il pensiero di Kant e il primo idealismo tedesco, nonché una vasta area del pensiero fenomenologico contemporaneo. Non si tratta di un'opera introduttiva, ma dell'analisi di un tema apparentemente noto, ma in effetti non sempre approfondito in tutte le sue possibilità. Quella che ritengo una problematicità del testo è la sua frammentarietà, più evidente nella seconda parte, dove il filo conduttore costituito dalla filosofia pratica di Kant risulta più debole. I tre saggi iniziali, per chi, come me, proviene da un'interpretazione kantiana correlata al pensiero di Bobbio, costituiscono davvero un punto di vista interessante e originale.

Indice

Premessa
Parte Prima: Intorno a Kant
Percorsi della Ragion Pratica: Kant, Reinhold, Fichte
Libertà e il problema del male in Kant
Volontà e arbitrio nella Metafisica dei Costumi
Parte Seconda: Prospettive di Etica
Libertà della volontà, autonomia, teonomi
L'intersoggettività come relazione etica
Persona umana e Natura umana

L'autore

Marco Ivaldo è professore ordinario di Filosofia morale presso l'Università degli studi "Federico II" di Napoli, Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”. Membro del consiglio di direzione della rivista “Annuario di filosofia. Seconda navigazione” Guerini, Milano). È attualmente membro della presidenza della “Internationale J. G. Fichte-Gesellschaft”. I suoi studi vertono sulla filosofia tedesca moderna (Leibniz, Humboldt, Jacobi, Kant, Fichte), con particolare attenzione alle questioni e alle prospettive sistematiche della filosofia trascendentale e dell’etica e della filosofia della religione. Tra le sue pubblicazioni negli ultimi anni: “Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale della monadologia” (Guerini e Associati, Milano 2000); “Introduzione a Jacobi” (Laterza, Roma-Bari 2003); “Storia della filosofia morale” (Editori Riuniti, Roma 2006).

sabato 5 dicembre 2009

Petrosino, Silvano, Jacques Derrida. Per un avvenire al di là del futuro.

Roma, Studium, 2009, pp. 103, € 12,00, ISBN 9788838240638.

Recensione di Pietro Camarda – 05/12/2009

Storia della filosofia (contemporanea), Filosofia teoretica (metafisica, ontologia), Etica

E se la filosofia di Derrida fosse “un’infaticabile ed appassionata interrogazione sull’eventualità dell’evento, o forse meglio come un’approfondita indagine sulle condizioni di possibilità […] di un pensiero dell’evento in quanto evento” (p. 11)?
Il testo di Silvano Petrosino, inscrivendosi nell’esclusivo catalogo delle monografie dedicate a Derrida, pur presentandosi sotto una veste ridotta e maneggevole, ma rivelandosi di una densità che rispecchia l’imponente mole e le molteplici deviazioni dell’opera del filosofo francese, si propone di fornire un contributo critico alle diverse prospettive interpretative sulla riflessione di Derrida. L’intento di Petrosino è di fare emergere la cifra stessa del pensatore francese, secondo una linea di lettura che esibisca la possibilità di ritracciare l’opera derridiana a partire da un’esperienza dell’evento come pensiero, come tema guida che, costituendo lo snodo concettuale che tesse lo sviluppo di tutta l’argomentazione, ci immerge nella riflessione di Derrida.
Nell’introduzione, Petrosino dichiara il suo intento di “presentare in forma sintetica la riflessione di Jacques Derrida” (p. 9), conferendo al termine sintetico sia il senso di parziale, dal momento che si presterà più attenzione ad alcuni temi, tralasciandone altri, sia quello del “raccogliersi attorno a ciò […]” che nel testo viene individuato “come l’essenziale che si agita al fondo dell’intera riflessione del filosofo francese” (p. 10).
Quest’avvertenza si fonda sulla convinzione dell’autore che la filosofia di Derrida non sia una forma di problematicismo, né espressione del nichilismo contemporaneo.
La lettura dell’opera di Derrida, tenendo conto del movimento di riapertura e rilancio proprio della decostruzione, si propone di rispondere alle domande sollevate dalla stessa riflessione derridiana: “quali sono le conseguenze (filosofiche, politiche, etiche, sociologiche, ecc.) che un termine/concetto come quello di «evento» impone di trarre? O anche: che cosa significa e come è possibile essere rigorosi con un termine/concetto come quello di «evento»? O ancora più radicalmente: come il modo d’essere dell’evento obbliga a ripensare la natura stessa del logos e la forma di razionalità ad essa adeguata?” (p. 13).
I quattro capitoli in cui è strutturato il testo ritessono la riflessione di Derrida a partire da orizzonti concettuali che, comprendendone l’intero pensiero, propongono una linea di ricerca quanto mai aperta al moltiplicarsi delle relazioni e delle interpretazioni, articolata, ogni volta, secondo lo sfondo dell’unità ricercata. Nel tentativo di rileggere il pensiero di Derrida attraverso il concetto di evento, lo sforzo di Petrosino si traduce nella necessità di una strategia ermeneutica che coinvolge l’intera opera del filosofo francese, mettendone in questione gli elementi fondamentali.
Il primo capitolo, orientandoci a una lettura della vita e di alcune opere del filosofo francese, è il tentativo di attraversare l’intera parabola esistenziale di Derrida, rivelandone il movimento dehors/dedans rispetto ad un milieu di formazione quanto mai eclettico, tanto che Petrosino non ha potuto fare a meno di prendere in considerazione aspetti decisivi della riflessione derridiana, identificati come “temi importanti” per un’adeguata comprensione dell’opera del filosofo francese: “Derrida e l’ebraismo”; “Derrida e l’America”; “Derrida e la letteratura”; “Derrida e la psicoanalisi”.
Nel secondo capitolo viene messo in risalto il tema della scrittura come risultato dell’analisi incrociata di essere e segno. A partire dalla “complicazione originaria dell’origine”, che guida l’intera opera del filosofo francese, Petrosino traduce in domanda l’affermazione derridiana secondo cui “il segno è all’inizio”. Attraverso il concetto di segno, indagato da Derrida seguendo Husserl come punto di riferimento, si giunge all’affermazione che non esiste nessuna idealità senza iterabilità e quindi nessuna presenza ideale al di fuori del raddoppiamento/ripetizione. Questo significa che la ragione non potrà più essere pensata (forse non ha potuto mai esserlo) come pura e che Husserl si muove tra due principi: “quello del lucido riconoscimento della necessità di fatto del rinvio al linguaggio e più precisamente all’iscrizione mondana, e quello della decisa affermazione di diritto della non essenzialità del segno e della grafia” (p. 29). Ma allora, come si fa esperienza del linguaggio? Heidegger avrebbe risposto: nella parola pura (della poesia); secondo Derrida, fin dal principio, nella contaminazione della scrittura. Tale prospettiva esibisce la possibilità di pensare l’esperienza reale a partire dal piano cui dà vita la scrittura, orizzonte in cui si fa esperienza dell’esercizio del pensiero. Allora il segno, e dunque il linguaggio, si configura come lo spazio dell’istituzione, ovvero come luogo della (im)posizione della differenza che si fa spazio come condizione della possibilità del segno e quindi del linguaggio tutto. La scrittura, infatti, custodisce le due caratteristiche della dinamica differenziale: il luogo, la permanenza del tratto e il suo superamento, il testo. Allora la scrittura dovrebbe essere riscritta come “archi-scrittura” cioè movimento della différance, per marcarne il carattere istitutivo e quindi imprescindibile per l’esperienza in quanto testo. Ecco perché “non c’è fuori-testo”.
Poi, se nel segno c’è disseminazione, cioè allontanamento dal presente (soggetto, intenzionalità del soggetto) e quindi esposizione al campo della possibilità (perfino della distruzione), allora la scrittura si costituisce secondo una sua propria “deriva essenziale”, la scrittura sfugge a qualsiasi possibilità di dominio, non ritornando mai a sé fino a perdersi nella moltiplicazione: non è se non numerosa, ha vita, ogni volta, nella morte.
Ancora, se vi è segno, allora vi è destinazione, cioè una trama di rinvii che, secondo un incontrollabile movimento di a-destinazione (o destinerrance), si fa apertura dell’evento dell’essere e dell’essere come evento. Infatti, come la lettera (luogo del confronto derridiano con la psicoanalisi) “può sempre non arrivare a destinazione sia perché in quanto «incisione» può sempre distruggersi e andare in pezzi (l’istituzione può cadere ed essere distrutta: istanza della finitezza e della materialità relativa ad un soggetto che è sempre «finito e mortale»), sia perché in quanto «missiva» può sempre essere deviata da un destinatario errato, illeggibile o che ha cambiato indirizzo” (p. 47), la destinazione, come forma della disseminazione, avviene perché ci si rivolge all’altro, quindi si è già, da sempre e per sempre, secondo il modo d’essere dell’altro, presi in un’eccedenza del logos, tessuta dalla scrittura come istituzione, disseminazione e destinazione, alla quale non si può sfuggire.
Il terzo capitolo, leggendo la storia della metafisica come logocentrismo, ovvero in quanto contraffazione cosciente, chiusura forzata da parte del soggetto della scena della scrittura, secondo la determinazione dell’essere dell’ente come presenza, denuncia ogni forma di controllo e dominio (politico) da parte del soggetto su questo ente fino a renderlo un oggetto. “Il logocentrismo sarebbe quella posizione di pensiero che pensa e pratica il logos solo come centro, che pone al centro il logos solo perché (per dominare l’angoscia ed esercitare un controllo) pensa e pratica anticipatamente il logos stesso come centro” (p. 52). Ecco apparire la différance ovvero “una specie di dispositivo strategico aperto, sul suo proprio abisso, un insieme non chiuso, non chiudibile e non totalmente formalizzabile” (pp. 55-56) che, istituisce lo spazio di un “tra” all’interno dell’identità mettendola in movimento, desedimenta così la questione della differenza ontologica heideggeriana, facendone la tracciatura del suo stesso differire, fino a distruggere il toglimento hegeliano, disarticolando il movimento inglobante e rilevante della dialettica. In virtù di questa operazione, il (non) termine e il (non) concetto di différance non possono che ricadere all’interno dei termini/concetti che il filosofo francese qualifica come “indecidibili”, in quanto possono essere intesi secondo modi diversi, non per difetto, ma per l’impossibilità di una loro determinazione certa. Si giunge così al rilancio proprio della riflessione derridiana: la decostruzione che “non coincide mai con una «distruzione», semmai con un processo di smontaggio finalizzato a una comprensione più profonda e consapevole della costruzione stessa” (p. 65). Tale atteggiamento implica sempre un doppio gesto: da un lato la fase del rovesciamento e dall’altro quella dell’irrompente emergenza di un nuovo concetto che non si lascia comprendere nel regime anteriore. Non è un metodo, ma una pratica propria del pensiero che se è, lo è solo operativamente.
Il quarto e ultimo capitolo si concentra sulle tematiche etico-politiche (preponderanti a partire dalla metà degli anni Ottanta) della riflessione derridiana, nelle quali Petrosino rinviene il segno del pensiero heideggeriano e levinasiano. Il rinvio a Heidegger è in relazione al concetto di finitezza che Derrida così trasforma: “solo un essere finito e mortale […] può essere responsabile, solo un essere definito da una «finitezza infinita» può compiere una decisione autenticamente responsabile; al tempo stesso: laddove vi è decisione e responsabilità vi è sempre un soggetto finito e mortale” (p. 72). La riflessione derridiana si delinea come una interrogazione sulle condizioni di (im)possibilità dell’evento inteso come apertura dell’evento dell’avvenire e dell’avvenire dell’evento. Ma quali conseguenze porta con sé un tale pensiero? La prima, secondo Derrida, è la responsabilità (nei confronti della natura del logos), come forma affermativa dell’aporia, che insisteva nella necessità dell’esperienza stessa come resistenza interminabile, quindi come “riapertura e rilancio del possibile” (p. 79). Ma “la legge del «possibile» è l’«ancora» che detta la sua legge” (p. 79), cioè l’impossibile come “estrema possibilità di «un pensiero dell’affermazione che non si arresta alla perdita»” (p. 80), producendo così un “continuo risveglio” che rende non semplicemente attualizzabile, effettuata, compiuta una potenza, ma è invece una possibilità continuamente minacciata e non dipendente da condizioni di possibilità, tanto più esposta all’evenemenzialità dell’evento. L’impossibilità diventa la condizione di possibilità dell’evento, i cui nomi potrebbero essere il messianico (come esposizione alla sorpresa assoluta dell’apertura all’avvenire o alla venuta dell’altro) e chôra (come il luogo di una resistenza infinita, di un residuo neutro infinitamente impassibile), nomi dell’av-venire del “vieni!”, come impegno all’invenzione dell’altro.
Il testo, secondo il percorso intessuto sapientemente da Silvano Petrosino, articola abilmente gli snodi concettuali che modulano la riflessione di Derrida seguendo il tema dell’evento, ritagliando uno spazio di riflessione teoretico e insieme etico-politico del versante evenemenziale come sottotraccia di un cammino di pensiero marcato dal rapporto irriducibile con l’alterità.

Indice

Avvertenza 
Introduzione 
I. La vita e alcune opere 
II. Essere e segno: la scrittura 
III. Essere e politica: il logocentrismo 
IV. Essere e tempo: «Vieni!» o dell’avvenire 
4.1 Aporie – 4.2 Il possibile e l’impossibile – 4.3 Messianico e Chōra.Indicazioni bibliografiche 
Indice dei nomi


L'autore

Silvano Petrosino (1955) insegna Semiotica e Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano e Piacenza. Studioso del pensiero contemporaneo si è occupato prevalentemente della riflessione filosofica sul segno e sull’unicità a partire dall’esame delle opere di Husserl, Heidegger, Lévinas e Derrida. Tra i suoi scritti ricordiamo: La verità nomade. Introduzione a E. Lévinas (Milano 1980, Paris 1984);Visione e desiderio (Milano 1992); Jacques Derrida e la legge del possibile. Un’introduzione (2° ed. Milano 1997, Paris 1984); Lo stupore (Novara 1997); Il dono (in collaborazione con P. Gilbert, Genova 2002, Bruxelles 2003); Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio (Genova 2003); Piccola metafisica della luce (Milano 2004); Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia non è il business (Milano 2008).