venerdì 8 gennaio 2010

Andrea Guardo, Il Mito del Dato.

Milano, Mimesis, 2009, pp. 158, € 15,00, ISBN 9788884839053.

Recensione di Sarin Marchetti - 08/01/2010

Filosofia analitica

Il libro di Andrea Guardo si apre con una perentoria dichiarazione d’intenti: mostrare come l’immagine della mente e della normatività che John McDowell presenta in alcuni dei suoi lavori non sia difendibile. Prendendo come paradigmatico il problema di come una percezione può giustificare l’utilizzo di una parola o la formazione di una credenza, l’autore si interroga sul legame tra esperienza, significato e normatività. Il tema è quello del rapporto tra mente e mondo, e quella affrontata nel libro rappresenta una sua possibile articolazione: quale ruolo hanno gli episodi mentali nella formazione del significato che possono acquisire i nostri proferimenti e le nostre pratiche di conoscenza e azione? L’apertura crea molte aspettative, non tutte esaudite a fine lettura. Il testo è denso e interessante, e tuttavia non sempre preciso, accurato e immaginativo: cerchiamo di capire perché.

L’autore si muove su due livelli d’analisi: uno metodologico, o meta-filosofico (p. 149), e uno sostantivo a esso propedeutico: il primo si interroga sulla connessione tra filosofia della mente e analisi del significato e della normatività, mentre il secondo tenta una difesa di una particolare concezione di queste nozioni. Questo secondo livello occupa gran parte del libro e costituisce l’obiettivo primario delle argomentazioni dell’autore, mentre il primo rimane sullo sfondo pur tuttavia agendo come guida teorica all’indagine di secondo livello. McDowell è considerato un esempio eccellente di una concezione platonista delle nozioni di significato e regole, posizione sostantiva che l’autore usa come bersaglio critico per articolare la propria: il platonismo di McDowell lo porterebbe a concepire la mente umana come il perimetro entro cui le nozioni di significato e normatività acquistano legittimità e giustificazione. Per verificare la tenuta teorica del libro è dunque necessario capire se il platonismo è una posizione da rigettare, e se effettivamente McDowell è un platonista. Data la complessità delle tesi discusse nel volume e il carattere tecnico delle nozioni coinvolte cominciamo con il chiederci: cos’è il platonismo?

Per come lo presenta l’autore, il platonismo è una tesi sulla natura delle nozioni di verità e significato, secondo cui gli episodi mentali – ad esempio quelli di natura percettiva, che tuttavia costituiscono solo una possibilità – sono intrinsecamente normativi in virtù della natura oggettiva della connessione che essi instaurano con gli stati di cose del mondo, che a loro volta forniscono dei criteri di giustificazione per i nostri asserti di credenza e di conoscenza. Una posizione platonista difende una concezione oggettivista della connessione tra stati mentali e stati di cose nel mondo, in cui i primi rispecchiano i secondi. La forma contemporanea di questo platonismo è quella che McDowell, seguendo Sellars, chiama ‘mito del dato’: la posizione secondo cui gli episodi mentali naturali sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno per valutare alcune esperienze come episodi di conoscenza, senza dover fare appello ad altro, ad esempio a considerazioni sulla natura dei concetti utilizzati in tali pratiche normative. McDowell critica aspramente questa concezione del rapporto tra mente e mondo e tuttavia, secondo l’autore, egli stesso ne sarebbe coinvolto poiché anch’egli giustificherebbe in ultima analisi la portata normativa delle nozioni di significato e di conoscenza in termini di corrispondenza tra stati mentali e soggettivi e stati di cose oggettive nel mondo. Tuttavia McDowell vuole mostrare quanto tale immagine sia insoddisfacente poiché non rappresenta una buona descrizione dei nostri processi di conoscenza; tale immagine è animata da alcune ansie filosofiche circa il ruolo che l’esperienza deve giocare nei processi di conoscenza, ansie radicate in una concezione dualista – storicamente riconducibile alla rivoluzione scientifica – del tipo di intelligibilità che caratterizza da una parte il mondo della legge e dall’altro quello della normatività (o delle ragioni, nella terminologia sellarsiana che McDowell fa propria). In questo quadro sorge il dilemma di cui il mito del dato rappresenta una soluzione insoddisfacente: come può l’esperienza sensibile – le nostre impressioni e percezioni – non avendo carattere normativo, costituire quello che Quine ha chiamato un tribunale per l’esperienza stessa?; ossia, come può l’esperienza essere un garante affidabile per le nostre pratiche normative riguardanti significato e conoscenza se è costituita da meri dati bruti? McDowell, rifiutando il mito del dato, respinge una concezione del regno della normatività come più ampio di quello dei concetti, ossia rifiuta l’idea secondo cui una volta esaurite tutte le mosse possibili per giustificare una pratica di conoscenza o di comprensione linguistica all’interno di uno spazio di concetti, ciò che ci rimane è puntare a un mero dato sensibile indiscutibile al di fuori di tale spazio che in qualche modo giustifichi e garantisca la normatività di tali pratiche. La strategia di McDowell è quella di mostrare in che senso si può sostenere che il concettuale e l’empirico sono legati nelle nostre pratiche normative senza sentirsi obbligati a occupare i due estremi del mito del dato e del coerentismo davidsoniano – posizione che risolve il dilemma quineano negando qualsiasi connessione razionale tra naturale e concettuale a favore di mere spinte causali. È in questo senso che andrebbe letta la dialettica mcdowelliana sul carattere irriducibilmente normativo degli stati mentali: non come una teoria circa il modo in cui gli stati mentali sono normativi, ma come una descrizione della natura come ospitale al regno della normatività.

L’autore interpreta invece le posizioni di McDowell come mosse da esigenze platoniste, e nel secondo capitolo propone delle critiche utilizzando argomenti ispirati alle considerazioni kripkiane circa il seguire una regola, da cui però prende le distanze in alcuni punti sostanziali. In particolare, l’autore tenta di mostrare come nell’idea mcdowelliana della responsabilità dei nostri pensieri verso il mondo sia insito un residuo di corrispondentismo platonista che vuole assicurare l’oggettività delle nostre pratiche normative attraverso un saldo riferimento del pensiero al mondo. Guardo sostiene che la tesi mcdowelliana dell’intrinseca normatività degli episodi mentali rappresenti un’inaccettabile concessione al platonismo poiché continuerebbe a dipingere la normatività delle nostre pratiche di conoscenza e di ascrizione di significato come dipendenti da qualcosa che sta nel mondo e a cui i nostri episodi mentali dovrebbero riferirsi. Ma il platonismo naturalizzato di cui parla McDowell (le cui nomenclature andrebbero prese con più di una accortezza, non come classificazioni teoriche bensì come indicazioni del tipo di ispirazione che può muovere una certa mossa filosofica), ossia il naturalismo della seconda natura, se letto come una posizione sostantiva perde la sua forza teorica e il suo valore terapeutico. Vi sono diversi modi di liberarsi di una certa immagine filosofica che ci impedisce di vedere nel modo appropriato le cose – nel nostro caso in che modo concepire mente e mondo come capaci di interagire senza attriti né salti. Si può tentare di proporre una teoria che falsifichi una o più premesse della posizione che vogliamo respingere (ad esempio il platonismo), oppure mostrare come il tipo di pressioni che ci spingono ad abbracciarla siano in realtà radicate in false immagini di cosa dovrebbe assicurare il successo della pratica che le esemplifica. L’autore segue la prima strada, articolandola attraverso una elaborata ma non del tutto esauriente serie di considerazioni circa l’insostenibilità di alcune delle premesse su cui si fonda la posizione platonista; mentre invece McDowell, attraverso la sua fertile lettura di Wittgenstein, vuole mostrarci gli ostacoli che ci impediscono di occupare una posizione da cui tale possibilità smette di essere vincolante. Questo aspetto, centrale per la comprensione di gran parte della produzione di McDowell, è trascurato nelle argomentazioni di Guardo, che tende a prendere le affermazioni del suo oppositore fuori dal loro contesto teorico. Tale dinamica è esasperata nel terzo capitolo, in cui attraverso considerazioni di ispirazione disposizionalista l’autore mostra buone ragioni per rigettare l’immagine platonista. Non c’è dubbio che qui il contrasto con McDowell è netto e genuino, ma non perché come pensa Guardo McDowell sia au fond platonista, bensì perché egli propone una differente diagnosi del platonismo, e quindi una differente risposta ad esso. Valutare quale delle due risposte ci sembra più convincente è certamente fuori dagli scopi di una recensione, e probabilmente è questione di scarso interesse per il lettore. Tuttavia, anche non essendo entrati nello specifico dei molti nodi teorici che il volume tocca e che lo rendono interessante, abbiamo voluto sottolineare dove questo ci sembra più fragile ed esposto.

La valutazione del volume non è dunque semplice: se da una parte l’autore mostra competenza e padronanza della letteratura sull’argomento e non lesina giudizi e valutazioni personali su di essa –cosa di per sé apprezzabile – tuttavia lo stile di argomentazione estremamente diretto e assertorio desta i sospetti che naturalmente sorgono davanti ad affermazioni tanto categoriche. Ad esempio, l’idea che l’epistemologia e la semantica siano indagini la cui realizzazione non deve aspettare una propedeutica filosofia della mente non è certo nuova, né tantomeno è quello che autori come John McDowell vogliono sostenere. Anzi, asserire che McDowell pensi che per capire i fenomeni normativi sia necessario intraprendere una ‘indagine sui poteri della mente umana’ significa fraintendere il merito della sua posizione. Infatti McDowell ci mette più volte in guardia da una lettura che potremmo chiamare fondazionale della sua filosofia; un esempio cristallino di questa sua attenzione lo troviamo proprio in Mente e Mondo dove McDowell rifiuta a più riprese l’immagine della mente e della normatività che l’autore gli ascrive, ad esempio quando nella lezione IV, per mostrare cosa intende per seconda natura, ci invita a pensare al modo in cui le nozioni di virtù e di fioritura umana (human flourishing) entrano nella filosofia morale aristotelica. Per McDowell non abbiamo bisogno di nessuna fondazione, platonista o meno, delle nozioni di significato e di normatività, poiché sostenere che l’esercizio della spontaneità coinvolge necessariamente la ricettività non significa fare appello a nessuna immagine metafisica della mente, bensì mostrare al contrario come sia possibile riappropriarsi della convinzione che non ci sia bisogno di alcuna giustificazione filosofica esterna delle nostre pratiche di comprensione e di conoscenza. Il carattere quietista e terapeutico delle posizioni di McDowell è nel volume sistematicamente ignorato, e questa rimozione compromette seriamente la tenuta teorica del volume perché rende i bersagli filosofici dell’autore impermeabili se non immuni dai suoi attacchi. Se questa è una scelta teorica da parte dell’autore andrebbe quantomeno dichiarata, se non proprio difesa.

Indice

Introduzione
Percezione e significato
Interpretazioni
Verità e giustificazione
Conclusione
Bibliografia


L'autore
Andrea Guardo si è addottorato in filosofia presso l’Università degli studi di Milano. Fra le sue pubblicazioni Empirismo senza fondamenti (Milano 2007).

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