giovedì 21 gennaio 2010

Ottonello, Pier Paolo, Elogio dell’ipocrisia.

Venezia, Marsilio, 2009, pp. 127, € 14,00, ISBN 9788831797061.

Recensione di Raffaela Strina – 21/01/2010

Etica

Un titolo provocatorio di sapore erasmiano, una scrittura colta e raffinata, una grande varietà di temi e di livelli linguistici scanditi da un periodare labirintico e avvolgente: questi, in poche righe, i tratti salienti della raccolta di saggi di Pier Paolo Ottonello, attraversati dal duplice intento di denunciare la crisi antropologico-morale dell’uomo contemporaneo e di ribadire il valore della persona umana nella sua integrità, a partire da un orizzonte di fede, al di là di ogni deriva nichilistica, scettica, individualistica.

Il punto di partenza è la presa di coscienza di una profonda crisi della contemporaneità, derivante dalla progressiva demitologizzazione che, spodestando miti, dei e valori, ha portato alla “marginazione sino alla negazione di ogni senso di categorie universali e oggettive” (p. 65). Tale svuotamento di senso viene descritto dall’autore nei termini di un’involuzione linguistica: l’abbandono dell’alfabeto metafisico, basato su alcune poche ‘lettere’ fondamentali, quali essere, ente, creatura, Creatore, verità oggettiva, volontà libera, in favore di una ‘neolingua’, il cui alfabeto si compone di nuove ‘lettere’, quali individuo, qualità della vita, informazione, potere, complessità, previsione, organizzazione e con cui viene irreversibilmente spezzata “ogni e qualsiasi relazione oggettiva fra linguaggio e realtà, tra significante e significato, tra nome e cosa” (pp. 64-65).

Sin qui Ottonello si muove nel solco dei critici della modernità, contro lo scetticismo e il relativismo che hanno reso l’uomo di oggi un analfabeta spirituale. Tuttavia l’autore è ben consapevole che non basta denunciare la crisi di valori e riproporre un ritorno alla metafisica perché l’uomo ‘guarisca’ da tale situazione patologica. Il problema non è, infatti, solo linguistico, bensì profondamente connesso alla nostra struttura antropologica, in quanto ciò che ci impedisce di ricominciare a parlare usando il linguaggio metafisico è la radicata “persuasione, diffusa, anzi generalizzata, dell’insignificanza del linguaggio stesso come trasposizione dell’individuale nell’universale” (p. 64): è qui che si situa la sottile e penetrante analisi dell’ipocrisia, nel suo ancorarsi alla costitutiva limitatezza umana.

L’orizzonte del sapere assoluto è precluso all’uomo, il cui sguardo è sempre prospettico, parziale, limitato al ‘qui’, al proprio spazio esistenziale, e che necessariamente esclude un ‘là’, un altro sguardo prospettico, un altro angolo visuale e, dunque, impedisce l’accesso alla Verità nella sua pienezza. Ogni nostra conoscenza presuppone, dunque, che alcuni aspetti rimangano celati, vengano omessi, non perché coscientemente e volontariamente ci si neghi alla verità nella sua interezza, ma perché semplicemente le nostre facoltà limitate ci impediscono uno sguardo sull’intero, costringendoci alla parzialità, alla prospettiva, a tralasciare e mantenere in ombra taluni aspetti: ogni umano intendere presuppone un sottintendere, un hypokrinein, radice greca del termine ipocrisia. Il sottintendere, il sorvolare, il non vedere non significa ancora menzogna e ipocrisia, finché rimane aperto l’orizzonte di ricerca della verità. La parzialità delle immagini rispetto alla realtà, così come la parzialità delle parole umane rispetto alla totalità di ciò che non è detto, che non si può o non si vuole dire, non invalida la ricerca della verità, “invece accrescono l’illuminazione: fanno più vivida l’evidenza del positivo come partecipazione dell’assoluto” (p. 24)

L’ipocrisia nasce propriamente nel momento in cui l’hypokrinein viene sciolto dal suo rapporto con la verità, quando ciò che non rientra nel nostro orizzonte di sapere è volutamente oscurato, tralasciato, nascosto. Infatti l’uomo non è solo un essere che pensa, ragiona, conosce, ma è anche un essere che vuole, che giudica e sceglie e la cui ricerca della verità è determinata dalla scelta della verità: “il vivente uomo può ‘scegliere’ verità, ossia può volere cercarne alcune e non altre, considerandole utili oppure no, o nocive: infine, alcune come verità, altre come non verità, o come errori o menzogne” (p. 25). L’ipocrisia è la “strada interrotta” (ivi) alla verità imboccata dall’uomo che trasforma il limite dello sguardo prospettico in arma volontaria, rifugiandosi in un ambiguo non dire, tralasciare, non pensare. L’ipocrita è colui che si nasconde a se stesso, che sorvola, decide di non vedere verità scomode, per mantenersi tranquillo e non intaccare l’immagine che ha costruito di sé, incapace di superare il proprio “irrigidimento in abitudini mentali e di comportamento” (p. 42).

Tanti sono gli alibi con cui neutralizziamo la tentazione alla ricerca della verità: possiamo convincerci che sono le circostanze ad imporci di sorvolare, che il buon fine giustifica la menzogna, che la verità fa male e offende. Questi alibi non sono usati solo per giustificare le omissioni e menzogne con cui ‘scantoniamo’ dalla ricerca della verità, ma anche per nascondere la natura essenzialmente violenta dell’ipocrisia, la quale trasforma il linguaggio in strumento di potere e prevaricazione, in “armamentario bellico il più potente possibile” (p. 30) a scopo offensivo o difensivo. L’arte dell’inganno, della simulazione è, infatti, arte della sfumatura linguistica, regno dell’ambiguità, “è gioco abilissimo nello ‘spostare’, sostituendoli e sovrapponendo, i ‘sottintesi’” (p. 31), per prevaricare il proprio interlocutore, spinti dalla “fretta d’arraffare, dell’allungar le mani dovechessia” (p. 31), da quell’insaziabile famelicità che ci allontana da noi stessi, dal nostro essere autentico, dalla vocazione umana alla verità. Per questo l’arte del’ipocrisia che ci illude di poter primeggiare nel mondo si rivela, secondo Ottonello, uno strumento di violenza che porta al tradimento di sé, e, dunque alla morte di sé.

Non riusciamo mai a dire tutta la verità, non ci sentiamo costretti a farlo, ne abbiamo paura, ma la verità è l’unica fonte di libertà, in quanto unico spazio di autenticità. Adagiarsi ipocritamente nelle mezze verità, nei non detti e non visti, significa combattere una guerra ‘contro se stessi’, mentre l’unica guerra che merita di essere combattuta è quella ‘per se stessi’, una sfida quotidiana contro la nostra paura della verità. Il paradosso è che solo l’uomo che in maniera irrequieta e instancabile combatte questa ‘guerra’ per se stesso acquisisce quello spazio di autonomia e libertà che gli garantisce l’armonia e la pace. L’uomo che vuole stare ‘in pace’ è proprio l’ipocrita per antonomasia: colui che non vuole offendere o mettere a repentaglio le proprie verità, ma questo suo ‘stare in pace’ si rivela in realtà fonte di guerra, di conflitto, prima di tutto con se stesso, con il proprio essere autentico, costretto a compromessi e continui ‘rimaneggiamenti’ e aggiustature, e, in secondo luogo nei confronti degli altri uomini, in quanto l’inganno e la malafede sono alla base di ogni discordia. Solo l’uomo che non abbandona la ricerca della verità, che le tiene fede, combatte con se stesso per stesso, costruendo la pace e l’armonia, in quanto “nessuna guerra esteriore può terminare concludendosi con una vera pace se con una vera pace non si conclude la guerra interiore che l’ha generata” (p. 74).

L’ipocrisia, dunque, se sorge sul terreno della costitutiva limitatezza umana che non può mai accedere alla verità, si sviluppa come scelta della non verità per paura e comodità. Essa è alla base della malattia spirituale che affligge l’umanità di oggi: l’impossibilità di trovare un orientamento spirituale nell’assoluto relativismo del nostro tempo, l’impossibilità di riprendere a parlare il linguaggio ‘metafisico’, di poter pensare ad un ordine oggettivo che travalichi la nostra limitatezza. La tracotanza umana nel voler sottomettere la verità ad interpretazione, negando un ordine oggettivo, produce disorientamento, superficialità, guerra di ‘verità’ che sterilmente si combattono. È possibile per l’uomo uscire da questa crisi? Secondo Ottonello ciò è possibile solo nella misura in cui si combatte per la verità, non con l’arroganza di possederla, di avere accesso al sapere assoluto, di essere orizzonte al di là di ogni prospettiva, ma al contrario con l’umiltà di chi riconosce limitato il proprio accesso alla verità, di chi pur riconoscendo la propria prospettiva fa del cammino ininterrotto all’orizzonte il proprio fine.

L’autore in una prospettiva di fede cristiana ritiene che esista un ordine oggettivo, un regno di fini e valori in sé che travalichino la provvisorietà e relatività delle prospettive, le quali hanno senso solo in relazione ad un assoluto che le trascende. Quest’ordine metafisico è riconosciuto nell’ordine creaturale della creazione. Tuttavia l’autore è molto lontano da una ritrita propaganda fideistica, dal voler proporre una sorta di catechismo cattolico con linguaggio filosofico. La sua professione di fede è un atto di trasparenza ed onestà intellettuale che non eclissa l’impegno teoretico. La sua battaglia contro il relativismo e il nichilismo contemporanei sono, dunque, una battaglia contro una modernità che vuole buttarsi alle spalle il pensiero metafisico e ridurre il valore dell’uomo all’insignificanza di una dimensione puramente individualistica. Solo l’esistenza di un ordine oggettivo che trascende la parzialità e limitatezza dell’umana prospettiva può conferire senso all’esistenza umana, come ‘parte’, ‘immagine’ di un intero, di un Tutto che la trascende, di un universale. Solo in questa dimensione di verità l’uomo può riconquistare il proprio statuto antropologico di persona, capace di pensare il proprio limite e, quindi, di trascenderlo nella consapevolezza di un qualcosa di più grande verso cui tendere. Se l’ipocrita è l’uomo di oggi che assolutizzando il relativo diventa adoratore del credo nichilista, riducendo il senso della propria esistenza ad una vano rincorrere benessere e profitto individuale, prigioniero della guerra di prospettive, per sconfiggere l’ipocrisia e la violenza che le è intrinseca occorre ripensare lo spazio antropologico come un cammino dalla prospettiva all’orizzonte. Per questo l’ironico elogio dell’ipocrisia è a ben vedere un invito a ripensare il limite e la finitezza per un suo trascendimento all’infinito, come il poligono di cusaniana memoria mai coincidente col cerchio in cui è inscritto, ma sempre instancabile nel moltiplicare i propri lati.

Indice

Prefazione 
I. Miti e idoli d’oggi 
II. Elogio dell’ipocrisia 
III. Dialogo dell’armonia 
IV. Persona, guerra, pace 
V. Vives antiretore 
VI. L’offerta del sangue in Caterina da Siena e in Rosmini 
VII. Michelstaedter e il Cristianesimo 
VIII. In cauda. Il Canto XXXV dell’Inferno per Umberto Eco settantenne


L'autore

Pier Paolo Ottonello, nato nel 1941, dal ‘75 è ordinario di Storia della Filosofia nell’Università di Genova. Autore di oltre seicento pubblicazioni in Italia e all’estero, nell’87 ha iniziato a ordinare e integrare i propri scritti entro un programma di trenta volumi. Presso Marsilio ha pubblicato: Sciacca. La rinascita dell’Occidente (1995), La barbarie civilizzata (1998), Rosmini. L’ideale e il reale (1998), Sciacca. L’anticonformismo costruttivo (2000), Scudisciate all’estetica (2000), L’uomo «equivoco» (2001), Ontologia e mistica (2002), Trattato della Paura (2003), Antiaccademici e maledetti (2004), L’oscuramento dell’interiorità (2005), Saggi rosminiani (2005), Del Cielo e della Terra (2006); Sciacca. Interiorità e metafisica. Dirige diverse collane filosofiche e i periodici internazionali «Filosofia oggi», «Rivista Rosminiana», «Studi Sciacchiani», «Studi Europei». Presiede L’Arcipelago, Società Internazionale per l’Unità delle Scienze, fondata nel ‘90 con Maria Adelaide Raschini. Marsilio ha pubblicato anche il volume Strade maestre (2005) in suo omaggio per il 30° di Cattedra universitaria.

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