lunedì 28 giugno 2010

Bellino, Francesco, Per un'etica della comunicazione.

Milano, Mondadori, 2010, pp. 216, € 18,00, ISBN 8861593879.

Recensione di Antonio Vigilante - 28/06/2010

Filosofia morale

Né apocalittici né integrati, ma attenti a distinguere l'utile dal dannoso, consapevoli della complessità: così si potrebbe sintetizzare la posizione di questo libro di Francesco Bellino sui problemi della società della comunicazione. Che esordisce, a dire il vero, con qualche tono apocalittico. Sulla scorta degli interpreti più attenti della contemporaneità, Bellino analizza nella prima parte del suo studio la profonda trasformazione della nostra visione del mondo ad opera dei mass media e della tecnologia informatica e digitale. La categoria centrale per comprendere il mondo attuale è quella di immagine. Non esiste più una realtà al di fuori dell'immagine: essa non è più una parte del mondo, ma il mondo stesso. Ciò non è senza conseguenze sulla nostra vita e sulla nostra percezione morale. Se facciamo esperienza del mondo attraverso l’immagine, tutto diventa spettacolo, anche una tragedia, anche un'esplosione atomica. “Noi formiamo il nostro mondo sulla base delle immagini del mondo: imitazione invertita”, scrive Bellino (p. 32). È, bisogna notare, quello che accade con i reality show. La loro pretesa di essere realtà è naturalmente infondata, poiché la presenza di una telecamera trasforma tutto in rappresentazione; ma i telespettatori prendono ciò che vedono sullo schermo come un paradigma sul quale modellare la loro stessa vita quotidiana. Accade così che la vita stessa diventa irreale, si fa rappresentazione; i più giovani, soprattutto, interagiscono spesso fra di loro come se fossero personaggi di un reality - teatralizzano le reazioni, enfatizzano i conflitti, accentuano le divergenze o le affinità. Non lievi sono anche le conseguenze sul mondo dell’informazione. Una corretta informazione è quella che dà una versione imparziale dei fatti. Ma è ancora possibile parlare di fatti, se il mondo diventa immagine e spettacolo? Giornali, televisioni, reti informatiche per Bellino formano un sistema autoreferenziale che non rappresenta la realtà secondo criteri di fedeltà ed adesione al vero, ma la ricrea. Se a ciò si aggiunge che i grandi media sono nelle mani del potere politico ed economico, ci si rende conto facilmente delle difficoltà di un’informazione non manipolativa. Al di là degli intenti di chi fa televisione o informazione, è la logica stessa dei mezzi di comunicazione tecnologici che opera sull'utente-consumatore in modo deleterio, frantumando la sua esperienza (anche l'immagine di un'esplosione atomica è nulla più che una immagine), passivizzandolo e sottomettendolo all'imperativo di un consumo compulsivo, destrutturando le sue convinzioni e la sua mentalità, esteriorizzandolo ed allontanandolo dalla dimensione interiore, che è quella della coscienza e della riflessione morale.
È evidente, dunque, il bisogno di un’etica della comunicazione, che Bellino vede fondata da tre postulati: libertà, verità e reciprocità. C'è comunicazione reale quando persone libere cercano la verità rispettandosi reciprocamente come fini. In particolare Bellino si sofferma sull'importanza della verità. La convinzione di essere in possesso della verità assoluta ha prodotto nel corso della storia, e segnatamente nel Novecento, grandi tragedie. Di qui una sorta di abdicazione alla verità, considerata una pretesa eccessiva, un obiettivo inattingibile ed in fondo pericoloso. Ma senza verità, sostiene Bellino, non è possibile alcuna vera moralità. Se intendiamo la verità non solo come corrispondenza tra l'affermazione e la cosa, ma anche come corrispondenza tra ciò che io dico e ciò che sono, appare evidente che le virtù etiche non sono possibili senza le virtù aletiche. Questo non vuol dire che la moralità debba alimentarsi della convinzione di possedere tutta la verità o l’unica verità. È questa la convinzione che genera la violenza ed il fanatismo. La verità non è mai pieno possesso: possiamo tuttavia avvicinarci progressivamente ad essa, lavorando pazientemente ad eliminare gli errori. Piuttosto che contrapporre ideologicamente gli uomini gli uni agli altri, questa concezione fallibilista li costringe al dialogo, poiché la ricerca onesta della verità non può che nascere dal confronto aperto tra le diverse verità parziali.
È il caso di notare che, stando così le cose, il postulato della reciprocità diventa indispensabile per la verità stessa. Per Bellino la reciprocità è scritta nella natura stessa dell'uomo, nel suo ontologico essere-in-relazione, e la comunicazione è l'attività che consente l'espressione più piena della realtà personale. Da questo semplice postulato è possibile trarre conclusioni che possono sovvertire anche linguisticamente il nostro modo di considerare la comunicazione. Se c'è comunicazione quando c'è reciprocità, allora ovunque manchi la reciprocità la comunicazione è assente. Pochi hanno analizzato il nesso tra comunicazione e reciprocità con la consequenzialità di Danilo Dolci. La sua conclusione è che nel caso dei mass-media non si dà comunicazione. La comunicazione di massa non esiste è il titolo di un suo libro del 1987. C'è comunicazione, per Dolci, quando è possibile il feedback, quando c'è un dire ed ascoltare; quando questo scambio bidirezionale non c'è, bisogna parlare di semplice trasmissione. La reciprocità non è intesa, da Dolci, come rispetto del destinatario del messaggio, ma come la possibilità effettiva di quest'ultimo di essere parte attiva dello scambio comunicativo. I mass-media, non consentendo alcuno scambio reale, sono mezzi di trasmissione, non di comunicazione, anche quando chi parla attraverso il televisore lo fa senza alcun intento di ingannare o manipolare. È il mezzo stesso che, per il suo carattere unidirezionale, per l'aspetto perentorio che assume ogni affermazione che proviene da esso, mette in crisi la reciprocità.
La distinzione tra trasmettere e comunicare teorizzata da Dolci può rappresentare uno strumento importante per una analisi critica del mass-media, ma non va assolutizzata. Lo stesso Dolci sapeva che esistono forme di comunicazione massmediale onesta e positiva, che si avvicinano alla comunicazione autentica. Non si tratta dunque di condannare i mass-media, ma di chiedersi in che modo è possibile diminuire l'aspetto trasmissivo ed aumentare quello comunicativo. I nuovi mezzi informatici sono da questo punto di vista di grande interesse. Soffermandosi sulle opportunità offerte in particolare da Internet, Bellino supera quel che di apocalittico era nell'analisi della contemporaneità. La comunicazione in rete non ha un carattere unidirezionale. Soprattutto con il Web 2.0, l'utente di Internet ha la facoltà di discutere i contenuti, o di crearne di propri; per la prima volta, chiunque ha la possibilità di immettere informazioni in un circuito mondiale ad un costo minimo. Con i blog nasce un’informazione diffusa, dal basso, che si distingue per il carattere dialogico, per il fatto di essere inserita in una rete di scambio, di commenti, di confronto. È nella rete che nasce quel movimento per il software libero ed il codice open source che sta lentamente condizionando l'intero mondo della cultura, inducendo anche qualche casa editrice a rinunciare al copyright in favore del copyleft, il diritto di riprodurre e distribuire un'opera. È ancora la rete che offre strumenti inediti di democrazia digitale, consentendo all'opinione pubblica di conoscere fatti che sono indispensabili per esercitare controllare il potere e che spesso sono occultati dall'informazione ufficiale. La rete internet appare, in altri termini, come uno strumento conviviale, secondo la concezione di Illich: vale a dire uno strumento che consente a chi lo adopera di modificare in qualche modo il mondo, invece di essere in balia dello strumento stesso.
E ad Illich – all'ultimo Illich – fanno pensare le riflessioni di Bellino sulla necessità di una spiritualità laica nell'era digitale. Come è noto, nei suoi ultimi scritti (raccolti in La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009) il grande pensatore austriaco afferma la necessità di riprendere le pratiche ascetiche come forma di opposizione e di resistenza, strategia per mantenere vivi i sensi nell'epoca dello show. Come il silenzio è la condizione necessaria della parola, ne costituisce la radice e l'origine, così la vita spirituale è la premessa della comunicazione e dell'impegno; essa, scrive Bellino, “è vita interiore profonda, ricerca del senso, fedeltà-impegno nelle vicende umane, apertura all'alterità, silenzio, ascolto, pensiero, meditazione” (p. 105). Si tratta di un’indicazione preziosa anche, bisogna osservare, in campo educativo. Lentamente si sta facendo strada in chi insegna (più all'estero, per la verità, che in Italia) la consapevolezza dell'importanza di educare alla meditazione, a distaccarsi momentaneamente dalla realtà esteriore per entrare in un contatto intenso con sé stessi, e non per chiudersi in un ipotetico mondo interiore intatto e puro. La spiritualità, non immune anch'essa dal rischio di mercificazione (si pensi alle molte proposte pseudo-spirituali legate alla New Age, che alimentano un fiorente mercato di pubblicazioni, dvd, musica, corsi di tecniche più o meno risolutive), è una dimensione che prescinde dall'appartenenza ad una fede religiosa: essa è il cammino che porta l'uomo al cospetto di sé stesso, che gli consente di consolidare una base di verità interiore che costituisce il munus, il dono che potrà offrire, comunicando, ad altri.

Indice

Introduzione
1. Il mondo come immagine
2. I postulati dell'etica della comunicazione
3. Per un'etica della comunicazione
4. Deontologia professionale dei comunicatori
5. La netica e la libertà d'informazione
6. Alle origini della comunicazione: il silenzio, la parola e l'ascolto


L'autore

Francesco Bellino è professore ordinario di Filosofia morale all'Università degli Studi di Bari. Ha scritto numerosi volumi, tra cui I fondamenti della bioetica (Città Nuova, Roma 1993); Eubiosia. La bioetica della buona vita (Città Nuova, Roma 2005) e Il paradigma biofilo (Cacucci Bari 2008). Ha curato il primo Trattato di bioetica italiano (Levante, Bari 1992).

mercoledì 23 giugno 2010

Amselle, Jean-Loup, Il distacco dall’Occidente

Meltemi, Roma 2009, pp. 252, € 24,00, ISBN 978-88-8353-688-5

Recensione di Francescomaria Tedesco – 23/06/2010

Postcolonialismo, Postmodernismo, Occidente, Subalternità

Il libro di Jean-Loup Amselle, antropologo francese di origini ebraiche, ruota attorno alla questione fondamentale della ‘provincializzazione’ dell’Occidente, ovvero all’obiettivo teorico di quell’ormai imponente corpus di ricerche composto dai Subaltern, Cultural e Postcolonial Studies e che ha a che fare, in varia misura, con la decostruzione, il postmodernismo, l’ibridità, il meticciato, la marginalità, il dominio, l’ideologia, la violenza, il testo, l’orientalismo, e una miriade di altre parole-chiave del dibattito culturale degli ultimi decenni.
Provincializzare l’Occidente significherebbe renderlo un posto come gli altri, smontarne la pretesa superiorità, mettere in discussione il paradigma alterizzante che conduce a costruire delle opposizioni binarie (Oriente/Occidente, modernità/arretratezza, civiltà/barbarie, etc.) tutte sbilanciate a favore di una valutazione assiologicamente positiva dell’Occidente come il luogo del progresso e della modernità e, più di recente, dei diritti e della democrazia. E significherebbe anche ‘spacchettarlo’ (per riprendere il titolo di una mostra di cui Amselle ha parlato nel suo L’arte africana contemporanea: Unpacking Europe), sottrarlo alla convinzione che esso sia un blocco monolitico e compatto.
La tesi centrale del libro di Amselle è che questa idea, assieme all’idea di dar voce ai subalterni, di ‘rappresentare’ le istanze dei popoli post-coloniali ‘senza voce’, di cercare un punto di vista alternativo a quello occidentale, di scrivere un’altra storia possibile dei paesi un tempo sottoposti alla dominazione coloniale, si sviluppa pressoché interamente proprio nel contesto dell’Occidente per mano di autori che tutto sommato – come il dandy Raymond Roussel che percorse il Marocco in limousine e con le tendine completamente abbassate – non avevano molto a cuore altro che il punto di vista interno all’Occidente stesso. In altri termini, per Amselle il pensiero postcoloniale non sarebbe altro che il frutto di una sorta di modernità riflessiva tutta interna alla cultura occidentale (in particolare alla cultura francese così come è stata reinterpretata dall’accademia statunitense: la French Theory) e pronto a demolirne gli stessi presupposti sulla scia di Heidegger e di Derrida, ‘decostruendone’ l’impianto metafisico e logocentrico. Non è un caso, sostiene Amselle, che i ricercatori più importanti dei Subaltern Studies siano membri dell’élite bengalese di stanza nelle più prestigiose università occidentali (soprattutto statunitensi) e che le loro ricerche siano in costante dialogo con Hegel, Marx, Nietzsche, Gramsci e il Pantheon della cultura europea.
Non è difficile sentirsi in accordo con Amselle. Anzi, è piuttosto condivisibile l’idea che gli intellettuali europei e le élite postcoloniali si siano arrogati il diritto di parlare a nome degli oppressi, talvolta rendendo loro dei veri e propri omaggi rituali che paradossalmente servivano soltanto a corroborare – con proposte politiche piuttosto modeste a fronte di uno stile roboante e ‘millenaristico’ – la logica culturale del tardo capitalismo. Il risultato è stato spesso il ventriloquio. Insomma, sostiene Amselle, la storia del mondo continua anche nell’epoca del postcolonialismo: le élite colte dei paesi usciti dal dominio coloniale, in accordo con l’accademia occidentale, ci parlano della rivoluzione dalle loro comode aule universitarie di New York o Chicago.
Tuttavia occorre dire che questa critica – pure puntuale e legittima – è ispirata a una sorta di ‘esclusivismo possessivo’, per dirla con Said, per cui solo le donne sarebbero legittimate a parlare per le donne, e solo i neri a parlare per i neri, e così via; inoltre, essa si fonda su un’idea di purezza di grado superiore. In altre parole, se da un lato Amselle critica la tendenza del postcolonialismo all’ipostatizzazione delle culture che esso stesso si era proposto di decostruire, dall’altro egli riammette dalla finestra quell’idea dell’esistenza culture ‘chiuse’ e dai confini ben definiti che intendeva criticare: se solo i ‘subalterni’ parlano a nome dei subalterni, ciò significa che tra essi non ci sono ibridazioni, meticciati, porosità. Del resto è lo stesso Amselle a mettere in luce le contraddizioni dell’indigenismo, che ad esempio nella Bolivia di Morales richiede un costante esercizio auto-etnografico, un’auto-definizione in termini di purezza indigena come lasciapassare per poter partecipare al dibattito politico (su questo e altri temi si vedano le interviste di Amselle segnalate nella sezione link).
In realtà, ciò che con tutti i suoi limiti ha insegnato il pensiero della subalternità (e naturalmente i suoi ascendenti francesi e occidentali) è proprio la costante messa in questione di ogni idée reçue, assegnando all’intellettuale una importante funzione epistemologica. Ed è proprio nell’ambito del postcolonialismo che si sono sviluppate le più importanti critiche verso se stesso. Non è un caso che la messa in questione del tema della ‘rappresentanza dei senza voce’ sia venuta proprio dalla traduttrice in inglese della Grammatologia di Derrida, un’autrice che – tornando al 18 Brumaio – ha criticato fortemente la pretesa degli intellettuali ‘agiati’ (tra questi anche Deleuze e Foucault) di parlare a nome dei subalterni. È stata proprio Gayatri Spivak a mettere energicamente in luce alcuni paradossi dei Subaltern Studies. Così come è piuttosto significativo che nell’ambito della ‘costellazione post-coloniale’ sia stata elaborata (o comunque ripresa e ridiscussa) l’idea della ‘transculturazione’ come concetto che dà conto della porosità di ciò che convenzionalmente chiamiamo – perfettamente consci dell’insufficienza e obsolescenza euristica del termine – ‘culture’ e del gioco di specchi (per dirla con Carlo Ginzburg) che ha sempre caratterizzato i rapporti tra dominanti e subalterni.
Ritengo dunque che il postcolonialismo, che forse – come dice Amselle – negli Stati Uniti vive oggi un momento di stasi, offra un contributo interessante per la decostruzione di quelle idee che esso stesso aveva contribuito a veicolare da qualche decennio a questa parte, e che il proprio apporto sia ormai imprescindibile per chi intenda occuparsi di scienze sociali tendendo l’orecchio a ciò che si dice e si scrive fuori da un contesto nazionale talvolta davvero angusto.
A questo fine il bel libro dell’antropologo francese – pubblicato da un editore da tempo impegnato a diffondere in Italia queste tematiche e che ora non attraversa, con gran dispiacere degli studiosi, un buon momento – è molto utile, poiché consente al lettore di guardare al postcolonialismo con uno sguardo meno infatuato e con una maggiore consapevolezza critica.

Indice

Introduzione

1.French Theory o French Paradox?
2.I meccanismi di una decostruzione dell’Occidente
3.Il distacco degli ebrei
4.Alla ricerca di un paradigma africano
5.Scenari intellettuali
6.La voce dei “senza voce”
7.Dall’India alle Americhe indigene
8.Gramsci: un soggetto postcoloniale?
9.La fattura postcoloniale

Conclusione

Appendice 1. L’India
Appendice 2. La Bolivia

Bibliografia

Indice dei nomi propri


L'autore

Antropologo, Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS). Redattore capo dei «Cahiers d’études africaines», è autore di numerosi volumi, tra i quali, tradotti in italiano, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007). Ha inoltre curato, con Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia (2008).

Link

Interviste dell’autore ad alcuni ricercatori del Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata e ai membri del Taller de Historia Oral Andina:

martedì 22 giugno 2010

Anna Elisabetta Galeotti, La politica del rispetto. I fondamenti etici della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 189, ISBN 978-88-420-9309-1.

Roma- Bari, Laterza, 2009, pp. 430, € 24, ISBN 9 788861 591950.

Recensione di Francesca Rigotti – 22/06/2010

Rispetto, democrazia, diritti, riconoscimento, identità, multiculturalismo

Uno dei lavori meglio riusciti e più innovativi di Anna Elisabetta Galeotti, questo La politica del rispetto, che giunge, attraverso un’analisi tanto raffinata quanto chiaramente esposta, a demarcare  il principio del rispetto tracciandone i confini relativamente ai principi, attigui ma non identici, di riconoscimento e diritti, e ponendolo a fondamento etico della legittimità democratica e dei suoi principi politici di base. Il tragitto espositivo-argomentativo si snoda triadicamente, al termine di un’introduzione nella quale si giustifica sia la preminenza del rispetto su altri principi, sia l'associazione non scontata né banale del sostantivo rispetto con l'aggettivo eguale, considerando i suoi rapporti rispettivamente con l'ordine liberaldemocratico, con il principio del riconoscimento e con la politica.

Già nell'introduzione il senso dell'attribuzione di ER (acronimo di Eguale Rispetto) riceve una spiegazione genealogica, analoga a quella riguardante l'attribuzione dei diritti e delle possibilità di partecipare attivamente e passivamente alle procedure democratiche: da un nucleo ristretto di persone che riceveva un rispetto/onore diseguale dovuto al diverso status sociale, a un allargamento per cerchi concentrici che, procedendo per ampliamenti e revisioni successive viene a inglobare gruppi e settori di popolazione sempre più ampi fino all'attuale generalizzazione e universalizzazione dell'ER a tutte le persone, intese come esseri umani. Si tratta di un punto importante sul quale desidero tornare e tornerò.

Segue l'esposizione delle ragioni secolariste-neutrali, delle ragioni del liberalismo e di quelle che si richiamano a etiche fortemente veritative di tipo religioso. Importante l'argomento per il quale il tendere verso forme di rispetto eguale e reciproco favorisce il dialogo e conduce a forme di delibera consensuale molto più che atteggiamenti di condiscendenza, compatimento o paternalismo, irritanti e indisponenti per chi non la pensa così e si sente investito da comportamenti di imposizione e inferiorizzazione, del tutto inefficaci a persuadere della propria presunta verità quanto efficaci a generare negli altri insofferenza e ribellione: se invece si rispettano gli altri pur giudicando sbagliate le loro vedute, si accredita loro «la nostra stessa sincerità e la nostra integrità nel sostenere le proprie idee» (p. 161). Viene posta così un'eccellente premessa al dialogo, che più ampiamente fiorirà quanto più le parti si guarderanno con E.R. In questo modo sarà più facilmente riconosciuta la dignità delle proprie concezioni (della giustizia o altro) in merito a un unico concetto (della giustizia o di altro).

Un altro punto significativo trattato nel cap. II, La politica del rispetto, è quello che si collega alle tematiche del multiculturalismo e ai problemi di identità singole e collettive. Chi deve godere di eguale rispetto, si chiede infatti Galeotti, riponendosi la domanda già formulata da Charles Taylor nel saggio del 1992, The Politics of Recognition, (tr. it. La politica del riconoscimento, in J. Habermas- Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 9-62)? La risposta di Galeotti è chiara: il rispetto deve andare alla persona, al singolo individuo del gruppo, non perché il gruppo in sé non lo meriti, ma perché non può pensare di riceverlo incondizionatamente come invece succede alle persone (le quali tuttavia possono anche perdere il rispetto degli altri a causa di comportamenti indegni, anche se mai perderanno il diritto a essere trattati con rispetto e nel rispetto dei diritti civili e politici).

Alla questione se sia possibile rispettare una persona anche se riteniamo che la sua identità di gruppo non sia rispettabile, Galeotti risponde che questo è possibile grazie alla pratica del «riconoscimento debole», che consiste nel riconoscere che certe differenze vanno rispettate perché fanno parte delle opinioni legittime dei cittadini. Questo punto meriterebbe a mio avviso uno svolgimento più ampio e un'argomentazione più serrata perché in effetti è arduo sentirsi rispettati quando il tuo gruppo di ascrizione è disprezzato (i neri, gli ebrei, gli arabi, le donne) né puoi cambiare l'appartenenza a meno di non schiarirti la pelle come Michael Jackson o cambiare religione come Edith Stein e Magdi Allam. Il punto è cruciale e una più raffinata articolazione del rapporto tra rispetto dell'identità del singolo e del gruppo sarebbe desiderabile.

Ho invece difficoltà ad accettare con serenità l'argomento genealogico dell'inclusione, che qui, come annunciato, riprendo. Come spiega Peter Singer, il cerchio si allarga e si estende e man mano rientrano nei diritti, nella democrazia, nel riconoscimento, nel rispetto, gruppi e sezioni che non vi rientravano. Tutto qui. Basta. Il fatto è che non basta. Non è che non si accetti questo dato come storicamente avvenuto, anzi. Tuttavia la dimensione quantitativa altera anche quella qualitativa: è riduttivo parlare di democrazia, rispetto, diritti nel momento in cui essi riguardano solamente la solita sezione sociale composta da maschi-adulti-bianchi-liberi-istruiti- possidenti.

La definizione di alcuni importanti concetti politici teorici della tradizione occidentale, in particolare contratto, democrazia e diritti, si basa spesso su assunti semplicemente quantitativi. Ciò significa che le condizioni di parità contrattuale e poi quelle relative ai diritti e alla cittadinanza democratica vengono garantite a un piccolo nucleo formato da maschi adulti liberi e possidenti, bianchi e istruiti. Pian piano il nucleo si allarga e assorbe altre fasce a guisa di una città che estende e allarga la cinta delle mura accogliendo sempre nuovi settori di popolazione. È successo ai «diritti dell'uomo» che nelle prime formulazioni tardo settecentesche comprendevano, senza dirlo naturalmente, soltanto maschi, adulti, liberi e possidenti, è successo e succede al rispetto.

La democrazia delle origini - quella della polis greca come quella delle prime colonie nordamericane - escluse per un tempo lunghissimo schiavi, donne, bambini: le teorie dei diritti pure, tant'è che furono necessarie dichiarazioni successive – dei diritti della donna, del fanciullo, degli animali... - per ribadire l'inclusione di questi ultimi senza continuare a giocare sull'ambiguità del termine «diritti dell'uomo». La teoria del contratto esclude, nelle sue prime formulazioni, donne, schiavi e bambini, in quelle recenti disabili, non-cittadini, animali non umani, sostiene con buone ragioni Martha Nussbaum. La domanda che mi pongo e che pongo a Galeotti è la seguente: siamo sicuri che sia giusto e corretto chiamare democrazia, diritti e contratto sociale, rispetto e riconoscimento tout court concetti, concezioni e condizioni politiche marchiati da forme così gravi di esclusione? Siamo convinti che si tratti semplicemente di una finezza semantica, di omissioni non gravi, di termini quantitativi che non incidono sulla qualità? Siamo certi che la progressiva estensione delle prerogative proprie dell'individuo, in ragione della sua universalità, a identità/differenze precedentemente escluse, non certo cancelli il referente primo della figura politica, ovvero il protagonista politico della società moderna: il padre, maschio, adulto, bianco e proprietario, che quello rimane, ma compensi in qualche modo la sofferenza di tutte le persone che l'esclusione l'hanno subita?

Nella sua «definizione minima di democrazia» Norberto Bobbio chiamava la democrazia «governo del popolo» e poi aggiungeva che tutto sta nel definire «chi» è il popolo. Oggi sono tutti i cittadini maggiorenni; ieri erano i cittadini maschi bianchi possidenti. Sempre democrazia era. O no?

In fondo chi accetta questa dottrina dell'inclusione per cerchi concentrici pare aderire al principio quantitativo espresso da Hegel secondo il quale si verifica nella storia un incremento di libertà, dal mondo orientale (in cui uno solo è libero), al mondo greco-romano (in cui pochi sono liberi), a quello cristiano-germanico (ove tutti gli uomini sono liberi). Sempre libertà è. O no? È libertà la libertà di uno solo, è democrazia quella che esclude metà della popolazione, sono diritti quelli che escludono le donne, è un contratto sociale degno di tale nome quello che non comprende le persone disabili? È possibile correggere le sviste, gli scotomi delle teorie precedenti, applicando un semplice criterio quantitativo? O non occorrerebbe una riformulazione delle strutture teoriche, non servirebbero nuovi apparati concettuali? 

Indice

Ringraziamenti

Introduzione

1. L'importanza del rispetto- 1.1. Ruolo fondazionale del rispetto-1.2. Diritti e rispetto: che cosa viene prima? 2. Il rispetto e la legittimità liberaldemocratica – 2.1. L'argomento del rispetto tra le prevalenti giustificazioni della politica democratica – 2.2. Perché la legittimità è un problema? - 2.3. La preferibilità del rispetto per la legittimità democratica – 2.4. Il punto di incrocio normativo – 2.5. Eguale rispetto e liberalismo politico – 2.6. L'argomento «a contrario» della gerarchia – 3. L'analitica del rispetto – 3.1. La convivenza basata sul rispetto- 3.2. La scatola nera – 3.3. Il significato di rispetto – 4. La controversa base dell'eguale rispetto – 4.1. Perché rispetto «eguale»? - 4.2. Dall'onore al rispetto – 4.3. Chi sono le persone? - 5. Eguale rispetto e politica del riconoscimento

I. L'eguaglianza di rispetto e i fondamenti

dell'ordine liberaldemocratico

1.L'etica pubblica dell'eguale rispetto – 1.1. Ragioni morali e ragioni politiche – 1.2. Dispute fra tipi di ragioni – 2. Le posizioni alternative – 2.1. Ragioni neutrali a favore del liberalismo democratico – 2.2. Ragioni liberali a favore del liberalismo democratico – 2.3. Fondamenti spessi dei post-secolari – 2.4. Lo stallo fra verità che non riesce a trionfare e neutralità che non riesce a motivare – 3. Caratterizzazione del principio dell'eguale rispetto – 3.1. La differenza tra rispetto e relativismo – 3.2. Il rifiuto del'imposizione e dell'inferiorizzazione – 4. Eguale rispetto e ragionevolezza – 4.1. Solo i ragionevoli rispettano o solo chi rispetta è ragionevole? 4.2. I vincoli normativi delle rivendicazioni di giustizia – 5. Eguale rispetto e metodo di «avoidance»- 5.1. Perché mai «avoidance» - 5.2. Il rispetto sostiene la ragionevolezza – 6. Oltre Rawls e Larmore – 6.1. La moralità del rispetto – 6.2. La generalizzazione del rispetto nel linguaggio politico contemporaneo – 6.3. La mossa di Larmore oltre Rawls – 6.4. Però: da dove viene il rispetto? - 6.5. Illustrazione dell'universale pratico dell'eguale rispetto – 7. Tirando le fila.

II. Il rispetto come riconoscimento

1. Due concetti di rispetto – 2 – Incondizionatezza e perdita del rispetto – 2.1. Il caso di Mengele e del marito infedele – 2.2. Lo status di persona – Sospensione del riguardo e obblighi di trattamento rispettosi – 2.4. Persone e casi di confine – 2.5. Persone e disconoscimenti – 3- Il rispetto in seconda persona – 3.1. Rispetto verticale e orizzontale – 3.2. Non vogliamo essere rispettati per dovere – 3.3. Universalità e particolarità dell'attribuzione di rispetto- 3.4. Che cos'è un atto individualizzante di riconoscimento? - 4. Rispetto e diritti – 4.1. Diritti senza rispetto – 4.2. Rispetto senza diritti – 4.3. Natura indiretta dell'attribuzione di rispetto – 4.4. Lotte per il riconoscimento – 5. Conseguenze e implicazioni del rispetto-riconoscimento – 6. Rispetto eguale – 6.1. Due strade per giustificare l'eguale rispetto – 6.2. Dignità delle persone e proprietà di campo – 6.3. Eguaglianza, gerarchia e meritocrazia

III. La politica del rispetto

1. Genealogia del rispetto e persone invisibili – 1.1. Duchi e persone – 1.2. Un club esclusivo – 1.3. Carattere e corpo – 2. Verso un modello inclusivo di persona – 2.1. Insufficienza dei diritti – 2.2. esclusione e «double bind» - 3. Rispetto per le persone o per le identità collettive? 3.1. Dignità e identità – 3.2. La terza via del rispetto – 4. La politica del riconoscimento è un rimedio possibile?  - 4.1. Da paria a pari – 4.2. I mezzi e i fini del riconoscimento – 5. Il «che cosa» che significa rispetto – 5.1. Aspetti negoziabili e non delle richieste di rispetto – 5.2. Una tipologia delle richieste di rispetto – 6. Obiezioni e contro-obiezioni alla politica del riconoscimento – 6.1. L'obiezione del particolarismo – 6.2. L'obiezione della balcanizzazione – 6.3. L'obiezione della politica simbolica – 7. Per concludere.

Conclusioni. L'irrinunciabilità del rispetto

eguale per le persone

1. Giustificazione del rispetto come fondamento politico – 2. Perché il rispetto e perché «eguale»? - 3. Le implicazioni dell'eguale rispetto.

Cos'altro leggere

1. Lo sfondo – 2. Il rispetto nella filosofia morale – 3. Il riconoscimento tra morale e politica – 4. L'eguale rispetto nell'etica democratica.

Bibliografia

L'autrice

Anna Elisabetta Galeotti è professore ordinario di Filosofia politica all'Università del Piemonte orientale, a Vercelli

Link

www.rsi.ch/it/home/networks/retedue/approfondimento/inaltreparole.html
http://www.olinews.it/mt/archives/cultura/

Leonelli, Rudy (a cura di), Foucault-Marx. Paralleli e Paradossi.

Roma, Bulzoni, 2010, pp. 146, € 13,00, ISBN 9788878704763

Recensione di Roberta Cavicchioli 22/06/2010

Filosofia politica

Il volume collettaneo, Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, sviluppa e ordina gli spunti scaturiti da una giornata di lavori dedicata a Foucault, Marx, marxismi, ospitata dalla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna, cinque anni or sono.

Decisi ad esplorare le possibilità di dialogo, contatto e contaminazione fra due approcci critici alla società che si implicano vicendevolmente e, tuttavia, non riescono a sottrarsi a un confronto animato, i sei relatori hanno deciso di riorganizzare i loro interventi. Ad essi si è poi aggiunto un settimo sodale, Etienne Balibar, che, condividendo le premesse dell’impresa, ha messo a disposizione la versione integrale dell'intervista rilasciata a l’Humanité nel ventennale della morte di Michel Foucault .

Come si inferisce facilmente dal contesto, l’oggetto dell'indagine condotta è il rapporto del filosofo francese con l'eredità marxiana, quell'eredità ingombrante che, sovente e con accenti polemici, Foucault lamentava di aver trascurato per dedicarsi a problemi "più cogenti"- un'eredità che trova nella riflessione foucaultiana interpretazioni originali ed esiti sorprendenti.

L'indicazione contenuta nel titolo è forte: non si vuole innescare il gioco delle appartenenze e fare di Foucault un nipote più o meno devoto. Contrastando il persistere di una storia delle idee che tende a produrre un’uniformità fittizia fra gli autori, si cercano le somiglianze di famiglia proprio nella discontinuità e nelle rotture. Il tentativo riesce, almeno nella misura in cui fornisce al lettore uno spaccato della storia dei movimenti culturali afferenti alla Sinistra; riapre problemi interpretativi non secondari circa la ricezione dell’insegnamento marxiano; chiama in causa autori come Gramsci, Lukács, Sartre, Althusser, uscendo dalla logica segregante di un soliloquio di Foucault su Marx.

Eloquente la premessa del curatore, Rudy Leonelli, che, prese le distanze da un'ermeneutica di maniera, invita a procedere per paralleli e paradossi, rintracciando nell'opera foucaultiana i temi e i problemi posti dalla teorizzazione marxiana e marxista, senza omissioni. Esprimendo una posizione non condivisa dalla totalità dei redattori, Leonelli sostiene che Foucault abbia riattivato i percorsi di ricerca marxiani nel senso della “generalizzazione”. Con generalizzazione si allude alla dislocazione di un sapere dal suo contesto di nascita, al quale è inizialmente incorporato, a un altro: rintracciarne esempi probanti, mette in campo una “genealogia della genealogia” e impone di restituire la parola ai testi. Una feconda circolazione di concetti che coinvolge le nozioni di produzione materiale e simbolica, controllo, dominazione, lotta - per citare solo alcune delle anticipazioni marxiane che incontrano in Foucault un’evoluzione sorprendente.

Colpiva Foucault la concezione della guerra come economia generale di armati e non armati: non è un caso che nella costruzione del mito della battaglia perpetua, su cui si diffonde nel corso del 1976, individui la condizione di emergenza di un immaginario politico moderno che fa la sua comparsa nel discorso dei Levellers per trovare una sistematizzazione negli storici della Restaurazione, Thierry e Guizot dai quali lo stesso Marx avrebbe mutuato la categoria della lotta di classe.

Orienta l’analisi degli autori la certezza paradossale che Foucault possa insegnare molto su Marx, naturalmente a patto che si esca dall’alternativa di una micropolitica cripto o anti-marxista. Ed è vero il contrario: il confronto con la tradizione marxista permette di cogliere elementi importanti della strategia politica foucaultiana.

Ne è certo Balibar che, già nel suo La paura delle Masse, (1977), aveva individuato in Marx e Foucault i due maggiori esponenti della politica della trasformazione delle strutture di potere/dominazione. Valutazione, questa, che trova supporto in un esame non superficiale della riflessione marxiana; riducendo il marxismo alla sussunzione dell’individuo nella massa, se ne perde completamente la valenza emancipatoria, l’afflato libertario soffocato nelle epifanie del totalitarismo. Recuperando questa profondità, si arriva a ricomporre la frattura fra la teoria macropolitica delle strutture collettive avanzata da Marx e il pensiero micropolitico, espressione di un individualismo libertario che in Foucault è mitigato dall’influenza esercitata dalla ricerca sociologica.

Alberto Burgio ravvisa nel concetto di contropotere l’elemento che accomuna Foucault a Marx; la collettivizzazione delle resistenze individuali ribadisce la necessità di “non essere governati”, formulata alla “Société française de philosophie” il 27 maggio 1978. È in particolare nei suoi studi in ambito psichiatrico che Foucault arriva a cogliere il rapporto fra la funzione strutturante del modo di produzione e l’emergere di forme di soggettivazione resistenti o alternative all’interno di uno script definito dal potere, mostrando un'evidente prossimità con il metodo marxiano; riconoscere tale prossimità significa, nuovamente, sottrarre Marx a una lettura deterministica ed economicistica. Elargisce tale indicazione di percorso lo stesso Foucault, che abbandona una concezione appropriativa del potere per definirlo in rapporto alla guidance, una capacità di indirizzo essenziale all’integrazione dei subalterni nei disegni delle classi dirigenti, in cui si avverte anche il riferimento all’opera del grandissimo Antonio Gramsci.

Per valutare la sua ricezione al di fuori di una cornice ideologica, Stefano Catucci chiede di “essere giusti con Marx” (p. 45), cui dobbiamo il linguaggio che ancora struttura la nostra riflessione sui rapporti di potere. Opportuna la sua affermazione che mette subito in chiaro le cose: in Marx, Foucault ama il filosofo dell'attualità, il critico implacabile di Ricardo, Smith e Say. Il suo omaggio si arresta dinnanzi all’utopia antropologica di marca ottocentesca, al materialismo dialettico che si autorappresenta, quale scienza esatta. Se a più riprese celebra in Marx l’instauratore di una nuova discorsività, la pietra angolare della scienze storiche, Foucault contesta al marxismo di non saper progettare una reale trasformazione degli apparati statali, trasformazione che richiederebbe di aver compreso come al di sotto dei dispositivi istituzionali ne agiscano altri infimi, quotidiani, che non vengono toccati dalle rivoluzioni e dagli avvicendamenti interni al Palazzo d’Inverno.

L’ammirazione di Foucault si applica piuttosto al materialismo storico, quale interpretazione della storia che considera determinante il modo di produzione, e mira al rinnovamento della vita materiale. Pretendendo alla scientificità, il marxismo si fa parte dei dispositivi di normalizzazione, diventa monopolio dell'Accademia, dei partiti, dello Stato. Tale l’impressione di Guglielmo Forni Rosa che tiene a sottolineare come l’atteggiamento di Foucault rispetto all’opera marxiana risenta dell’eterogeneità del panorama dei marxismi a lui contemporanei, restii al dialogo o antagonisti fra loro, (p.61: “Bisogna distinguere il comunismo francese e internazionale degli anni Cinquanta, gli incroci esistenzialisti di marxismo e fenomenologia husserliana, il materialismo storico e dialettico, con tutti i tentativi di costruire una filosofia della storia, un'evoluzione lineare per grandi momenti storici, estranea al pensiero di Marx”). Un antagonismo che si proietta all’esterno, perché l’egemonia delle correnti marxiste non imbavaglia le tante anime presenti nella Sinistra: socialisti, libertari, personalisti, in quegli anni, si fanno estensori di sperimentazioni autonome.

In quel solco, Manlio Iofrida schizza il ritratto di un Foucault giovane, combattuto fra la psichiatria fenomenologica di Binswanger influenzata da Heidegger, e il polo rappresentato dal marxismo ortodosso del PCF. Un’oscillazione che si palesa nelle due opere giovanili pubblicate nel 1954, Maladie mentale et psychologie, in cui si respira l'influenza del contrastato maestro Althusser, e Introduzione a Sogno ed esistenza dello stesso Binswanger, in cui si avverte il suo legame con la tradizione tedesca mediata dall'esperienza surrealista. Non è un caso che del surrealismo Foucault salvi proprio il poeta René Char, leggenda della Resistenza, cui tributava un'ammirazione incondizionata, anche per la sua contestatissima amicizia con Heidegger.

Offre un ottimo esempio della ricchezza di un’interpretazione posizionale e non dogmatica, Marco Enrico Giacomelli, deciso a mostrare le intersezioni fra la lezione foucaultiana e l'operaismo italiano. Il riferimento culturale è all’esperienza della con-ricerca di Danilo Montaldi, agli interventi di Raniero Panzieri, all’opera di Tronti e Alquati che porranno le basi per la ricezione di Foucault, anche elaborando alcune categorie analitiche originali atte ad interpretare, nel segno del dominio diffuso e individualizzato, le trasformazioni della società italiana, al culmine del suo processo di industrializzazione. Sulle pagine di “Quaderni Rossi” e “Classe operaia” riecheggiano molti temi contigui al pensiero micro-politico. Prova di tale sensibilità una significativa ricezione dell’opera foucaultiana, letta e discussa nei circoli e sulle pagine delle riviste o magari tradotta, come nel caso della versione italiana di Microfisica del potere, pubblicata già nel 1977.

Indice

Rudy M. Leonelli, Premessa

Etienne Balibar, Foucault-Marx, paralleli e paradossi

Alberto Burgio, La passione per la critica

Stefano Catucci, Essere giusti con Marx

Guglielmo Forni Rosa, Note sul rapporto Foucault- Marx. A proposito di “Bisogna difendere la società”

Marco Enrico Giacomelli, Ascendenze e discendenze foucaultiane in Italia. Dall’operaismo italiano al futuro

Manlio Iofrida, Marxismo e comunismo in Francia negli anni ’50. Qualche appunto sul primo Foucault

Rudy M. Leonelli, L’arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx

Note biografiche degli autori


L'autore

Laureatosi in Filosofia a Bologna, Rudy Leonelli ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso l’Università di Paris X, con una tesi su “Foucault généalogiste, stratège et dialecticien. De l’histoire critique au diagnostique du présent”, sotto la direzione di Etienne Balibar. Leonelli ha al suo attivo pubblicazioni in volumi collettanei, specie con la collana Arcipelago ; interviene con suoi contributi su Eidos, Altreragioni, Invarianti e Cahiers pour l’analyse concrète.

Link

Scritti nella versione originale o in traduzione:
http://foucault.info/

Collegamento al Media Resources Center UC Berkeley
http://www.lib.berkeley.edu/MRC/foucault/gsa.html

Portare delle Riviste francesi on line, selezione di articoli dedicati a Foucault:
http://search.revues.org/index.php

Presentazione del Volume su portale della Rivista Incidenze
http://incidenze.blogspot.com/2007/02/foucault-marx-marxismi.html

Indice Archivio Marx-Engels
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/index.htm

Il Marxismo in Francia
http://www.springerlink.com/content/g25116264p822h56/

Thomas Lemke su Foucault
http://www.andosciasociology.net/resources/Foucault$2C+Governmentality$2C+and+Critique+IV-2.pdf

domenica 20 giugno 2010

Vincenzo, Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica.

Macerata, Quodlibet, 2009, pp. 181, € 19,00, ISBN 9788874622375

Recensione di Daniela Bandiera – 20/06/2010

Storia della filosofia (fenomenologia)

"A quali condizioni siamo disposti a parlare di soggetto? In che modo un mondo si può manifestare al soggetto e, manifestandosi può produrlo e generarlo in quanto soggetto incarnato, aperto al possibile, al mondo e agli altri?" (p. 11).
Questi gli interrogativi con i quali si apre l'ultimo saggio di Vincenzo Costa il quale, continuando la riflessione sull'attualità e la fecondità della fenomenologia, propone di ripensare lo studio della soggettività a partire dall'esperienza, rivedendo le classiche antinomie di natura e cultura, mente e corpo.
Il percorso che Costa delinea all'interno della fenomenologia inizia con il concetto naturale di mondo di Jan Patočka, ripreso dalla tradizione di Husserl, Heidegger e Fink, e presentato come strumento per discutere i concetti di totalità di relazioni causali e di nichilismo. Come avverrà per lo Husserl della Crisi delle scienze europee, Patočka recepisce l'esigenza di reincarnare il soggetto nell'esperienza, al fine di riscoprirne l'origine nel mondo naturale pre-scientifico, in un mondo non ridotto a sole cause, dove la nozione di libertà e il concetto stesso di filosofia non risultano svuotati di senso e vi è ancora spazio per comprendere che il principio di ragione si articola in modalità diverse e che, quindi, l'essere umano non è mai semplicemente sottoposto a stimoli, cause, ma è sempre anche motivato, aperto al mondo della volontà e della libertà.
Proprio come Husserl, Patočka riflette sulla differenza tra i concetti di causalità e di motivazione, mettendo in luce come l'uomo esprima sempre una storia irripetibile. L'uomo è costitutivamente esposto all'azione del tempo perché non è mai identico, ma sempre soggetto al mutamento, non solo fisico (crescita, deperimento, morte), ma anche, e soprattutto, mutamento che egli stesso determina attraverso le proprie scelte e azioni. Divenendo fattuali attraverso la motivazione, le azioni si declinano come possibilità di esistenza perché agendo determinano chi sono, mentre la motivazione trova il proprio fulcro trascendentale nella temporalità. La possibilità dell'azione e quindi della libertà viene così ricondotta all'apertura al tempo, alla totalità e, in primo luogo, a una nozione di mondo come totalità delle nostre possibilità d'azione.
Questo concetto di mondo è caratterizzato nel senso dell'apertura heideggeriana, di quella passività fondamentale alla base della costituzione dei diversi mondi temporali, in quanto orizzonte trascendentale di qualsiasi possibile manifestazione, totalità di rimandi in virtù dei quali la realtà appare come un tutto unificato e coerente. Il mondo è l'insieme delle possibilità d'azione, le quali interpellano la mia libertà, cosicché io mi vengo a definire come un ente che nell’azione deve dare senso al proprio essere, a se stesso in quanto tempo.
Su questa base l'uomo stesso diviene essenziale apertura al tempo, il quale si identifica con il mondo inteso come apertura trascendentale, come legge generale del movimento dell’essere, come ultimo vero assoluto; il mondo è così pensato non come totalità satura, ma come dinamismo instabile, generatore di ogni possibilità d'apparire: solo il tempo temporalizzandosi può rendere possibile l'apparire.
In Patočka emergono quindi essenzialmente due idee di mondo: da un lato il mondo come apertura che permette il manifestarsi delle cose, dall’altro esso è mancanza, ciò che non può mai giungere a fenomenizzarsi. Esistono quindi diversi mondi storici, diverse determinazioni dell'essere, ma tutti trovano origine in un mondo sempre fungente e mai normativo, il quale rappresenta una verità non ancora giunta a manifestazione. I mondi storici si vengono così a caratterizzare come tendenze al vero, in un processo di differimento infinito che genera l'umano e la storia, mostrando il carattere "mancante" di ogni determinata apertura.
Queste riflessioni sul pensiero di Patočka conducono Costa al confronto con i temi della formazione trascendentale del mondo, della differenza ontologica e del rapporto di quest'ultima con quella antropologica, affrontati nel secondo capitolo, L'istintualità e il formarsi del mondo.
Come possono gli enti apparire nell'orizzonte mondano? È la questione della differenza ontologica, proposta attraverso le risposte di Heidegger e di Patočka, entrambe concordi nel sostenere che l’uomo non può formare il senso del mondo, che il mondo non può mai essere oggetto, in quanto esiste una passività fondamentale per la quale l’uomo stesso non può che darsi all'interno di un'apertura, di una totalità di rimandi poiché questo mondo è sempre alle sue spalle, è ciò che costituisce le cose e la soggettività, non ciò che viene costituito.
Ma se non è prodotta dall'uomo, da dove si origina la differenza ontologica? Heidegger è esplicito nel sostenere che non vi è mai una genesi trascendentale del mondo, non vi è un prodursi del sistema differenziale, ma l'accadere della differenza; ciò però ancora non chiarisce da dove derivi un mondo in quanto struttura differenziale dei significati, questione che Heidegger cerca di risolvere attraverso la nozione di progetto, cioè di un sistema regolato di differenze che rende possibile sia il differenziarsi dei differenti che il progettare umano, definendo la totalità delle mie possibilità d’azione e, dunque, il mio mondo.
Tale progetto è nell'uomo ciò che l’istinto è nell'animale ed è per tal motivo che nel pensiero heideggeriano tra il soggetto umano e l’animale non può esserci alcun passaggio perché pensare una continuità significherebbe ammettere che la differenza ontologica abbia una genesi, che vi sia un generarsi della forma.
Alla domanda se gli animali possano o non possano avere un oggetto intenzionale e di che tipo di oggetto intenzionale si tratterebbe, sia Husserl che Patočka rispondono invece che ciò dipende dal rapporto che l'animale istituisce con il mondo circostante poiché solo un essere in grado di orientarsi nello spazio tramite processi di identificazione e riconoscimento, cioè in grado di riconoscere un oggetto come il medesimo, può avere un oggetto intenzionale. Tra uomo e animale non c'è quindi contrapposizione, anche se bisogna tener presente che solo la presenza della struttura intenzionale rende possibile un rapporto libero con l’ambiente, un’azione in senso proprio, ovvero ciò che caratterizza l’uomo in quanto soggetto di volontà e libertà. Come sottolinea Husserl, il fatto che gli animali non abbiano alcuna ipseità personale non significa che essi siano sprovvisti di ogni forma di ipseità, ma permane valida la considerazione che nessun animale mostra quella capacità di comprendere caratteristica di un ente che intende se stesso come una totalità temporale finita.
Esplicitata la fondamentale considerazione husserliana per cui solo un essere aperto alla dimensione della temporalità è in grado di avere un rapporto libero con il mondo, diventa necessario affrontare, come fa Costa nel terzo capitolo "Ipseità, corporeità e motilità", il problema di ciò che prima di ogni altra cosa permette di avere un rapporto con il mondo circostante, cioè il corpo vivo.
È subito messo in risalto come il soggetto non possa avere un rapporto con il mondo se non in quanto ente corporeo, e come vi sia una motilità che regola la vita del corpo, una tendenza al Sé: da quest’immagine del soggetto husserliano come essere vivente radicato nel mondo della vita e della sensibilità, prima ancora che soggetto di auto-riflessione, prende avvio l'innovativo percorso dell'interprete attraverso la fenomenologia della corporeità, il quale prende come punto di partenza il corpo, con la sua peculiare caratteristica di essere allo stesso tempo sentito e senziente e quindi in grado di rispondere all'ambiente, fatto unico rispetto a tutte le cosalità circostanti; il corpo ha infatti la capacità doppiamente trascendentale di essere allo stesso tempo costituito e costituente, di porsi come un centro che permette l'apparire delle cose e anche di essere capace di auto-costituzione, divenendo la condizione di possibilità dell'esperienza.
Ma come si caratterizza il sentire del corpo vivo? È forse un sentire statico? La risposta negativa giunge immediatamente: il corpo vivo, il suo sentire sono ontologicamente movimento, differimento, tendenza, in quanto caratterizzati dalla temporalità, inseriti in un sistema di tracce, ritenzioni e attese nel quale non può esistere impressione atomistica.
È un'evidenza che esista un'ipseità originaria come Sé corporeo, che il Leib abbia già una direzionalità prima di essere ego in senso proprio e che esso sia fondamentalmente memoria, ciò che rimane identico al mutare degli Erlebnisse, l'elemento permanente di ogni rappresentazione, la condizione di possibilità dell'identità personale; in questo modo "a partire dalla nozione di corpo vivo, si apre forse lo spazio per pensare al di là del dualismo io-corpo" (p. 88), per comprendere che esiste una sintesi originaria dalla quale emergono sia il Sé che il Leib, i quali risultano quindi in totale continuità di sviluppo.
Essenziale aspetto del Leib è anche il suo strutturale aspetto relazionale: lo sviluppo del soggetto fenomenologico non è mai solipsistico, ma rinvia sempre all'alter ego.
Nel capitolo quarto "Empatia e relazione", Costa si addentra nella fenomenologia dell'intersoggettività, assumendo come punto di partenza che il soggetto non si rapporta mai solo alle cose, ma anche, e in modo ancor più originario, ad altri esseri umani, i quali in primis si presentano come corpi vivi uniti analogicamente al mio proprio corpo vivo. Il Sé è originariamente intersoggettivo, sia a livello corporeo che a un livello più attivo, in quanto il mio agire coinvolge sempre gli altri soggetti: senza l’esperienza dell’altro non c’è esperienza di sé come soggetto auto-cosciente, come uomo, non c’è trasformazione del comportamento in azione.
L'esperienza dell'altro, per poter essere realmente tale e davvero formativa, deve essere in grado di presentificarmi un soggetto autenticamente dotato di un'originaria alterità. È su questa base che Husserl non può che rifiutare le teorie dell'empatia di Theodor Lipps e di Max Scheler; se infatti il rapporto con l'alter dev'essere un’originaria dialettica tra identità e differenza che non annulli l’alterità, allora non potrà essere né una proiezione della mia vita di coscienza sull'altro (Lipps) né un'esperienza implicita alla mia stessa coscienza, slegata dall'esperienza percettiva (Scheler).
Ma da dove proviene il carattere di alterità dell'alter? Dal semplice fatto che non condividiamo lo stesso corpo vivo? La risposta a questa domanda rinvia alla costituzione stessa del Leib, il quale non può mai essere considerato come una mera "cosa", perché unito in modo originario con una psiche; è così possibile intendere come l'alterità dimori sì nella separazione dei corpi vivi, ma in quanto tale separazione coinvolge non solo i corpi fisici, ma anche le diverse psichicità a essi connesse. Io e l'altro siamo diversi perché i nostri corpi vivi racchiudono due diversi flussi temporali, i quali possono confrontarsi, sfiorarsi, ma mai venire a coincidere, in quanto unici ed irripetibili proprio a causa delle diverse forme di costituzione temporale, e quindi motivazionale, che li sostengono. Proprio come avevamo sottolineato per Patočka, così anche in Husserl il concetto di motivazione deve sempre essere distinto e mai assimilato a quello di causalità, al fine di sottolineare il ruolo centrale che esso viene a svolgere per l'intera costituzione della vita soggettiva di coscienza. Infatti solo dal pieno riconoscimento dell'unicità del flusso temporale e motivazionale dell'alter può generarsi quel "raddoppiamento del sentire" che l'avvicinamento corporeo dell'altro crea, altrimenti quest'alter sarebbe solo un momento del mio stesso cogito e non potrebbe dar vita a nessuna forma di conoscenza, né di me stesso né dell'altro. Nel momento in cui, invece, la relazione è davvero esercizio della distanza, equilibrio tra il rispetto delle differenze e il lasciarsi modificare da queste differenze stesse, allora l'empatia diviene anche un potente strumento di auto-conoscenza, una tappa fondamentale nel cammino della conoscenza di se stessi.
È allora comprensibile perché nel quinto e ultimo capitolo, intitolato "Le emozioni: dal fondamento cognitivo all'apertura intenzionale", Costa si soffermi sullo sviluppo dell'analisi fenomenologica delle emozioni, essenziale in quanto qualcosa è per noi una possibilità d’azione solo se le emozioni la fanno apparire come tale.
Costa pone a confronto, essenzialmente, tre diverse teorie dell'emozione: quella cognitiva di Carl Stumpf, quella fisiologica di Lange-James e quella intenzionale di Husserl.
Dopo aver analizzato l'ipotesi riduzionista, per la quale un'emozione è semplicemente una complicazione di stati sensoriali elementari, l'attenzione dell'interprete si sofferma più in particolare sul confronto tra la posizione di Stumpf e quella di Husserl, dal quale emerge che se in una teoria cognitiva le emozioni si giustificano attraverso ragioni e credenze, in una teoria intenzionale le emozioni sono invece atti intenzionali che fanno vedere qualcosa di nuovo, aspetti peculiari dell’essere, rispetto a cui l’elemento intellettuale e cognitivo è cieco.
Nella teoria cognitiva di Stumpf le emozioni vengono intese come atti psichici fondati su un oggetto intenzionale, in quanto è vitale, nella costruzione di una psicologia scientifica, dimostrare come condizione di possibilità delle emozioni non siano i meri dati sensoriali, ma dei veri e propri atti intenzionali, elementi cognitivi come rappresentazioni, credenze, giudizi o convinzioni. Questa posizione nasce in dichiarato contrasto con teorie di tipo riduzionistico come quelle di Ribot, per il quale le emozioni sono solo una variazione e una complicazione dei sentimenti di piacere e di dolore, o di Lange-James, che sostiene come l'origine delle emozioni vada ricercata nella stimolazione subita da certi organi o dalla muscolatura. Stumpf sostiene invece un rifiuto di queste teorie, non solo perché devono costantemente fare uso d'ipotesi, ma soprattutto perché se ogni emozione potesse essere ridotta a sensazioni organiche, allora ogni sensazione organica dovrebbe essere un'emozione, mentre è evidente che una tale generalizzazione non è affatto legittima.
Punto essenziale del discorso di Stumpf risulta quindi essere che le emozioni nascono da come gli esseri umani si rivolgono al mondo e dal fatto che quest'ultimo appaia loro come significativo.
Nella teoria delle emozioni husserliana le emozioni sono invece una classe di atti di coscienza autonomi, rappresentano una specifica modalità di esperienza, la quale permette di accedere a oggetti peculiari, dando un contributo essenziale alla costruzione del mondo circostante. Questi oggetti peculiari che emergono attraverso la sfera emotiva sono quelli di valore, anzi quelli nei quali si realizza la più originaria costituzione del valore, il quale viene, in primis, sentito emozionalmente e solo successivamente ripensato in un atteggiamento teoretico.
La differenza tra le due correnti emerge in modo ancora più marcato nel dibattito sullo statuto delle tonalità emotive, al quale Costa dedica ampio spazio. In una teoria cognitiva delle emozioni, le tonalità emotive devono essere considerate casi border-line perché altrimenti, non essendo il risultato immediato di una rappresentazione, rischierebbero di porre in discussione il primato del momento intellettuale rispetto a quello emotivo. Le cose stanno invece in modo diverso in Husserl, il quale, non dovendo necessariamente supportare un primato assoluto della conoscenza teoretica su quella estetica, non solo può ammettere l'esistenza di un oggetto peculiare della sfera del Gemüt (il valore), ma anche che le tonalità emotive possano essere rivelatrici dell'essere del mondo, dell'orizzonte degli oggetti. Le tonalità emotive, così, non svolgono più una funzione secondaria, ma divengono caratteristiche del modo di stare al mondo dell’uomo, il quale, prima di operare teoreticamente sul mondo, vive nel mondo, è avvolto dall'esperienza emotiva della propria Lebenswelt.
In conclusione l'ultima opera di Vincenzo Costa è da segnalare non solo per l'ampia padronanza storica e testuale del pensiero fenomenologico, ma anche per la magistrale chiarezza ed efficacia con cui sono esposte le problematiche affrontate, in un continuo rinvio a esempi, valido strumento di comprensione anche nei casi di maggior difficoltà.
Con la sua consueta incisività, quindi, Costa non solo riesce a offrirci un'ampia panoramica delle fondamentali posizioni fenomenologiche, ma anche a proporci una visione innovativa del pensiero husserliano; nel confronto con il pensiero di Patočka ed Heidegger, l'interprete sembra infatti volerci suggerire una lettura dell'opera husserliana in un'ottica meno idealistica, che punti l'attenzione non solo sul soggetto, ma sulla correlazione fenomenologica e sul versante non-soggettivistico di questa stessa relazione.
Su queste basi il soggetto husserliano si disvela come un essere caratterizzato anche nel senso della passività, dove con quest'ultima si deve intendere l'intero ambito del Fühlen, attraverso il quale il soggetto recepisce il mondo, ne viene affetto, prima di metterlo in forma attraverso i propri atti.
Un testo da leggere per riscoprire tutta la vitalità e l'attualità della tradizione fenomenologica attraverso quest'innovativo punto di vista della sensibilità: il corpo vivo, l'istinto, le pulsioni, le emozioni, il rapporto con l'altro sono infatti tutte declinazioni del sentimento, del fatto che la fenomenologia ci propone di "passare dal pensare al sentire" (p. 76), per scoprire che l'indubitabilità dell'essere risiede proprio in questo sentire, che in ultima analisi "vivere è sentire" (p. 76).

Indice

Introduzione
Capitolo primo: Il mondo dell'agire e il Sé
Capitolo secondo: L'istintualità e il formarsi del mondo
Capitolo terzo: Ipseità, corporeità e motilità
Capitolo quarto: Empatia e relazione
Capitolo quinto: Le emozioni: dal fondamento cognitivo all'apertura intenzionale

L'autore

Vincenzo Costa (1964) insegna filosofia teoretica presso l'Università del Molise. Studioso del pensiero filosofico contemporaneo, si è occupato a lungo della tradizione fenomenologica, ed in particolare di Husserl, Heidegger e Derrida. Del primo ha tradotto le Lezioni sulla sintesi passiva (Milano 1992), le Idee per una fenomenologia pura (Torino 2002) e I problemi fondamentali della fenomenologia (Macerata 2008). Ad Husserl ha dedicato numerosi studi, tra cui La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida (Milano 1996) e L'estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Husserl (Milano 1999). Tra i suoi ultimi lavori (con P. Spinicci e E. Franzini) La fenomenologia (Torino 2002), La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger (Milano 2003), Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger (Milano 2006), Il cerchio e l'ellisse. Husserl e il darsi delle cose (Cosenza 2007) e Husserl (Roma, 2009).

giovedì 17 giugno 2010

Scheu, René, Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti

Mimesis, Milano 2010, pp. 295, Euro 18,00, ISBN 978-88-8483-964-0.

Recensione di Alessandra Granito – 17/6/2010

fenomenologia, paradosso/enigma della soggettività, linguaggio, soggetto, epoché, Husserl, Heidegger, esistenza, pensiero debole, ontologia, metafisica, metafora, spaesamento, essere, esperienza, de-trascendentalizzazione.

Il soggetto è e resta un enigma. L’ambiguità è specifica del suo essere e si estende alla problematicità della correlazione ermetica tra soggetto e oggetto, pensiero e vita, coscienza e mondo ad esso inseparabilmente connesso. Soggetto e mondo si nutrono della stessa origine abissale, un’origine misteriosa che li lega e, allo stesso tempo, li separa. Superare, oltre-passare questa distanza è stato il desiderio profondo che ha animato l’uomo moderno; un desiderio che è divenuto sinonimo di una volontà feticcia di oggettivazione e naturalizzazione, di un pensiero metafisico (metafisica della soggettività) autoritario e aporetico che si è prefisso di sottomettere l’oggetto a pretese teoretico-gnoseologiche. Invece di apprendere ciò che gli si dà da pensare (il mondo, la vita nella sua irriducibile alterità), il pensiero metafisico si riduce a strumento di dominio sulla realtà. Il soggetto sembra essere lì, mentre tenta di fondare, calcolare, rappresentare, egemonizzare l’altro/l’oggetto; sembra, perché questa pretesa di dominio non può che indebolirsi, mostrare l’impotenza che in realtà la sottende e avviarsi al tramonto. Come hanno chiaramente espresso i più eminenti filosofi dell’Ottocento (Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche) e del Novecento (Heidegger, Jaspers, Sartre), quella della metafisica è la storia della violenza esercitata dalla ragione egemonica; è la storia del pensiero calcolante, di un pensiero che riflette una Weltanschauung che non solo trascina l’uomo in una spirale di necessità continua, ma che lo annoda anche ad una libertà e ad una leggerezza illusorie fino a farlo “rotolare via dal centro verso una x” (Nietzsche) e, paradossalmente, sprofondare e smarrire.
Il tramonto della metafisica della soggettività e la svolta nichilista operata da Nietzsche segnano l’inizio di un nuovo cammino verso il soggetto; un cammino lungo, tortuoso, accidentato che possa redimere, aprire scenari di pensiero che rimasti ancora “in-auditi”; un cammino che possa indicare un orizzonte di senso e una “ulteriorità di significazione” (Jaspers); un cammino che abbia cura del pensiero non come adaequatio o come ratio impostata in termini causali di fondazione e di enunciazione, ma come un’essenza provvisoria da comunicare attraverso un linguaggio semplice.
Il soggetto è e resta un enigma ed è per questo, forse, che la sua è la storia di un fraintendimento. Dalle ceneri delle smanie egemoniche del soggetto “forte” cartesiano, il soggetto ri-nasce non come disilluso o disincantato ma come soggetto de-situato, de-centralizzato che si allontana dal proprio luogo certo – la corrispondenza speculare e rassicurante tra pensante e pensato – e si dirige verso un luogo incerto, un’incognita di senso, quella parte maledetta che è stata esclusa dalle strutture forti della metafisica (archai, Gründe) e che non si lascia affatto ricomprendere nelle maglie di strutture dialettico-trascendentali del concetto di totalità (il pericolo di una “nuova metafisica”). Si tratta cioè di riappropriarsi delle condizioni di possibilità che stanno alle spalle dell’ovvio, dell’obiettivo e di ciò che è dato. Si tratta di abbandonare l’idea, frutto della dimenticanza della “differenza ontologica”, dell’aver confuso l’essere con l’ente (Heidegger). Si tratta di abbandonare la concezione secondo cui l’essere è óntos on o trascendenza assoluta per ‘abitare la distanza’ tra noi e mondo, per custodire l’enigmaticità e la paradossalità del nostro legame con la realtà delle cose, una realtà nella quale pur esistiamo ma alla quale non possiamo né vogliamo ridurci. Si tratta, in altri termini, di pensare il soggetto in modo non metafisico; di superare o indebolire la visione teoretico-gnoseologica del rapporto del soggetto con se stesso e con il mondo; di aprire a un “pensiero abissale” che smascheri la pretesa dei sistemi metafisici (ergo della razionalità classica) di disciplinare ogni forma di esperienza attraverso l’elaborazione di modelli normativi della realtà umana.
‘Paradossalità ed enigmaticità della soggettività’, ‘pensiero abissale’, ‘abitare la distanza’ sono alcuni sinonimi di un pensiero filosofico che volge il suo sguardo al rapporto tra pensiero e vita e, ancor di più, al soggetto non in quanto fondamento (atteggiamento speculativo e astratto) ma come ciò che non è presente a se stesso, che si misconosce e manca a se stesso. Ciò che emerge è un soggetto problematico che ‘si trasforma’ nel momento in cui fa esperienza e che s’interroga sulla propria soggettività nel momento in cui esperisce l’‘alterità’ (intesa come realtà delle cose e degli altri).
Sono questi i lineamenti del ‘pensiero debole’, un pensiero non riducibile né riconducibile ad una dottrina o ad una scuola di pensiero; un pensiero vivente, un atteggiamento che coglie pienamente e mette in luce il senso di perturbamento/spaesamento e la paradossalità in cui versa l’uomo contemporaneo: il contrasto tra la luce frontale del cogito e l’ombra stabile del ‘non’ (non-comprensibile, non-sperimentabile), dell’assenza, dell’alterità, della dis-identificazione e della passività che nessuna teoria può diradare. Emblematico in questo senso è il programma filosofico di Pier Aldo Rovatti - colui che insieme a Gianni Vattimo ha curato il volume collettivo del 1983 dal titolo Il pensiero debole – che, come scrive Vattimo “rivolge una intensa attenzione fenomenologica a quelle zone marginali dell’esistenza che, come luoghi di possibile rivelazione, custodiscono verità non del tutto contaminate dall’inautenticità e dall’alienazione del quotidiano” (p. 294). Non solo: l’interesse di Rovatti è rivolto specificamente all’elaborazione di un pensiero filosofico in cui poter de-costruire la definizione di soggetto come sostanza e fondamento per concepirlo invece come ‘auto-costituirsi in atto’, ovvero, non più come In-sé ma come ‘luogo contraddittorio’.
Al pensiero debole in generale e a quello di Rovatti in particolare, René Scheu dedica la sua tesi di dottorato dal titolo Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti. L’intonazione di fondo che guida il testo denso e articolato di Scheu nell’avvicinamento al suo da-pensare segue i chiaroscuri di una questione centrale: la questione fenomenologica del soggetto o, meglio, la questione di un soggetto debole e paradossale, un soggetto che manca a se stesso e che si misconosce, che ascolta e vede, che tace e che parla. Quella che intraprende Scheu non è mero esercizio filosofico, interessante ma asettico, non è solo una lettura analitica attenta e cauta del pensiero di Rovatti, ma è soprattutto un dialogo interessato, partecipato che non solo inaugura una scena filosofica (il pensiero debole) a tutt’oggi quasi del tutto inesplorata e spesso fraintesa (il principale fraintendimento è quello di associare il pensiero debole con un “approccio scettico” nei confronti della realtà e della verità, quindi considerarlo come una forma di “relativismo post-modernista”), ma che scongiura altresì il pericolo d’irrigidire la prospettiva filosofica di un autore (vivente). L’accuratezza di Scheu consiste soprattutto nell’attribuire un senso peculiare e specifico alle parole e alle espressioni e, a mio avviso, anche al non-detto dei testi rovattiani, alle omissioni, alle distorsioni e alle incomprensioni. Sebbene l’intento dell’autore non sia propriamente quello di presentare una genealogia sistematica del pensiero debole, il testo può essere tuttavia considerato un momento, un sentiero della storia di questo pensiero perché ne indica una direzione di ancora vivo sviluppo. Nel proporre l’elaborazione del pensiero filosofico di Rovatti, Scheu ripercorre anzitutto le tappe della sua formazione filosofica e fa riferimento in particolare alla fenomenologia di Husserl, a Enzo Paci e all’influenza incisiva che su di lui hanno sortito le riflessioni di Heidegger sull’Essere e sull’Esserci e sul pensiero dell’essere come pensiero del soggetto.
Il volume di Scheu è diviso in tre sezioni nelle quali sono analizzate proprio le tappe della formazione del pensiero di Pier Aldo Rovatti.
Nella prima sezione - “Pier Aldo Rovatti e Enzo Paci: origini” - Scheu analizza l’interpretazione di Paci della fenomenologia di Husserl. Qui giacciono le origini fenomenologiche del pensiero di Rovatti, le questioni e le aporie da cui nascono i suoi scritti. Sono origini, spiega Scheu, che rimangono impresse e indelebili e che riemergono immer wieder anche quando egli si rivolgerà a Heidegger. Sono radici che permangono nella questione del soggetto, la questione dominante della filosofia di Rovatti e che egli elabora proprio secondo l’eredità del suo “maestro”: il soggetto va colto nella sua concretezza e nella sua negatività, non va trattato isolatamente o in maniera astratta ma solo in rapporto all’altro e al mondo. “Ritorno al soggetto” significa guardare al soggetto in direzione esistenzialistica, relazionistica e fenomenologica; insomma come colui che fa esperienza concreta di se stesso. L’appropriazione fenomenologica da parte di Rovatti ruota anzitutto attorno al concetto husserliano di epoché come ‘riduzione fenomenologica’, come risalita dalla mera percezione psicologica dell’uomo presente al mondo al trattamento fenomenologico della soggettività trascendentale in una visione vuota di contenuti, pura, de-mondanizzata mettendo tra parentesi il mondo naturale della vita. Rovatti chiama epoché ‘l’esercizio paradossale della soggettività’: la liberazione dal finito è un compito infinito; l’epoché assoluta è condannata a fallire, fallisce cioè l’idea di un abbandono assoluto del mondo e quella per cui la vita del soggetto è completamente perso nel mondo. Secondo Rovatti, spiega Scheu, proprio in questo risiede il ‘paradosso della soggettività’: nell’essere e al tempo stesso non essere nel mondo (“soggetto per il mondo e oggetto nel mondo”): il soggetto trascendentale – quello che la fenomenologia husserliana cerca – non è qualcosa di totalmente altro dal soggetto naturale; egli non può essere alieno al mondo e non può essere il frutto di una riduzione totale al mondo stesso: il soggetto non è perso nel mondo ma non è neppure presso di sé. L’‘oltrepassamento’ del mondo non è possibile e l’Io si trova diviso, scisso (Spaltung) tra un movimento trascendentale e uno naturale; è il ‘doppio movimento’ che segna il rapporto tra soggetto e mondo, tra pensiero e vita. La questione è la seguente: come può la soggettività umana costituire il mondo? Com’è possibile essere contemporaneamente soggetti per il mondo e oggetti in questo mondo? Sono questi gli interrogativi fondamentali che Rovatti eredita da Paci e attraverso i quali inizia a delineare il suo orizzonte filosofico i cui tratti peculiari sono il pudore e l’umiltà del pensiero, il ‘lasciar parlare’ le cose stesse.
Nella seconda sezione – “Husserl: questioni” – Scheu analizza proprio come Rovatti abbia dato una risposa a quegli interrogativi ri-partendo dalla lettura husserliana di tre questioni aporetiche inerenti al soggetto. L’allusione principale è al § 53 della Crisi sui “Paradossi della soggettività umana”. Rovatti mostra che qui Husserl finisce in un vero e proprio paradosso ontologico, costitutivo per l’esperienza del sé del soggetto moderno: se Husserl non riesce a cogliere il soggetto, la ragione è che il soggetto non è altro che il movimento del mancarsi. In secondo luogo Scheu considera la lettura rovattiana della Quinta Meditazione Cartesiana incentrata sulla concezione husserliana dell’esperienza dell’estraneo: Rovatti tenta di dimostrare che l’altro e l’estraneo non arrivano dall’esterno al proprio sé ma si annidano già al più intimo del soggetto perché la dimensione dell’alterità divide e costituisce al tempo stesso il soggetto. La terza questione su cui Rovatti riflette è contenuta nel § 36 delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo in cui Husserl. comincia a fare i conti con il fallimento del proprio progetto razionale (ossia quello di una soggettività trascendentale e di una fenomenologia pura) perché, pur tentando invano di concettualizzare il soggetto nella propria temporalità, si rende conto che “mancano i nomi”, che il linguaggio filosofico puro è inadeguato, e allora ricorre all’uso delle metafore linguistiche.
Sulle tre principali questioni emerse dal confronto con Husserl, Rovatti riflette partendo a posteriori dal fallimento di Husserl: qual è il senso ultimo del fallimento della riduzione fenomenologica husserliana? La fenomenologia fallisce perché non riesce a soddisfare la propria pretesa di chiarire il fenomeno della soggettività concettualizzandolo in modo chiaro e distinto (“metafisica della luce”). Secondo Rovatti l’esperienza di base della fenomenologia è in sé paradossale: più il soggetto tenta di chiarirsi a se stesso, più diventa opaco; più tenta di riconoscersi e di impadronirsi della propria conoscenza, più si sottrae alla sua presa. La fenomenologia scopre da sé l’assenza nella presenza, dell’altro nel medesimo, della differenza nell’identità: le ombre crescono, il soggetto non è più afferrabile nella propria presenza perché non sta più presso di sé, ma si segnala attraverso un’assenza che sfugge alle trame logico-concettuali del pensiero. Il soggetto non è identico a se stesso, non è pura attività e padronanza di sé poiché nel suo intimo alberga sempre un lato oscuro, un’‘altra luce’ (Derrida), una zona d’ombra, un’alterità che non è possibile dominare, una de-presentificazione e un’abissalità – l’esperienza del non sum - che non è possibile contenere e da cui non si può prescindere.
Rovatti inizia dove Husserl termina: l’enigmaticità della soggettività, la questione del soggetto che sfugge alle pretese del pensiero rappresentativo e del linguaggio enunciativo. E allora, scrive bene Scheu, secondo Rovatti, non si può parlare di soggetto e di soggettività senza chiarire che è proprio del soggetto un resto d’ombra che non si può illuminare, un ‘resto di oggettività’ che non si lascia categorizzare e ridurre a sostanza, a cogito, a Io-penso. Si può conoscere il soggetto solo cessando di comprenderlo e tentando di corrispondere al suo sottrarsi e di mettersi in relazione alla sua costitutiva paradossalità e di ‘abitarla’. Il soggetto, puntualizza Rovatti, è qualitativamente differente dal soggetto perché, mentre l’ovvietà mondana si dà, il soggetto si ritrae, si nasconde, manca se stesso, si auto-sottrae, si cela e non arriva mai a cogliersi. La concezione del soggetto come fenomeno che ‘si dà e si sottrae’ (influenza di Heidegger) non solo apre un’erranza verso il tramonto della metafisica della soggettività, ma segna altresì il senso di un indebolimento del soggetto: il fenomeno del soggetto si dimostra debole nel senso che non poggia su solide fondamenta né dispone di un essere rigido (metafisico), cosciente di sé, stabilito in se stesso, autoconsistente e animato dal desiderio di diventare trasparente a se stesso e di dominarsi. In altri termini: il processo d’indebolimento del soggetto descritto da Rovatti è l’indebolimento dell’accesso a sé e al mondo.
La Quinta Meditazione cartesiana offre a Rovatti l’occasione di riflettere su un’altra questione fondamentale: l’enigma dell’esperienza dell’estraneità, dell’intersoggettività e dell’alterità propria del soggetto; il rapporto del soggetto con la propria alterità e con l’altro; il problema del rapporto tra identità e differenza. Il problema che sorge nella fenomenologia husserliana è il seguente: come l’Io incontra l’altro dal momento in cui si procura (nell’epoché) una singolare solitudine filosofica e si riduce a una sorta di ‘Io originario’? Può sperimentarsi nella sua alterità oppure l’altro gli rimane solo come un alter Ego da percepire come immagine speculare di sé? Si tratta di una proiezione del rapporto con se stessi, di una duplicazione di sé, di un’immedesimazione? Scheu analizza questo aspetto della riflessione filosofica di Rovatti con chiarezza e ne mette in evidenza soprattutto un punto: secondo Rovatti il soggetto s’imbatte nell’estraneo non dall’esterno di sé, ma solo attraverso uno scavo nell’esperienza di sé e del proprio. Ciò che sottolinea Scheu è proprio questo processo rdi de-trascendentalizzazione del soggetto husserliano: l’altro è un’esperienza pre-riflessica e pre-predicativa che va compreso partendo da un’esperienza radicale della propria alterità; l’esperienza del proprio è originariamente esperienza dell’estraneo; l’alterità è una dimensione costitutiva della soggettività, una dimensione ineliminabile della propria identità, una modificazione di sé. Allo stesso tempo però, l’esperienza dell’altro come ‘modificazione’ è ciò che Rovatti definisce Unheimlichkeit, spaesamento: ciò che riteniamo più familiare diventa estraneo e, per questo, inquietante, angosciante. L’altro è un enigma che apre una logica paradossale in cui l’Io scopre di vivere una condizione scissa, schizofrenica: egli è presso di sé ma ‘non abita più nella propria casa’, è presso di sé e contemporaneamente fuori di sé.
A questo punto la riflessione prende un’altra direzione. Come esprimere questo indebolimento del soggetto? Se il soggetto risulta fenomeno in-dicibile, logicamente inafferrabile, a quale linguaggio fenomenologico attuale (non ideale) far ricorso senza cadere in aporie? L’essenziale, il proprio della soggettività è innominabile, esprimibile solo con immagini che non colmano, piuttosto sottolineano la mancanza e la paradossalità. Scheu analizza bene, anche attraverso pertinenti riferimenti letterari (indugia per esempio sull’influenza di Peter Handke e di Italo Calvino nella filsoofia di Rovatti), la frattura che Rovatti rileva tra la pretesa della fenomenologia di fondare una scienza pura e di costituire una soggettività trascendentale, e l’impossibilità di affidare tale costituzione a un linguaggio in grado di esprimere esattamente l’essenza della soggettività umana. Il tentativo di contenere e/o esprimere linguisticamente la purezza del pensiero e della sua espressione, e l’inanità dell’intento di concettualizzare il soggetto sono due aspetti centrali del § 36 Lezioni sulla coscienza interna del tempo di Husserl. Nell’analizzare e problematizzare questi due ulteriori aspetti dell’itinerario fenomenologico husserliano, Rovatti elabora una sorta di de-trascendentalizzazione del linguaggio fenomenologico che definisce ‘il fondo metaforico’, ovvero quello ‘spazio cieco’ che l’in-dicibile trova in immagini (metafore) che circoscrivono il fenomeno e che producono un alone indefinito di senso, una distanza, un’apertura, un’incompiutezza, una sfumatura di significato. Si tratta cioè di una ‘condensazione polisenso’ che non lascia ridurre l’immagine all’univocità del significato, che rinuncia a ogni retorica di verità e che non pretende né logica predeterminata né coerenza a posteriori. Questo, afferma con insistenza Scheu, secondo Rovatti è l’unico linguaggio che consenta al soggetto di riferire dell’esperienza spaesante di intime discrepanze: l’assenza nella presenza; il dissolversi della rigida realtà sottostante; l’oscillazione dell’identità e della vertigine del soggetto.
Il soggetto si fluidifica e l’oggetto diventa complesso: egli non può essere isolato, staccato, dedotto dal mondo in cui vive, ma deve abbandonarsi a esso con un atteggiamento poetico – l’unico in grado di accedere a quella zona d’ombra dell’in-dicibile - per sfuggire all’horror pleni di una conoscenza che pretende di cogliere il mondo in quanto tale e che alimenta le illusioni cognitive, ma che è destinata a naufragare. Secondo Rovatti, continua Scheu, è proprio a partire da questo naufragio e dall’indebolimento delle alte pretese del pensiero oggettivante che diventa possibile un nuovo rapporto con se stessi e con il mondo. È ciò che il filosofo italiano definisce l’esperienza del silenzio: tacendo, il soggetto si svuota e nel silenzio egli segue il cenno delle cose che cominciano a parlare in modo nuovo e singolare, e a splendere di colori inconsueti e straordinari.
È evidente l’eco della filosofia heideggeriana che ha influenzato profondamente la Weltanschauung di Pier Aldo Rovatti; ed è proprio a queste radici (anche) heideggeriane che Scheu dedica la terza e ultima sezione del suo libro: “Pier Aldo Rovatti e Martin Heidegger: risposte” dedicata in particolare alla interpretazione rovattiana della Kehre. Non si tratta di un distacco dalla questione fenomenologica del soggetto, ma di un suo ripensamento, di un rivolgersi a essa. Rovatti convoca l’ultimo Heidegger come pensatore di un nuovo soggetto che ‘vede e ascolta, che tace e che dice’. Del dialogo vivo ed impegnato di Rovatti e Heidegger, Scheu sottolinea soprattutto il valore della Lichtung, immagine heideggeriana che distoglie lo sguardo dal cogito autocosciente e chiuso in se stesso e che consente di rivolgerlo a un soggetto ‘altro’, de-centrato, nuovo e diverso. Come? Appunto, attraverso il ricorso alle metafore, attraverso un gioco linguistico che restituisca al pensiero il suo movimento paradossale e contraddittorio, e che rinsaldi la falsa e ingannevole separazione tra fattuale-esistenziale e trascendentale.
In questa fase della sua analisi, Scheu articola il suo discorso facendo leva soprattutto sull’interpretazione incrociata di Rovatti del pensiero di Husserl e di Heidegger, i suoi due riferimenti emblematici: da una parte il metodo di Husserl che permette di immettersi nelle cose e dall’altra la via di Heidegger che si dà solo nell’andare ‘verso le cose stesse’; il dimostrare e il ‘vedere i fenomeni’ in Husserl e il ‘mostrarsi e il lasciare apparire delle cose’ in Heidegger. Quale connessione esiste tra l’epoché (was) husserliana e il pensiero come ‘sentiero’ (wie) di Heidegger? Secondo Rovatti l’epoché non ha soltanto un significato negativo nel senso di ‘vizio intellettualistico’ (Heidegger) o un atteggiamento teoretico artificiale; essa è anche un ‘esercizio’ attraverso cui il soggetto fa una nuova esperienza di sé, del mondo e del linguaggio. Secondo Rovatti, Heidegger recupera proprio questo secondo significato nell’analitica esistenziale di Essere e tempo laddove parla del primato ontologico dell’esserci (l’uomo, l’individuo) sull’ente (la realtà delle cose) in virtù della ‘domanda sull’essere’: la catarifrangenza ontologica di cui parla Heidegger fa sì che il soggetto intenda se stesso come oggetto, così come esperisce, con distanza, se stesso come non semplicemente presente, ma come ciò-che-è e come l’unico ente in grado di porsi la domanda sull’essere. Scheu analizza chiaramente questo nodo cruciale: Rovatti imbocca la via segnata da Heidegger – quella dell’esserci come un analogon filosofico del soggetto - ma vi trova un altro senso, sottolineandone il lato debole: ‘soggetto’ significa anzitutto sub-jectum, cioè ‘gettato sotto’ e non più ‘sostanza’ o ‘fondamento’ e quest’accezione evidenzia che con il termine ‘soggetto’ non si allude più all’‘autodominio’ e alla ‘padronanza’, ma si indica piuttosto la dimensione dell’‘allontanamento’ o, meglio, del ‘ritrovarsi’.
Questo è l’itinerario filosofico di Pier Aldo Rovatti che emerge dall’interessante lavoro di Scheu: la sua è la ricerca di un dire originario, di un uso nuovo del linguaggio che gli consenta di pensare in modo nuovo l’esperienza del soggetto. La metafora lascia in sospeso il senso comune (in questo corrisponde all’epoché). Si tratta di operare uno spaesamento del linguaggio, il quale a sua volta si fonda sullo spaesamento del soggetto, prigioniero di una perenne lotta con se stesso. La coscienza di questa impossibilità è espressione di una connotazione tragica del pensiero di Rovatti.
La questione fondamentale a mio avviso è la seguente: il soggetto che decide di fare? Vuole abitare questa paradossalità? Riesce ad affrontare una tale situazione spaesante e tragica di naufragio? Vive il paradosso oppure ricostruisce un rapporto di provvisorietà rispetto all’assolutezza della paradossalità? Vivere la paradossalità implica un atteggiamento stoico di accettazione passiva e rassegnazione, oppure vivere l’enigmaticità della propria soggettività vuol dire qualcos’altro? ‘Abitare la paradossalità’, vivere lo spaesamento è un movimento, è un fare, è una condizione difficile e rischiosa che fa abbassare le pretese-difese di esaustività sul rapporto tra soggetto e mondo, vita e pensiero e, al contempo, permette di aprirsi a se stessi uno spazio in cui avere più libertà per mettersi in discussione.
Come è possibile ‘abitare la paradossalità’ e la ‘distanza’ del rapporto tra soggetto e oggetto, vita e pensiero? Attraverso una disposizione silenziosa all’ascolto del mondo, ovvero, in virtù di un ascolto pensante. Questo Rovatti intende quando fa riferimento alla lacaniana “pace della sera”: nel momento in cui entra in contatto con i paradossi dell’esperienza la parola filosofica astratta e concettuale vive un necessario spaesamento parallelo e speculare a quello che vive il soggetto di fronte a se stesso e al mondo quando scopre l’impotenza della propria presunta normatività. Uno spaesamento che, tuttavia, non chiude ma apre ad una conversione, ad un cambiamento radicale del rapporto del soggetto con se stesso e con il mondo. In questo senso – come già Kierkegaard e Heidegger avevano anticipato sul carattere propulsivo dell’angoscia come Stimmung in grado di produrre una metanoia radicale dell’individuo - lo spaesamento può essere inteso nel suo significato pieno e positivo d’investimento di senso.

Indice

Al posto di un’introduzione o della filosofica angoscia della morte
Prima Sezione
Pier Aldo Rovatti e Enzo Paci: origini
I. Introduzione: Enzo Paci, “il mio maestro”
II. Paci e Husserl, croce e delizia dell’epoché
III. L’impossibile esercizio e la divisione dell’Io
IV. Lo spirito del soggetto, lo spirito del paradosso
Seconda Sezione
Pier Aldo Rovatti e Edmund Husserl: domande
I. Introduzione: luci e ombre. Lo scacco di Husserl
II. “I paradossi della soggettività umana”: il § 53 della Crisi
III. “Se io fossi là”: la Quinta Meditazione cartesiana
IV. “Ci mancano i nomi”: § 36 delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo
V. Raccontare l’esperienza: Peter Handke e Italo Calvino
Terza Sezione
Pier Aldo Rovatti e Martin Heidegger: risposte
I. Introduzione: la svolta (Kehre) intesa come rivolgersi (Zukehr) o perché Heidegger è fenomenologo
II. Il soggetto e il dis-allontanamento o il primo Heidegger come risposta al secondo Husserl
III. “La voce dell’amico”: la petite phrase di Essere e tempo
IV. L’epoché o il tentativo di immettersi nell’abbandono (Gelassenheit)
V. L’ascolto di Lacan per Heidegger o la pace della sera
VI. La prossimità o del “dire difficilmente determinabile”
VII. La schiarita o la “luce scura” di una metafora
Al posto di una postfazione, o perché è impossibile scrivere una storia del pensiero debole
Lettera a René Scheu
di Gianni Vattimo


L'autore

René Scheu vive a Zurigo dove lavora come giornalista e filosofo. Con il testo Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti ha concluso il dottorato di ricerca in Filosofia contemporanea all’Università di Zurigo. Scheu ha pubblicato diversi volumi in lingua tedesca su argomenti inerenti alla Filosofia contemporanea, alla Psicoanalisi e all’Antropologia filosofica e ha curato diverse traduzioni dall’italiano al tedesco di testi di Antonello Sciacchitano, Massimo De Carolis e Pier Aldo Rovatti.

Engels, Friedrich, Lettere aprile 1883 – dicembre 1887

otta Comunista (Classici), Milano 2009, pp. XXVI + 729, € 30 [ISBN 978-88-86176-85-9]

Recensione di Maurizio Brignoli – 17/06/2010

Filosofia politica

È raccolta in questo volume la corrispondenza di Engels compresa fra l’aprile del 1883, appena dopo la morte di Marx (18 marzo 1883), e la fine del 1887. Sono anni di lavoro intenso per Engels che deve farsi carico della preparazione del libro II e III del Capitale e mantenere i contatti con gli esponenti del movimento socialista da diverse parti del mondo.

La mole di materiale inedito lasciata da Marx costituisce una sorpresa per lo stesso Engels: “Non appena rientro attacco seriamente il II volume, e questo sarà un lavoro enorme. Accanto a parti completamente ultimate ce ne sono altre appena abbozzate… Oltre a ciò, la grafia è leggibile assolutamente solo per me, e a fatica. Tu chiedi come sia successo che proprio a me sia stato tenuto segreto fino a che punto fosse pronta questa cosa? Molto semplice: se lo avessi saputo, lo avrei tormentato giorno e notte finché il lavoro non fosse stato completamente pronto e stampato. E questo Marx lo sapeva meglio di chiunque altro; sapeva anche che nel peggiore dei casi, ora verificatosi, il manoscritto poteva essere pubblicato da me nel rispetto delle sue intenzioni” (a Bebel, 30 agosto 1883, p. 43). Il lavoro sul secondo libro del Capitale si rivelerà più ostico del previsto, si tratterà di sistemare due stesure intere e sei frammentarie, ma ancor più complesso sarà quello per il terzo cui Engels inizierà a dedicarsi dall’85 e che vedrà la luce solo nel ‘94. Engels dovrà sacrificare anche i suoi lavori, come una nuova edizione della Guerra dei contadini che non sarà mai realizzata, ma riesce comunque a portare a termine l’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), quello che lui stesso sa che sarà “per un bel po’ di tempo l’ultimo lavoro autonomo” (a L. Lafargue, 26 maggio 1884, p. 113).

Engels è consapevole di come sul piano teorico la sua persona sia insostituibile e di fronte alle sollecitazioni di August Bebel, uno dei capi della Spd, che lo invita a lasciare l’Inghilterra risponde così: “Solo qui c’è la tranquillità necessaria per proseguire il lavoro teorico. In tutti gli altri posti si sarebbe costretti a partecipare all’agitazione pratica perdendo un’enorme quantità di tempo. Nell’agitazione pratica io non avrei contribuito più di chiunque altro; nei lavori teorici finora non vedo ancora chi possa sostituire me e Marx (...) Certamente, se la situazione fosse di nuovo come nel ’48 e ’49, allora salirei di nuovo a cavallo.” (a Bebel, 30 aprile 1883, pp. 15-6).

Un lavoro di importanza enorme quello di questi anni, svolto per altro con estrema umiltà: “Da quando abbiamo perso Marx, lo devo sostituire. Per tutta la vita ho fatto quello per cui ero adatto, cioè il secondo violino, e credo di averlo fatto in modo del tutto accettabile. Ero contento di avere un primo violino così formidabile come Marx. Ma se ora, improvvisamente, devo prendere il posto di Marx su questioni teoriche e suonare il primo violino, ciò non può accadere senza che si prendano delle cantonate, e nessuno se ne accorge più di me” (a Becker 15 ottobre 1884, p. 157).

Engels ritorna su diversi punti della ricerca da lui condotta insieme a Marx ricordando, ad esempio, come lo scopo dello stato sia quello di assicurare, tramite un potere armato, l’oppressione economica della maggioranza lavoratrice da parte della minoranza di possidenti, e come, nel momento in cui scompaia questa minoranza, scompaia la necessità di un’oppressione da parte del potere statale; d’altro canto, il proletariato deve impossessarsi in un primo momento del potere politico organizzato dello stato e per suo tramite schiacciare la resistenza della classe nemica. Iniziare la rivoluzione proletaria abolendo lo stato, come vorrebbero gli anarchici, significherebbe eliminare l’unica organizzazione politica per mezzo della quale il proletariato vittorioso può reprimere i suoi avversari e attuare la rivoluzione economica (a Van Patten, 18 aprile 1883). Ma “il proletariato vittorioso, prima di poterlo utilizzare per i propri scopi, deve trasformare il vecchio potere statale” (a Bernstein, 1 gennaio 1884, p. 61).

Nel maggio dell’84 Bismarck si dichiarò favorevole al “diritto al lavoro” nel senso della legge inglese che prevedeva, in caso di licenziamento, l’utilizzazione degli abili al lavoro nelle ‘case di lavoro’ o nelle prigioni: “Il diritto al lavoro è stato ideato da Fourier, ma per lui si realizza solo nel falansterio, quindi presuppone l’accettazione di quest’ultimo. I fourieristi (...) hanno diffuso questo motto per il suo tono innocuo. Gli operai parigini nel 1848 – nella loro assoluta mancanza di chiarezza teorica – si fecero accalappiare... Il governo lo realizzò nell’unico modo in cui una società capitalistica poteva realizzarlo: negli assurdi ateliers nazionali (...) Avanzato come richiesta separata , il diritto al lavoro non può essere attuato in nessun altro modo. Se si chiede alla società capitalistica di realizzarlo, essa può farlo solo all’interno delle proprie condizioni di esistenza” (a Bernstein, 23 maggio 1884, pp. 111-2). Se si offre il diritto al lavoro senza eliminare l’organizzazione capitalistica del lavoro, quello si trasforma in una sorta di diritto allo sfruttamento capitalistico.

Importanti anche le indicazioni fornite ai dirigenti della Spd: i parlamentari devono presentare proposte di leggi realizzabili, indipendentemente dal fatto che nessun governo borghese o degli Junker realizzerà mai leggi socialiste, sulla giornata lavorativa,sul la legislazione di fabbrica, su infortuni, malattie, invalidità sul lavoro (a Bernstein, 11 novembre 1884); si deve proporre anche la trasformazione sotto forma di affitto di grandi latifondi, altrimenti sfruttati capitalisticamente, in cooperative autoamministrate sotto il controllo dello stato che rimane proprietario del terreno: “Marx ed io non abbiamo mai dubitato che, nel passaggio all’economia completamente comunista, andasse ampiamente usata l’azienda cooperativistica come gradino intermedio”, con lo Stato che, in un primo momento, mantenga la proprietà dei mezzi di produzione così che “gli interessi particolari della cooperativa nei confronti della società nel suo complesso non possano radicarsi” (a Bebel, 20 gennaio 1886, p. 308). Le strategie parlamentari devono essere volte alla difesa del proletariato tedesco e non costituire un’occasione, per la maggioranza dei deputati, di far emergere la matrice piccolo borghese votando a favore di leggi a sostegno del capitale in crisi senza esigere alcuna contropartita. Nel giudizio di Engels la Spd è comunque un partito che, pur perseguitato dalle leggi antisocialiste di Bismarck, riesce ad ottenere grandi successi, un partito in cui “le masse sono di gran lunga migliori di quasi tutti i capi” (a Becker, 22 maggio 1883, p. 23).

Engels ricorda poi come sia sbagliato identificare gli avversari di classe con la definizione di Lassalle di “unica massa reazionaria” (Programma di Gotha) in quanto è presente una lotta fra la massa feudale e quella borghese di cui il partito del proletariato deve tenere conto (a Bernstein, 12 giugno 1883). La repubblica borghese costituisce la forma in cui deve essere combattuta fino in fondo la lotta fra proletariato e borghesia, mentre in Germania ci si trova ancora in un “miscuglio di semifeudalesimo e bonapartismo”, pertanto “da noi il primo risultato immediato della rivoluzione può e deve essere, per quanto riguarda la forma, ugualmente nient’altro che la repubblica borghese” (a Bernstein, 27 agosto 1883, pp. 41-2). La repubblica democratica, forma conseguente del dominio borghese, può diventare pericolosa solo dove vi sia un forte sviluppo del proletariato, ma può anche permanere, ad esempio in Francia e Usa, come puro e semplice dominio della borghesia (a Bernstein, 24 marzo 1884). Inoltre il suffragio universale costituisce, per ora, la leva migliore di un movimento proletario, anche se tutto ciò non implica assolutamente la rinuncia al diritto alla rivoluzione (a Bebel, 18 novembre 1884). Engels è favorevolmente colpito nel 1886 dallo sviluppo del movimento statunitense e dalla formazione di un partito operaio alla camera francese: “Solo un’organizzazione politica della classe operaia come partito, separato da tutti gli altri partiti e contrapposto ad essi, può portarli alla vittoria” (a Nieuwenhuis, 11 gennaio 1887, p. 428). Per quanto riguarda l’Inghilterra un vero movimento operaio potrà svilupparsi solo quando i lavoratori saranno posti con evidenza di fronte alla fine del monopolio mondiale dell’Inghilterra. Fino ad ora la partecipazione, come appendice della borghesia, al dominio del suddetto mercato ha determinato la nullità politica degli operai inglesi che sono stati blanditi con piccole concessioni come la legalità delle Trade Unions e degli scioperi, la rinuncia alla giornata lavorativa illimitata e il diritto di voto agli operai agiati (a Bebel, 30 agosto 1883).

Importanti richiami si trovano a proposito della natura della teoria di Marx ed Engels: “Quando si è ‘uomo di scienza’, della scienza economica, non si hanno ideali, si elaborano dei risultati scientifici, e quando, oltre a ciò, si è uomo di partito, si combatte per tradurli nella pratica. Ma quando si ha un ideale, non si può essere un uomo di scienza, perché si ha un’idea preconcetta” (a P. Lafargue, 11 agosto 1884, p. 143); “La nostra è una teoria che si sviluppa, non è un dogma che si impara a memoria e si ripete meccanicamente” (a Kelley-Wischnewetzky, 27 gennaio 1887, p. 431).

Non mancano precise analisi sullo sviluppo del capitalismo mondiale e delle sue crisi. Il monopolio inglese del mercato mondiale è ormai spezzato dallo sviluppo di Stati Uniti e Germania mentre gli altri paesi europei hanno sviluppato la loro industria e non dipendono più dall’Inghilterra, pertanto la crisi di sovrapproduzione si manifesta più rapidamente (a Kelly-Wischnewetzky, 3 febbraio 1886). Ma, soprattutto, Engels inizia a individuare la possibilità di una lunga guerra mondiale a partire dagli scontri austro-russi per il controllo dei Balcani fino alla possibilità di un intervento inglese: “In breve, c’è un grande caos e un unico risultato sicuro: un massacro di massa di un’ampiezza sinora mai vista, l’Europa stremata ad un punto mai visto, infine il crollo di tutto il vecchio sistema.... La cosa migliore sarebbe una rivoluzione russa”. Lungimirante è anche la previsione sull’effetto che la guerra mondiale avrà sul movimento operaio, risultato che del resto sarà scientemente perseguito dai governi capitalistici: “La guerra in un primo momento respingerebbe indietro il nostro movimento in tutta Europa, in molti paesi lo disperderebbe del tutto, attizzerebbe lo sciovinismo e l’odio nazionale e, tra le molte incerte possibilità, di sicuro ci offrirebbe solo il fatto che, dopo la guerra, dovremmo ricominciare da capo, ma su un terreno infinitamente più favorevole” (a Bebel, 13 settembre 1886, pp. 378-9).

Indice

Introduzione

1883

1884

1885

1886

1887


L'autore

Gli scritti principali di Engels (Barmen 1820 – Londra 1895) quali La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), La guerra dei contadini in Germania (1850), Antidühring (1878), L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880), Storia e lingua dei Germani (1882), Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Ludwig Feuerbach (1886) sono tradotti in italiano in diverse edizioni. Non esiste ancora comunque un’edizione integrale delle opere di Marx ed Engels. Tentativi erano già stati fatti con la Marx Engels Gesamtausgabe (Mega) negli anni venti in Urss e con la Marx-Engels Werke (Mew) fra il 1956 e il 1968 nella Ddr. La pubblicazione della cosiddetta Mega2, iniziata nel 1975 e interrotta dopo la caduta dei paesi socialisti, è ripresa nel 1998 grazie all’opera della Internationale Marx-Engels-Stiftung (Imes). In Italia l’edizione completa delle opere, prevista in 50 volumi (32 dei quali pubblicati fra il 1972 e il 1990 dagli Editori Riuniti), è ripresa nel 2008 con la pubblicazione del volume XXII (luglio 1870 - ottobre 1871) da parte della Città del Sole di Napoli, mentre Lotta Comunista ha pubblicato i tre volumi dal 1874 al 1887 a completamento del carteggio.

Link

Opere di Engels in italiano:

http://www.ezeta.net/homosapiens

http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/index.htm

Internationale Marx-Engels-Stiftung:

http://www.iisg.nl/imes/