Recensione di Alessandra Granito – 17/6/2010
fenomenologia, paradosso/enigma della soggettività, linguaggio, soggetto, epoché, Husserl, Heidegger, esistenza, pensiero debole, ontologia, metafisica, metafora, spaesamento, essere, esperienza, de-trascendentalizzazione.
Il soggetto è e resta un enigma. L’ambiguità è specifica del suo essere e si estende alla problematicità della correlazione ermetica tra soggetto e oggetto, pensiero e vita, coscienza e mondo ad esso inseparabilmente connesso. Soggetto e mondo si nutrono della stessa origine abissale, un’origine misteriosa che li lega e, allo stesso tempo, li separa. Superare, oltre-passare questa distanza è stato il desiderio profondo che ha animato l’uomo moderno; un desiderio che è divenuto sinonimo di una volontà feticcia di oggettivazione e naturalizzazione, di un pensiero metafisico (metafisica della soggettività) autoritario e aporetico che si è prefisso di sottomettere l’oggetto a pretese teoretico-gnoseologiche. Invece di apprendere ciò che gli si dà da pensare (il mondo, la vita nella sua irriducibile alterità), il pensiero metafisico si riduce a strumento di dominio sulla realtà. Il soggetto sembra essere lì, mentre tenta di fondare, calcolare, rappresentare, egemonizzare l’altro/l’oggetto; sembra, perché questa pretesa di dominio non può che indebolirsi, mostrare l’impotenza che in realtà la sottende e avviarsi al tramonto. Come hanno chiaramente espresso i più eminenti filosofi dell’Ottocento (Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche) e del Novecento (Heidegger, Jaspers, Sartre), quella della metafisica è la storia della violenza esercitata dalla ragione egemonica; è la storia del pensiero calcolante, di un pensiero che riflette una Weltanschauung che non solo trascina l’uomo in una spirale di necessità continua, ma che lo annoda anche ad una libertà e ad una leggerezza illusorie fino a farlo “rotolare via dal centro verso una x” (Nietzsche) e, paradossalmente, sprofondare e smarrire.
Il tramonto della metafisica della soggettività e la svolta nichilista operata da Nietzsche segnano l’inizio di un nuovo cammino verso il soggetto; un cammino lungo, tortuoso, accidentato che possa redimere, aprire scenari di pensiero che rimasti ancora “in-auditi”; un cammino che possa indicare un orizzonte di senso e una “ulteriorità di significazione” (Jaspers); un cammino che abbia cura del pensiero non come adaequatio o come ratio impostata in termini causali di fondazione e di enunciazione, ma come un’essenza provvisoria da comunicare attraverso un linguaggio semplice.
Il soggetto è e resta un enigma ed è per questo, forse, che la sua è la storia di un fraintendimento. Dalle ceneri delle smanie egemoniche del soggetto “forte” cartesiano, il soggetto ri-nasce non come disilluso o disincantato ma come soggetto de-situato, de-centralizzato che si allontana dal proprio luogo certo – la corrispondenza speculare e rassicurante tra pensante e pensato – e si dirige verso un luogo incerto, un’incognita di senso, quella parte maledetta che è stata esclusa dalle strutture forti della metafisica (archai, Gründe) e che non si lascia affatto ricomprendere nelle maglie di strutture dialettico-trascendentali del concetto di totalità (il pericolo di una “nuova metafisica”). Si tratta cioè di riappropriarsi delle condizioni di possibilità che stanno alle spalle dell’ovvio, dell’obiettivo e di ciò che è dato. Si tratta di abbandonare l’idea, frutto della dimenticanza della “differenza ontologica”, dell’aver confuso l’essere con l’ente (Heidegger). Si tratta di abbandonare la concezione secondo cui l’essere è óntos on o trascendenza assoluta per ‘abitare la distanza’ tra noi e mondo, per custodire l’enigmaticità e la paradossalità del nostro legame con la realtà delle cose, una realtà nella quale pur esistiamo ma alla quale non possiamo né vogliamo ridurci. Si tratta, in altri termini, di pensare il soggetto in modo non metafisico; di superare o indebolire la visione teoretico-gnoseologica del rapporto del soggetto con se stesso e con il mondo; di aprire a un “pensiero abissale” che smascheri la pretesa dei sistemi metafisici (ergo della razionalità classica) di disciplinare ogni forma di esperienza attraverso l’elaborazione di modelli normativi della realtà umana.
‘Paradossalità ed enigmaticità della soggettività’, ‘pensiero abissale’, ‘abitare la distanza’ sono alcuni sinonimi di un pensiero filosofico che volge il suo sguardo al rapporto tra pensiero e vita e, ancor di più, al soggetto non in quanto fondamento (atteggiamento speculativo e astratto) ma come ciò che non è presente a se stesso, che si misconosce e manca a se stesso. Ciò che emerge è un soggetto problematico che ‘si trasforma’ nel momento in cui fa esperienza e che s’interroga sulla propria soggettività nel momento in cui esperisce l’‘alterità’ (intesa come realtà delle cose e degli altri).
Sono questi i lineamenti del ‘pensiero debole’, un pensiero non riducibile né riconducibile ad una dottrina o ad una scuola di pensiero; un pensiero vivente, un atteggiamento che coglie pienamente e mette in luce il senso di perturbamento/spaesamento e la paradossalità in cui versa l’uomo contemporaneo: il contrasto tra la luce frontale del cogito e l’ombra stabile del ‘non’ (non-comprensibile, non-sperimentabile), dell’assenza, dell’alterità, della dis-identificazione e della passività che nessuna teoria può diradare. Emblematico in questo senso è il programma filosofico di Pier Aldo Rovatti - colui che insieme a Gianni Vattimo ha curato il volume collettivo del 1983 dal titolo Il pensiero debole – che, come scrive Vattimo “rivolge una intensa attenzione fenomenologica a quelle zone marginali dell’esistenza che, come luoghi di possibile rivelazione, custodiscono verità non del tutto contaminate dall’inautenticità e dall’alienazione del quotidiano” (p. 294). Non solo: l’interesse di Rovatti è rivolto specificamente all’elaborazione di un pensiero filosofico in cui poter de-costruire la definizione di soggetto come sostanza e fondamento per concepirlo invece come ‘auto-costituirsi in atto’, ovvero, non più come In-sé ma come ‘luogo contraddittorio’.
Al pensiero debole in generale e a quello di Rovatti in particolare, René Scheu dedica la sua tesi di dottorato dal titolo Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti. L’intonazione di fondo che guida il testo denso e articolato di Scheu nell’avvicinamento al suo da-pensare segue i chiaroscuri di una questione centrale: la questione fenomenologica del soggetto o, meglio, la questione di un soggetto debole e paradossale, un soggetto che manca a se stesso e che si misconosce, che ascolta e vede, che tace e che parla. Quella che intraprende Scheu non è mero esercizio filosofico, interessante ma asettico, non è solo una lettura analitica attenta e cauta del pensiero di Rovatti, ma è soprattutto un dialogo interessato, partecipato che non solo inaugura una scena filosofica (il pensiero debole) a tutt’oggi quasi del tutto inesplorata e spesso fraintesa (il principale fraintendimento è quello di associare il pensiero debole con un “approccio scettico” nei confronti della realtà e della verità, quindi considerarlo come una forma di “relativismo post-modernista”), ma che scongiura altresì il pericolo d’irrigidire la prospettiva filosofica di un autore (vivente). L’accuratezza di Scheu consiste soprattutto nell’attribuire un senso peculiare e specifico alle parole e alle espressioni e, a mio avviso, anche al non-detto dei testi rovattiani, alle omissioni, alle distorsioni e alle incomprensioni. Sebbene l’intento dell’autore non sia propriamente quello di presentare una genealogia sistematica del pensiero debole, il testo può essere tuttavia considerato un momento, un sentiero della storia di questo pensiero perché ne indica una direzione di ancora vivo sviluppo. Nel proporre l’elaborazione del pensiero filosofico di Rovatti, Scheu ripercorre anzitutto le tappe della sua formazione filosofica e fa riferimento in particolare alla fenomenologia di Husserl, a Enzo Paci e all’influenza incisiva che su di lui hanno sortito le riflessioni di Heidegger sull’Essere e sull’Esserci e sul pensiero dell’essere come pensiero del soggetto.
Il volume di Scheu è diviso in tre sezioni nelle quali sono analizzate proprio le tappe della formazione del pensiero di Pier Aldo Rovatti.
Nella prima sezione - “Pier Aldo Rovatti e Enzo Paci: origini” - Scheu analizza l’interpretazione di Paci della fenomenologia di Husserl. Qui giacciono le origini fenomenologiche del pensiero di Rovatti, le questioni e le aporie da cui nascono i suoi scritti. Sono origini, spiega Scheu, che rimangono impresse e indelebili e che riemergono immer wieder anche quando egli si rivolgerà a Heidegger. Sono radici che permangono nella questione del soggetto, la questione dominante della filosofia di Rovatti e che egli elabora proprio secondo l’eredità del suo “maestro”: il soggetto va colto nella sua concretezza e nella sua negatività, non va trattato isolatamente o in maniera astratta ma solo in rapporto all’altro e al mondo. “Ritorno al soggetto” significa guardare al soggetto in direzione esistenzialistica, relazionistica e fenomenologica; insomma come colui che fa esperienza concreta di se stesso. L’appropriazione fenomenologica da parte di Rovatti ruota anzitutto attorno al concetto husserliano di epoché come ‘riduzione fenomenologica’, come risalita dalla mera percezione psicologica dell’uomo presente al mondo al trattamento fenomenologico della soggettività trascendentale in una visione vuota di contenuti, pura, de-mondanizzata mettendo tra parentesi il mondo naturale della vita. Rovatti chiama epoché ‘l’esercizio paradossale della soggettività’: la liberazione dal finito è un compito infinito; l’epoché assoluta è condannata a fallire, fallisce cioè l’idea di un abbandono assoluto del mondo e quella per cui la vita del soggetto è completamente perso nel mondo. Secondo Rovatti, spiega Scheu, proprio in questo risiede il ‘paradosso della soggettività’: nell’essere e al tempo stesso non essere nel mondo (“soggetto per il mondo e oggetto nel mondo”): il soggetto trascendentale – quello che la fenomenologia husserliana cerca – non è qualcosa di totalmente altro dal soggetto naturale; egli non può essere alieno al mondo e non può essere il frutto di una riduzione totale al mondo stesso: il soggetto non è perso nel mondo ma non è neppure presso di sé. L’‘oltrepassamento’ del mondo non è possibile e l’Io si trova diviso, scisso (Spaltung) tra un movimento trascendentale e uno naturale; è il ‘doppio movimento’ che segna il rapporto tra soggetto e mondo, tra pensiero e vita. La questione è la seguente: come può la soggettività umana costituire il mondo? Com’è possibile essere contemporaneamente soggetti per il mondo e oggetti in questo mondo? Sono questi gli interrogativi fondamentali che Rovatti eredita da Paci e attraverso i quali inizia a delineare il suo orizzonte filosofico i cui tratti peculiari sono il pudore e l’umiltà del pensiero, il ‘lasciar parlare’ le cose stesse.
Nella seconda sezione – “Husserl: questioni” – Scheu analizza proprio come Rovatti abbia dato una risposa a quegli interrogativi ri-partendo dalla lettura husserliana di tre questioni aporetiche inerenti al soggetto. L’allusione principale è al § 53 della Crisi sui “Paradossi della soggettività umana”. Rovatti mostra che qui Husserl finisce in un vero e proprio paradosso ontologico, costitutivo per l’esperienza del sé del soggetto moderno: se Husserl non riesce a cogliere il soggetto, la ragione è che il soggetto non è altro che il movimento del mancarsi. In secondo luogo Scheu considera la lettura rovattiana della Quinta Meditazione Cartesiana incentrata sulla concezione husserliana dell’esperienza dell’estraneo: Rovatti tenta di dimostrare che l’altro e l’estraneo non arrivano dall’esterno al proprio sé ma si annidano già al più intimo del soggetto perché la dimensione dell’alterità divide e costituisce al tempo stesso il soggetto. La terza questione su cui Rovatti riflette è contenuta nel § 36 delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo in cui Husserl. comincia a fare i conti con il fallimento del proprio progetto razionale (ossia quello di una soggettività trascendentale e di una fenomenologia pura) perché, pur tentando invano di concettualizzare il soggetto nella propria temporalità, si rende conto che “mancano i nomi”, che il linguaggio filosofico puro è inadeguato, e allora ricorre all’uso delle metafore linguistiche.
Sulle tre principali questioni emerse dal confronto con Husserl, Rovatti riflette partendo a posteriori dal fallimento di Husserl: qual è il senso ultimo del fallimento della riduzione fenomenologica husserliana? La fenomenologia fallisce perché non riesce a soddisfare la propria pretesa di chiarire il fenomeno della soggettività concettualizzandolo in modo chiaro e distinto (“metafisica della luce”). Secondo Rovatti l’esperienza di base della fenomenologia è in sé paradossale: più il soggetto tenta di chiarirsi a se stesso, più diventa opaco; più tenta di riconoscersi e di impadronirsi della propria conoscenza, più si sottrae alla sua presa. La fenomenologia scopre da sé l’assenza nella presenza, dell’altro nel medesimo, della differenza nell’identità: le ombre crescono, il soggetto non è più afferrabile nella propria presenza perché non sta più presso di sé, ma si segnala attraverso un’assenza che sfugge alle trame logico-concettuali del pensiero. Il soggetto non è identico a se stesso, non è pura attività e padronanza di sé poiché nel suo intimo alberga sempre un lato oscuro, un’‘altra luce’ (Derrida), una zona d’ombra, un’alterità che non è possibile dominare, una de-presentificazione e un’abissalità – l’esperienza del non sum - che non è possibile contenere e da cui non si può prescindere.
Rovatti inizia dove Husserl termina: l’enigmaticità della soggettività, la questione del soggetto che sfugge alle pretese del pensiero rappresentativo e del linguaggio enunciativo. E allora, scrive bene Scheu, secondo Rovatti, non si può parlare di soggetto e di soggettività senza chiarire che è proprio del soggetto un resto d’ombra che non si può illuminare, un ‘resto di oggettività’ che non si lascia categorizzare e ridurre a sostanza, a cogito, a Io-penso. Si può conoscere il soggetto solo cessando di comprenderlo e tentando di corrispondere al suo sottrarsi e di mettersi in relazione alla sua costitutiva paradossalità e di ‘abitarla’. Il soggetto, puntualizza Rovatti, è qualitativamente differente dal soggetto perché, mentre l’ovvietà mondana si dà, il soggetto si ritrae, si nasconde, manca se stesso, si auto-sottrae, si cela e non arriva mai a cogliersi. La concezione del soggetto come fenomeno che ‘si dà e si sottrae’ (influenza di Heidegger) non solo apre un’erranza verso il tramonto della metafisica della soggettività, ma segna altresì il senso di un indebolimento del soggetto: il fenomeno del soggetto si dimostra debole nel senso che non poggia su solide fondamenta né dispone di un essere rigido (metafisico), cosciente di sé, stabilito in se stesso, autoconsistente e animato dal desiderio di diventare trasparente a se stesso e di dominarsi. In altri termini: il processo d’indebolimento del soggetto descritto da Rovatti è l’indebolimento dell’accesso a sé e al mondo.
La Quinta Meditazione cartesiana offre a Rovatti l’occasione di riflettere su un’altra questione fondamentale: l’enigma dell’esperienza dell’estraneità, dell’intersoggettività e dell’alterità propria del soggetto; il rapporto del soggetto con la propria alterità e con l’altro; il problema del rapporto tra identità e differenza. Il problema che sorge nella fenomenologia husserliana è il seguente: come l’Io incontra l’altro dal momento in cui si procura (nell’epoché) una singolare solitudine filosofica e si riduce a una sorta di ‘Io originario’? Può sperimentarsi nella sua alterità oppure l’altro gli rimane solo come un alter Ego da percepire come immagine speculare di sé? Si tratta di una proiezione del rapporto con se stessi, di una duplicazione di sé, di un’immedesimazione? Scheu analizza questo aspetto della riflessione filosofica di Rovatti con chiarezza e ne mette in evidenza soprattutto un punto: secondo Rovatti il soggetto s’imbatte nell’estraneo non dall’esterno di sé, ma solo attraverso uno scavo nell’esperienza di sé e del proprio. Ciò che sottolinea Scheu è proprio questo processo rdi de-trascendentalizzazione del soggetto husserliano: l’altro è un’esperienza pre-riflessica e pre-predicativa che va compreso partendo da un’esperienza radicale della propria alterità; l’esperienza del proprio è originariamente esperienza dell’estraneo; l’alterità è una dimensione costitutiva della soggettività, una dimensione ineliminabile della propria identità, una modificazione di sé. Allo stesso tempo però, l’esperienza dell’altro come ‘modificazione’ è ciò che Rovatti definisce Unheimlichkeit, spaesamento: ciò che riteniamo più familiare diventa estraneo e, per questo, inquietante, angosciante. L’altro è un enigma che apre una logica paradossale in cui l’Io scopre di vivere una condizione scissa, schizofrenica: egli è presso di sé ma ‘non abita più nella propria casa’, è presso di sé e contemporaneamente fuori di sé.
A questo punto la riflessione prende un’altra direzione. Come esprimere questo indebolimento del soggetto? Se il soggetto risulta fenomeno in-dicibile, logicamente inafferrabile, a quale linguaggio fenomenologico attuale (non ideale) far ricorso senza cadere in aporie? L’essenziale, il proprio della soggettività è innominabile, esprimibile solo con immagini che non colmano, piuttosto sottolineano la mancanza e la paradossalità. Scheu analizza bene, anche attraverso pertinenti riferimenti letterari (indugia per esempio sull’influenza di Peter Handke e di Italo Calvino nella filsoofia di Rovatti), la frattura che Rovatti rileva tra la pretesa della fenomenologia di fondare una scienza pura e di costituire una soggettività trascendentale, e l’impossibilità di affidare tale costituzione a un linguaggio in grado di esprimere esattamente l’essenza della soggettività umana. Il tentativo di contenere e/o esprimere linguisticamente la purezza del pensiero e della sua espressione, e l’inanità dell’intento di concettualizzare il soggetto sono due aspetti centrali del § 36 Lezioni sulla coscienza interna del tempo di Husserl. Nell’analizzare e problematizzare questi due ulteriori aspetti dell’itinerario fenomenologico husserliano, Rovatti elabora una sorta di de-trascendentalizzazione del linguaggio fenomenologico che definisce ‘il fondo metaforico’, ovvero quello ‘spazio cieco’ che l’in-dicibile trova in immagini (metafore) che circoscrivono il fenomeno e che producono un alone indefinito di senso, una distanza, un’apertura, un’incompiutezza, una sfumatura di significato. Si tratta cioè di una ‘condensazione polisenso’ che non lascia ridurre l’immagine all’univocità del significato, che rinuncia a ogni retorica di verità e che non pretende né logica predeterminata né coerenza a posteriori. Questo, afferma con insistenza Scheu, secondo Rovatti è l’unico linguaggio che consenta al soggetto di riferire dell’esperienza spaesante di intime discrepanze: l’assenza nella presenza; il dissolversi della rigida realtà sottostante; l’oscillazione dell’identità e della vertigine del soggetto.
Il soggetto si fluidifica e l’oggetto diventa complesso: egli non può essere isolato, staccato, dedotto dal mondo in cui vive, ma deve abbandonarsi a esso con un atteggiamento poetico – l’unico in grado di accedere a quella zona d’ombra dell’in-dicibile - per sfuggire all’horror pleni di una conoscenza che pretende di cogliere il mondo in quanto tale e che alimenta le illusioni cognitive, ma che è destinata a naufragare. Secondo Rovatti, continua Scheu, è proprio a partire da questo naufragio e dall’indebolimento delle alte pretese del pensiero oggettivante che diventa possibile un nuovo rapporto con se stessi e con il mondo. È ciò che il filosofo italiano definisce l’esperienza del silenzio: tacendo, il soggetto si svuota e nel silenzio egli segue il cenno delle cose che cominciano a parlare in modo nuovo e singolare, e a splendere di colori inconsueti e straordinari.
È evidente l’eco della filosofia heideggeriana che ha influenzato profondamente la Weltanschauung di Pier Aldo Rovatti; ed è proprio a queste radici (anche) heideggeriane che Scheu dedica la terza e ultima sezione del suo libro: “Pier Aldo Rovatti e Martin Heidegger: risposte” dedicata in particolare alla interpretazione rovattiana della Kehre. Non si tratta di un distacco dalla questione fenomenologica del soggetto, ma di un suo ripensamento, di un rivolgersi a essa. Rovatti convoca l’ultimo Heidegger come pensatore di un nuovo soggetto che ‘vede e ascolta, che tace e che dice’. Del dialogo vivo ed impegnato di Rovatti e Heidegger, Scheu sottolinea soprattutto il valore della Lichtung, immagine heideggeriana che distoglie lo sguardo dal cogito autocosciente e chiuso in se stesso e che consente di rivolgerlo a un soggetto ‘altro’, de-centrato, nuovo e diverso. Come? Appunto, attraverso il ricorso alle metafore, attraverso un gioco linguistico che restituisca al pensiero il suo movimento paradossale e contraddittorio, e che rinsaldi la falsa e ingannevole separazione tra fattuale-esistenziale e trascendentale.
In questa fase della sua analisi, Scheu articola il suo discorso facendo leva soprattutto sull’interpretazione incrociata di Rovatti del pensiero di Husserl e di Heidegger, i suoi due riferimenti emblematici: da una parte il metodo di Husserl che permette di immettersi nelle cose e dall’altra la via di Heidegger che si dà solo nell’andare ‘verso le cose stesse’; il dimostrare e il ‘vedere i fenomeni’ in Husserl e il ‘mostrarsi e il lasciare apparire delle cose’ in Heidegger. Quale connessione esiste tra l’epoché (was) husserliana e il pensiero come ‘sentiero’ (wie) di Heidegger? Secondo Rovatti l’epoché non ha soltanto un significato negativo nel senso di ‘vizio intellettualistico’ (Heidegger) o un atteggiamento teoretico artificiale; essa è anche un ‘esercizio’ attraverso cui il soggetto fa una nuova esperienza di sé, del mondo e del linguaggio. Secondo Rovatti, Heidegger recupera proprio questo secondo significato nell’analitica esistenziale di Essere e tempo laddove parla del primato ontologico dell’esserci (l’uomo, l’individuo) sull’ente (la realtà delle cose) in virtù della ‘domanda sull’essere’: la catarifrangenza ontologica di cui parla Heidegger fa sì che il soggetto intenda se stesso come oggetto, così come esperisce, con distanza, se stesso come non semplicemente presente, ma come ciò-che-è e come l’unico ente in grado di porsi la domanda sull’essere. Scheu analizza chiaramente questo nodo cruciale: Rovatti imbocca la via segnata da Heidegger – quella dell’esserci come un analogon filosofico del soggetto - ma vi trova un altro senso, sottolineandone il lato debole: ‘soggetto’ significa anzitutto sub-jectum, cioè ‘gettato sotto’ e non più ‘sostanza’ o ‘fondamento’ e quest’accezione evidenzia che con il termine ‘soggetto’ non si allude più all’‘autodominio’ e alla ‘padronanza’, ma si indica piuttosto la dimensione dell’‘allontanamento’ o, meglio, del ‘ritrovarsi’.
Questo è l’itinerario filosofico di Pier Aldo Rovatti che emerge dall’interessante lavoro di Scheu: la sua è la ricerca di un dire originario, di un uso nuovo del linguaggio che gli consenta di pensare in modo nuovo l’esperienza del soggetto. La metafora lascia in sospeso il senso comune (in questo corrisponde all’epoché). Si tratta di operare uno spaesamento del linguaggio, il quale a sua volta si fonda sullo spaesamento del soggetto, prigioniero di una perenne lotta con se stesso. La coscienza di questa impossibilità è espressione di una connotazione tragica del pensiero di Rovatti.
La questione fondamentale a mio avviso è la seguente: il soggetto che decide di fare? Vuole abitare questa paradossalità? Riesce ad affrontare una tale situazione spaesante e tragica di naufragio? Vive il paradosso oppure ricostruisce un rapporto di provvisorietà rispetto all’assolutezza della paradossalità? Vivere la paradossalità implica un atteggiamento stoico di accettazione passiva e rassegnazione, oppure vivere l’enigmaticità della propria soggettività vuol dire qualcos’altro? ‘Abitare la paradossalità’, vivere lo spaesamento è un movimento, è un fare, è una condizione difficile e rischiosa che fa abbassare le pretese-difese di esaustività sul rapporto tra soggetto e mondo, vita e pensiero e, al contempo, permette di aprirsi a se stessi uno spazio in cui avere più libertà per mettersi in discussione.
Come è possibile ‘abitare la paradossalità’ e la ‘distanza’ del rapporto tra soggetto e oggetto, vita e pensiero? Attraverso una disposizione silenziosa all’ascolto del mondo, ovvero, in virtù di un ascolto pensante. Questo Rovatti intende quando fa riferimento alla lacaniana “pace della sera”: nel momento in cui entra in contatto con i paradossi dell’esperienza la parola filosofica astratta e concettuale vive un necessario spaesamento parallelo e speculare a quello che vive il soggetto di fronte a se stesso e al mondo quando scopre l’impotenza della propria presunta normatività. Uno spaesamento che, tuttavia, non chiude ma apre ad una conversione, ad un cambiamento radicale del rapporto del soggetto con se stesso e con il mondo. In questo senso – come già Kierkegaard e Heidegger avevano anticipato sul carattere propulsivo dell’angoscia come Stimmung in grado di produrre una metanoia radicale dell’individuo - lo spaesamento può essere inteso nel suo significato pieno e positivo d’investimento di senso.
Indice
Al posto di un’introduzione o della filosofica angoscia della morte
Prima Sezione
Pier Aldo Rovatti e Enzo Paci: origini
I. Introduzione: Enzo Paci, “il mio maestro”
II. Paci e Husserl, croce e delizia dell’epoché
III. L’impossibile esercizio e la divisione dell’Io
IV. Lo spirito del soggetto, lo spirito del paradosso
Seconda Sezione
Pier Aldo Rovatti e Edmund Husserl: domande
I. Introduzione: luci e ombre. Lo scacco di Husserl
II. “I paradossi della soggettività umana”: il § 53 della Crisi
III. “Se io fossi là”: la Quinta Meditazione cartesiana
IV. “Ci mancano i nomi”: § 36 delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo
V. Raccontare l’esperienza: Peter Handke e Italo Calvino
Terza Sezione
Pier Aldo Rovatti e Martin Heidegger: risposte
I. Introduzione: la svolta (Kehre) intesa come rivolgersi (Zukehr) o perché Heidegger è fenomenologo
II. Il soggetto e il dis-allontanamento o il primo Heidegger come risposta al secondo Husserl
III. “La voce dell’amico”: la petite phrase di Essere e tempo
IV. L’epoché o il tentativo di immettersi nell’abbandono (Gelassenheit)
V. L’ascolto di Lacan per Heidegger o la pace della sera
VI. La prossimità o del “dire difficilmente determinabile”
VII. La schiarita o la “luce scura” di una metafora
Al posto di una postfazione, o perché è impossibile scrivere una storia del pensiero debole
Lettera a René Scheu
di Gianni Vattimo
L'autore
René Scheu vive a Zurigo dove lavora come giornalista e filosofo. Con il testo Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti ha concluso il dottorato di ricerca in Filosofia contemporanea all’Università di Zurigo. Scheu ha pubblicato diversi volumi in lingua tedesca su argomenti inerenti alla Filosofia contemporanea, alla Psicoanalisi e all’Antropologia filosofica e ha curato diverse traduzioni dall’italiano al tedesco di testi di Antonello Sciacchitano, Massimo De Carolis e Pier Aldo Rovatti.
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