lunedì 3 gennaio 2011

Silvana Borutti, Leggere il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein,

Ibis, Pavia 2010, pp. 180, €. 9,00, ISBN 9788871643359.

Recensione di Luciano Bazzocchi – 03/01/2011

Parole-chiave: filosofia analitica, filosofia del linguaggio

L’agile libretto di Silvana Borutti, un economico in formato tascabile, testimonia ancora una volta della vitalità della tradizione wittgensteiniana, che non cessa di riscoprire nel Tractatus nuove suggestioni e stimoli intellettuali sempre efficaci. Partendo dall’idea di filosofia come attività, la Borutti intende innestare lo sviluppo della celeberrima opera di Wittgenstein sulle vicende stesse della vita del suo autore, in una narrazione coerente e accattivante. Val la pena allora di rettificare una delle rare imprecisioni in cui sembra incorrere, quando cita le lettere di Wittgenstein a von Ficker come rivolte “al suo editore”(pp. 23 e 26): “dopo molti tentativi falliti”, von Ficker non è che, in realtà, l’ennesimo editore che rifiuta di pubblicare il Tractatus, e l’insistito scambio epistolare del 1919-20 non costituisce una pacata riflessione dell’autore “nel momento di dare alle stampe il proprio lavoro” (p. 15), bensì il frustrante tentativo di convincere un interlocutore molto sfuggente. Il particolare può non essere irrilevante, perché la Borutti, non diversamente da interpreti come Cora Diamond, James Conant e, parzialmente, l’ultimo Gargani, assume come punto di partenza il richiamo al “senso etico” del libro così come appare definito in una delle lettere in oggetto. Ora, Wittgenstein non è mai indulgente nei suoi giudizi, ed è facile capire che considera von Ficker un perfetto imbecille; non gli perdona, in particolare, il fatto di pubblicare nella sua rivista una pletora di vuoti affabulatori, mentre per il Tractatus avanza mille difficoltà. Al di là della cortesia epistolare, e di una inevitabile captatio benevolentiae nei riguardi di un possibile editore, Wittgenstein è sempre sincero, e non esita ad annunciare a von Ficker: “Sono sicuro che dal mio libro non ricaverà molto, perché lei non lo capirà”. Perciò, gli consiglia di leggere soltanto la prefazione e la conclusione, da cui dovrebbe cogliere una certa affinità con argomenti che forse lo interessano di più. Infatti, sostiene qui Wittgenstein, “il senso del libro è un senso etico […], e ciò che altri vanno continuamente inzolfando, io nel mio libro lo metto fermamente al suo posto semplicemente tacendone”. Anche questa affermazione è veritiera, e certamente importante, ma la sua interpretazione non è immediata. Forse occorre andar cauti a seguire Cora Diamond ed assumere che ciò che più conta, nel libro di Wittgenstein, sia “la cornice”, cioè appunto le frasi iniziali e finali evidenziate da Wittgenstein a beneficio di von Ficker – dato che del resto del libro egli non avrebbe capito nulla.
Rispetto alla gran parte dei commenti al Tractatus, il primo merito della Borutti è quello di mettere in evidenza, sia in quarta di copertina che nell’Introduzione, la forma inusuale del libro di Wittgenstein, forma determinata dalla numerazione decimale delle proposizioni. Così, all’impressione di una generale discontinuità, che farebbe del Tractatus una successione scomposta di aforismi (impressione a cui si ferma un buon numero di interpreti), si aggiunge lo sviluppo piramidale suggerito dai numeri decimali: “una sorta di regolamentazione gerarchica della discontinuità” (p. 44). L’intuizione circa la natura gerarchica del Tractatus viene però distratta dall’opinione depistante di Gilles Granger, preoccupato che l’ordine lineare non sia in realtà “ben ordinato”, e sconcertato dal fatto che “non è possibile definire un successore immediato per ogni numero”, cioè per ogni proposizione. Ovviamente, una struttura gerarchica non ha niente a che vedere con una successione lineare, e la questione del “successore immediato” non può avere alcun peso. Ma la digressione porta a ritenere che la gerarchia delle proposizioni si riduca a una generica stratificazione non regolamentata, lungo “una successione di cammini possibili della riflessione, di vie aperte e interrotte senza una regola fissa, che avrebbero di fatto potuto continuare”. Si tratta di un’immagine suggestiva, quasi di “sentieri interrotti”, di “strade che non portano da nessuna parte”: non verso una conclusione, ma “a insistere sul punto d’origine” (p. 45). Giustamente, la Borutti sottolinea che l’architettura delle proposizioni non deve far pensare a un edificio che si elevi in alto, e tantomeno a una scala progressiva; ma non va oltre l’idea di “un labirinto” di percorsi possibili, “un’architettura immaginaria e utopica” (p. 46). “Ma se il labirinto ammette una via regia, l’edificio del Tractatus non ammette che la dispersione frammentaria che permette il ritorno all’origine unitaria”; la conclusione è che “non ci si può allontanare dal linguaggio: non si può uscire dal labirinto, si può solo mostrarlo percorrendolo” (p. 47).  Il saggio interpretativo si offre quindi come filo d’Arianna che conduca il lettore a svolgere la catena degli aforismi secondo uno specifico punto di vista.
Perciò, il testo della Borutti, più che come neutra “lettura” del Tractatus, si caratterizza come un’interpretazione ben argomentata, che ci guidi attraverso il dedalo delle citazioni. Il merito di questa interpretazione, rispetto alle innumerevoli altre, starebbe allora nella sua efficacia espositiva, e nella capacità di evidenziare, graduando le difficoltà, i punti salienti del pensiero di Wittgenstein. Non resta che affidarsi alla sapienza pedagogica della guida, pur con una riserva inappagata – ovvero l’aspirazione a seguire, quando vi sarà, una via interpretativa che dia veramente conto dei numeri di Wittgenstein. 
La chiave ermeneutica assunta è enunciata nel primo capitolo del saggio: “Il nesso tra dire e non dire, tra senso e non senso”. La prosa elegante della Borutti ci conduce con naturalezza al tema del “mostrare” e, col capitolo secondo, al concetto di “raffigurazione”. Viene ripercorsa la teoria dell’immagine (sezioni 2.1 e 2.2 del Tractatus), che connette la raffigurazione all’immagine logica, e dunque alla forma logica della realtà. Qui le citazioni si fanno molto serrate, e in effetti le frasi di Wittgenstein, richiamate per assonanza di concetti, danno più l’impressione di un labirinto che di una chiara esposizione. La Borutti ammette che la distinzione tra forma di raffigurazione e forma logica “non è chiara”, e che alcune proposizioni di Wittgenstein “sembrano contraddirsi” (p. 109). Forse questa parte apparirebbe molto più limpida se si seguisse la linea principale esposta da Wittgenstein nella sequenza 2.11-2.19, senza inframmettere gli ulteriori livelli di commento. In tal modo, a nostro parere risulterebbe evidente come la distinzione in oggetto sia illustrata dalla contrapposizione delle proposizioni 2.17 (sulla singola immagine) e 2.18 (che generalizza, a proposito di tutte le immagini riferite al medesimo fatto; è l’unica proposizione che la Borutti non cita). Evidentemente, il “labirinto” risente del preconcetto aforistico, mentre una maggiore fiducia nella struttura gerarchica disegnata dai decimali potrebbe fare la differenza.
Gli aspetti più tecnici, sul rapporto tra “la proposizione” e “gli oggetti”, sono demandati al capitolo terzo. Il problema semplice-complesso viene reso in tutta la sua articolazione: principio atomistico da una parte, principio contestuale dall’altra. La soluzione non starebbe in un’interpretazione fenomenologica, per cui gli oggetti elementari “sarebbero oggetti di un’esperienza immediata” (p. 141), e nemmeno in un’ontologia di tipo realista; va invece impostata in termini eminentemente linguistici. Gli oggetti sono semplici “in quanto condizioni della determinatezza del senso delle proposizioni” (p. 147). Tale posizione trascendentale è meglio illustrata al capitolo quarto, che torna peraltro al tema del silenzio in filosofia. Il finale del saggio è piuttosto suggestivo e denso di osservazioni di rilievo. L’unico dubbio riguarda l’insistenza su una presunta esortazione al “silenzio”, supposizione che invece si potrebbe espungere senza nulla togliere alle restanti considerazioni. Dopo tutto, Wittgenstein si limita a sostenere che non si deve parlare in modo insensato, il che non porta all’afasia: tutt’altro. Non si pone alcun veto né al dire descrittivo della scienza e del comunicare contestuale, né all’operazione filosofica di vigilare affinché non si travalichi il confine fra ciò che è sensato e ciò che non lo è più. La Borutti sta ben attenta a non confondere l’aspetto “mistico” del mostrare e del significare col misticismo veggente e a-logico; una mistica del silenzio rischierebbe invece di ricreare commistione e intorbidamento concettuale.

Indice

I Premessa
Introduzione. L’ethos del Tractatus
I.  Il nesso tra dire e non dire, tra senso e non senso
II.  Forma logica come raffigurazione
III.  Un’ontologia di oggetti
IV.  L’irrappresentabilità della forma e il silenzio in filosofia
Appendice di Giovanni Raimo
Nota bibliografica


L'autrice

Silvana Borutti insegna Filosofia teoretica all'Università di Pavia. Le sue ricerche riguardano da tempo le categorie delle scienze umane e il rapporto tra immaginazione e conoscenza. Pubblicazioni recenti: F. Affergan, S. Borutti, C. Calame, U. Fabietti, M. Kilani, F. Remotti, Figure dell'umano: rappresentazioni dell'antropologia, Meltemi, Roma, 2005; Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero, tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina, Milano, 2006. Ha curato il fascicolo n. 3, 2009, di “Paradigmi” dedicato a “Immagine e immaginazione”.


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