venerdì 11 marzo 2011

Sciacca, Fabrizio (a cura di), Le libertà in occidente,

Soveria Mannelli, Rubbettino editore, collana Filosofia Politica, 2011, pp.189, Euro 18, ISBN: 978-88-498-2819-1

Recensione di Maria Agnese Ariaudo – 11/03/2011

Filosofia politica, filosofia del diritto

I saggi qui raccolti da Fabrizio Sciacca – frutto dell’ultimo ciclo del J. Monnet European Module “Human Rights and European Identity”- intercettano su di una traiettoria interdisciplinare dotazioni residue di senso e prospettive del discorso liberale in Occidente. Il valore aggiunto di questi contributi è dato dal modo con cui temi e problemi tradizionali o ampiamente dibattuti - le declinazioni della libertà, ma anche la tolleranza, il multiculturalismo, la neutralità etc. – sono oggettivati nei diversi ambienti teorici in modo originale e  senza presunzioni dogmatiche. Il lettore viene così accompagnato nello spazio aperto di una riflessione che fa vibrare più di una corda della sua coscienza civile.   

Nella sua circostanziata analisi, Raimondo Cubeddu  - attingendo al pensiero politico tomista e liberale – fa emergere, in antitesi rispetto ad altri teorici (cfr. pp.28-29), la mancata coincidenza tra diritti umani contemporanei e diritti naturali, per intrecciare un giudizio sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo. Si sottolinea la trasformazione dei diritti da «borghesi» a «sociali», questi ultimi informati alla riconosciuta sovranità del popolo (p. 28). Su questa direttrice il  consecutivo approdo agli Human Rights tradisce il distacco dalla cornice lockeana tripartita, nella misura in cui il titolo della «proprietà» risulta messo tra parentesi mentre – delegati gli stati e le organizzazioni internazionali a tutelare i diritti universali - sfuma la fisionomia originaria dell’individualismo liberale. Gli Human Rights emergono viepiù - rispetto ai diritti liberali – pullulanti di significati astratti o tra di loro talvolta contraddittori e segnati da un indeterminato relativismo. 
Riguardo alla Dichiarazione, la cornice classica risulta del pari sopravanzata per il concorso di Maritain, il cui finalismo tomista salda i diritti umani alla legge naturale, astraendoli tuttavia dal quadro lockeano dei Natural Rights per collocarli entro la tradizione cristiana (cfr. p. 33) e individuare corrispondenze «altre», come quella tra «diritti individuali» e «bene comune» (p. 36).
Il fil rouge – e insieme la suggestione densa di questa disamina - è l’idea che i diritti di vita, libertà e proprietà rappresentino ancora un nucleo in sé capiente e non dispersivo, funzionale a comporre la realtà umana riducendo i conflitti, senza  «proiettare il passato sul presente e ancor  meno sul futuro» (p. 39).

Corrado Del Bo – attraverso congrui riferimenti alle pronunce italiane – ricolloca, a monte del presupposto di laicità dello stato rispetto alla delicata questione religiosa in ambiente multiculturale – e dunque alla base dell’«equidistanza e imparzialità» (p. 41) delle norme rispetto alle diverse dottrine - l’idea di «neutralità liberale». Essa si dà in particolare come «neutralità degli effetti», in aderenza ad uno stato che «non deve avvantaggiare» alcuna confessione «nei fatti, in termini cioè di effetti della propria azione» (p. 44). Nel descrivere alcune occorrenze di questi «vantaggi», tanto economico-materiali (in relazione per es. all’esenzione dal regime fiscale INVIM) quanto politico-culturali (la questione dell’inserimento della religione nel curriculum scolastico), si affronta la strisciante obiezione di impraticabilità di tale neutralità,  se l’astensione della «scelta» pubblica è subordinata in linea di principio alla presenza di contesti di eguaglianza approssimativa di opportunità o di esiti(p. 52).
E’ allora possibile circoscrivere – sulla scia del distinguo tra atti e omissioni di J. Carter – ambiti del «richiedere neutralità dello stato»,  inteso come  «esigerne il non intervento» (p. 55), così come spazi di giustificazione (neutrale) dell’agire politico (ricca di spunti, al riguardo, la prospettiva sull’apertura domenicale dei negozi e sul giorno festivo scolastico, cfr. pp. 53-58).  
Al di sotto di queste descrizioni la neutralità emerge come modo della refrattarietà alle politiche di privilegio, rispetto alle singole confessioni religiose.

Dal «fatto» della multiculturalità, Maria Laura Lanzillo sviluppa un discorso sulla teoria e la prassi politiche – soprattutto europee - in pieno deficit di elaborazione del progetto moderno. Entrato in crisi l’ideale di sicurezza e coesione sociale dello stato-nazione, concetti quali sovranità, libertà, uguaglianza e così via – prova ne è il sofferto iter normativo che va dall’abortita costituzione europea al trattato di Lisbona –  faticano ad abbracciare una eterogenea alterità al di fuori della «neutralizzazione astratta delle differenze» del liberalismo da Locke in poi (p. 75). Di un multiculturalismo che – politicamente - è causa di «un discorso in trappola che si attorciglia su se stesso» (p.79), Lanzillo evidenzia con efficacia il limite del farsi vessillo tanto dell’universalismo occidentale quanto del fondamentalismo, entrambe ideologie in affanno rispetto ad una giustizia sociale avversa alla marginalità.
Attraversa Lanzillo sia lo spazio politico riservato ai gruppi dai comunitaristi (con Ch.Taylor), sia quello ritagliato per l’individuo dai  “liberali perfezionisti”  J. Raz e W. Kymlicka e, ancora, descrive alcuni modelli teorici europei. Richiama infine una serie di interpretazioni recenti del multiculturalismo: dal «monoculturalismo plurale» di A. Sen, ai  discorsi «ibridisti», fino alle antropologie del  «meticciato» e del  «creolismo».
La critica – rispetto in generale a questi discorsi – investe un «noi» statuale o comunitario che - con effetti deleteri sull’autoaccertamento stesso del concetto di libertà - si impone sul resto degli interlocutori, invece di assumere la «forma della differenza» (p. 83) e levarsi  «oltre» se stesso.

Fabrizio Sciacca rintraccia nel correlato tra la tolleranza – colta sia nella radice antropologica sia nella struttura logica – e la  «libertà»  particolare di «odiare» uno dei problemi sostanziali della coeva democrazia liberale. 
La tolleranza si dà in termini di adattamento culturale rispetto a  concezioni del bene e del giusto,  traducendosi del pari  in un minore gradimento rispetto a «ragioni» estranee alla concezione di vita «che mi costituisce (…) come la persona che sono» (p. 85); ad essa si attagliano giustificazioni deontologiche (nel senso di Rawls, basate su principi e in un’ottica di reciprocità) o teleologiche (informate alla ponderazione di utilità e danno), ma il distinguo fondamentale è che «noi tolleriamo fatti, non valori» (p. 87) - «fatti» dotati di una certa rilevanza pubblica e «la cui visibilità è resa davanti ai nostri occhi»(p. 87).  Così che l’oggetto della tolleranza si dà per sottrazione rispetto a quanto si giudica «intollerabile» - e invero in maniera non del tutto razionale, data l’influenza della variabile emozionale (p. 90). 
La parte più stringente della disamina riconduce il concetto all’asserzione coerente che non dobbiamo necessariamente amare ciò che tolleriamo e che l’odio di per sé non rappresenta un impedimento alla libertà altrui(p. 91), per cui la tolleranza e la libertà di odiare - sotto il profilo logico - non si escludono vicendevolmente. Cionondimeno emerge l’urgenza pratica di una delimitazione accorta di quegli spazi «regolati da leggi» che inibiscono il passaggio dell’odio da sentimento a movente di violenza fisica o politica e consentono l’esercizio di una tolleranza non ipocrita perché espressione oltre che di libertà di pensiero, anche di diversità di vedute.   

Vincenzo Maimone descrive le gated communities: «secessione civica»(p.125) indotta dal bisogno di sicurezza,  realtà degli Stati Uniti – ma non solo - fin da prima delle Twin Towers, forma di convivenza sociale e insieme modello urbanistico autoisolazionista, per gruppi  omogenei sul piano sociale, economico o razziale, con aspettative uniformi sui  servizi essenziali. 
Seguendo il paradosso incarnato dal principe Prospero di Poe  –  capo di una comunità di gaudenti che per fuggire un’epidemia si autoreclude - viene attraversata con acutezza – oltre che l’erosione dello spazio collettivo - la crisi di tre concetti: intanto nei nuclei ristretti e ipersorvegliati perde in spessore l’idea classica di comunità. E ciò perché a un «comune modo di sentire che si manifesta nella definizione di valori condivisi» (p. 127), si sostituisce una scelta associativa tanto spontanea quanto opportunistica e senza autentica partecipazione (e il «popolo dei Weight Watchers» di Bauman incarna qui un’efficace metafora -  pp.128-129).
La nozione di cittadinanza democratica cade poi in discredito, data la connivenza ambigua tra democrazia e pratiche di esclusione degli «altri»,  mentre si disperdono i legami tradizionalmente fondati su di un contratto sociale «tra cittadini liberi ed eguali» (p.131). 
In ultimo anche l’ideale liberale in senso classico viene travisato perché  – ci si chiede - come possono coesistere al di sotto di questo modello di convivenza, senza contraddizione, il conservatorismo, la restrizione della volontà soggettiva  e i diritti individuali?

Antonio D’Agata sonda il legame tra diritti e attività economica di una società, in concorso con il problema dell’efficace allocazione delle risorse e a partire dal divario fra entità dei bisogni materiali e beni garantiti dal processo produttivo. I diritti di monopolio, contrattuale, dei brevetti,  financo il «diritto» regolato da leggi di una impresa ad inquinare sono al centro di una ricostruzione della logica economica, mentre con l’ausilio di rappresentazioni grafiche e casi empirici si stimano valore soggettivo dei beni ed aspettative di benessere materiale dell’individuo. Si dà conto delle conseguenze attese in regime di mercato (di concorrenza perfetta o imperfetta) e degli effetti che l’attività economica di un agente produce sul benessere di altri non coinvolti direttamente (cfr. pp.141-149), ma si distende del pari una lettura puntuale,  analitica e avalutativa sotto il profilo morale,  volta ad una «progettazione delle norme giuridiche» economicamente «ottima» (p. 153-155) - dunque funzionale all’allocazione ampia delle risorse – per delimitare il piano dell’intervento diretto delle istituzioni. 
Se emerge un ventaglio di ragioni pertinenti con la libertà di operare in senso strettamente economico, cionondimeno si profilano in lontananza spazi dialettici tra questo particolare ambiente e le libertà «altre», fondamentali dell’uomo, quelle che si sottraggono in tutto o in parte alla logica quantitativa.  

Marisa Meli – con gli strumenti del diritto comparato – scompone la costruzione dell’identità europea nella ricezione dei diritti fondamentali della persona da parte dei sistemi giuridici e nella traduzione della peculiarità del modello sociale europeo.
Se i singoli ordinamenti attingono sotto il profilo giuridico alla cosiddetta western legal tradition e se si distingue tra modelli legislativo inglese, dottrinale tedesco, giudiziale inglese o tra civil law e common law – puntuale in questo senso la sinossi proposta (cfr. pp.166-173)- la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce la soggezione degli stati contraenti al diritto internazionale e la facoltà dei singoli di ricorrere presso la Corte. Mentre la Carta di Nizza -  con la piena autorità acquisita entro il trattato di Lisbona -  riscrive i  diritti fondamentali, influenza il diritto interno degli stati aderenti e rende più tangibile il «condividere un futuro di pace fondato su valori comuni» (p. 175). Una direzione importante, al di là delle resistenze – di cui si dà peraltro conto - al costituirsi dell’identità europea, emergenti da atti quali il protocollo di Polonia e Regno Unito in deroga al dettato CEDU.
Meli riflette inoltre sulle potenzialità del modello sociale europeo, riflesso in una normativa comunitaria che, pur fedele alla politica del liberalismo di mercato,  guarda ad obiettivi di sviluppo sostenibile e di coesione sociale. 
Si scorge  - tra andirivieni normativi, imperativi di mercato e istanze sociali – al di sopra della spalla degli ordinamenti dei singoli stati, un’apertura alla libertà come cooperazione,  entro il lento assorbimento dello spirito europeo.

Indice

Premessa

RAIMONDO CUBEDDU
Dai diritti naturali ai diritti umani

CORRADO DEL BÒ
La neutralità liberale e le sfide del pluralismo
1. Introduzione
2. La neutralità degli effetti
3. La neutralità degli effetti è davvero impraticabile?
4. Conclusioni

MARIA LAURA LANZILLO
Il multiculturalismo:
problema o soluzione per l’Europa politica?
1. La società europea società multuculturale
2. Teorie politiche del multiculturalismo
3. Oltre il multiculturalismo?

FABRIZIO SCIACCA
La struttura logica della tolleranza
1. Le radici antropologiche della tolleranza
2. Giustificazioni della tolleranza
3. Tolleranza e valori
4. I limiti della tolleranza
5. La libertà di odiare
6. False friends: libertà di odiare e violenza politica
7. Epilogo

VINCENZO MAIMONE
Gated communities e diritti di cittadinanza
1. No social contact, no social contract
2. Tutto sotto controllo
3. L’importante è «non partecipare»
4. L’illusione di Prospero

ANTONIO D’AGATA
Diritti e risorse scarse
1. Introduzione
2. Risorse scarse ed economia
2.1  Risorse produttive e bisogni materiali
2.2  Definizione di scienza economica
2.3  Valore soggettivo e benessere materiale
2.4  Allocazioni efficienti delle risorse
2.5  Meccanismi di allocazione delle risorse
2.6  Mercato di concorrenza perfetta ed efficiente allocazione delle risorse
2.7  Fallimenti del mercato

3. Diritti ed efficiente allocazione delle risorse
3.1  Introduzione
3.2  Diritti come contesto istituzionale
3.3  Spiegazione economica dei diritti
3.4  Norme economicamente «ottime»
3.5  Fallimento del mercato e diritti come beni

4. Conclusioni

MARISA MELI
La costruzione dell’identità europea
dal punto di vista del diritto comparato

Riferimenti bibliografici

Gli autori

Il curatore

L'autore

Fabrizio Sciacca è professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università degli studi di Catania, dove insegna anche Diritti umani e Giustizia internazionale. E’ stato allievo della Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento «Sant’Anna» di Pisa, presso la quale ha conseguito il Ph.D.
Coordinatore del modulo europeo Jean Monnet «Human Rights and European Identity» dal 2005 al 2009,  è stato impegnato nel Research Network dello Uk’s Arts and Humanities Research Council «Institutionalising Values: Beyond Human rights?». 
Il suo contributo alla filosofia politica moderna e contemporanea comprende le monografie: Il mito della causalità normativa (Giappichelli, Torino 1993); Imago libertatis. Diritto e stato nella filosofia dello spirito di Hegel (Giappichelli, Torino 1996); Il concetto di persona in Kant. Normatività e politica (Giuffrè, Milano 2000); Ingiustizia politica (Giuffrè, Milano 2003) e Filosofia dei diritti (Le Lettere, Firenze 2010).
E’ inoltre curatore dei volumi: Libertà fondamentali in John Rawls (Giuffrè, Milano 2002), Struttura e senso dei diritti. L’Europa tra identità e giustizia politica (Bruno Mondadori, Milano 2008), L’individuo nella crisi dei diritti (Il Melangolo, Genova 2009), La dimensione istituzionale europea. Teoria, storia e filosofia politica (Le Lettere, Firenze 2009).

6 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Era formula di dittatura totalitaria comunista stalinista, nonché sentenza di morte, il cosiddetto passaggio 'da diritto "borghese" a diritto sociale' che infatti non è storicamente esistito se non nella invenzione attuata dalla opposizione marxista-stalinista, fondata su decisione di porre fine alla storia occidentale e non per descrizioni di realtà storiche.
Ripresentarne schema ostile dando valore fondativo ai riferimenti di diritto alla proprietà, che invece sono dirette necessità dei fondamenti giuridici dei diritti umani ma non costuiscono tali fondamenti, conduce a trasformare l'individualismo tipico occidentale e il collettivismo tipico orientale da entificazioni di comunicazioni politiche e non entità etnografiche in chimere che subculturalmente fanno a loro volta degenerare le difese orientali ed occidentali da contrarietà per evenienze a rifiuti generici ai danni di reciproche identità; infatti l'individualitá ovunque anche in Oriente è sempre condizione necessaria non sufficiente alla collettività a sua volta conseguenza necessaria di individualità; né bisogna confondere psicologia di comunicazioni politiche con psicologia delle grandi culture (confusione purtroppo frequente finanche in ambienti di studi universitari).
Quando nella organizzazione politica occidentale prevalgono aggregazioni subculturali ed individualiste allora l'Occidente politico si espone a giusto rifiuto da Oriente politico, contro evenienza occidentale non essenza dell'Occidente stesso; così accaddero le invasioni dei mongoli di Gengis Khan e Tamerlano invece diverso era il caso degli ottomani, alcuni dei quali neo-occidentali e diverso fu quello di Maometto e dell'Islam, questa religione non incompatibile con Occidente né aliena; ugualmente la opposizione araba medio-orientale degli ultimi decenni è stata ed è contro ripresentarsi di evenienza, quella che ho descritto quale fraintendimento di comunicare politico e culturali elementarità. Analogalmente accade se Occidente si oppone ad orientale collettivismo extracomunicativo ed eccedente ovvero ad una evenienza non essenziale ad Oriente stesso; e ciò zerve ad intender ragioni delle spedizioni di Alessandro Magno, xelle espansioni territoriali ordinate degli Zar russi, ma non dei protettorati instaurati dai britannici e neppure gli altri da altri europei in Asia, ultimamente anche italiani nel Libano.

La libertà occidentale ovviamente è fuori di ogni critica ma non la libertà in Occidente; però non era da critica la distruttività marxista ma da deliberazione invasiva, da realtà e non di realtà eurasiatica non settentrionale, non a caso anche antirussa.
Ordunque restare nella orbita intellettuale del marxismo non conduce ad alcunché di sensato tantopiù che questo fu lo strumento dello stalinismo — ed era stato bandito da ultima attività di Marx, che aveva riconsiderato tutto proprio operato rifiutandolo di fatto ed in ciò trovando posto in filosofia, mentre il marxismo, in passato accettato quale interlocuzione filosoficamente-politicamente meno distruttiva, attualmente non ha più alcun posto in filosofia; e questo bisogna mostrarlo e rifiutare dunque i residuati bellici intellettuali del sovietismo della Guerra Fredda e qualora si voglia agire entro azione politica-filosofica basata su fondamenti comunitari o comuni bisogna ritornare a comprendete politogia di Lenin e del leninismo e senza porre in causa primaria la società... Altrimenti si oppongono chimere a chimere e ciò serve ad evenienza chimerica che allorché prevale non descrive alcuna vera libertà anzi — motiva giusta ira della teocrazia islamica e rifiuti interni occidentali a collaborare con chiunque si erga a rappresentante di qualcosa che invece non comprende.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In mio messaggio precedente 'zerve', 'xelle' e 'ritornare a comprendete' stanno per:

serve ,
delle ,
ritornare a comprendere .

Reinvierò testo corretto preceduto da asterisco.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

*

Era formula di dittatura totalitaria comunista stalinista, nonché sentenza di morte, il cosiddetto passaggio 'da diritto "borghese" a diritto sociale' che infatti non è storicamente esistito se non nella invenzione attuata dalla opposizione marxista-stalinista, fondata su decisione di porre fine alla storia occidentale e non per descrizioni di realtà storiche.
Ripresentarne schema ostile dando valore fondativo ai riferimenti di diritto alla proprietà, che invece sono dirette necessità dei fondamenti giuridici dei diritti umani ma non costuiscono tali fondamenti, conduce a trasformare l'individualismo tipico occidentale e il collettivismo tipico orientale da entificazioni di comunicazioni politiche e non entità etnografiche in chimere che subculturalmente fanno a loro volta degenerare le difese orientali ed occidentali da contrarietà per evenienze a rifiuti generici ai danni di reciproche identità; infatti l'individualitá ovunque anche in Oriente è sempre condizione necessaria non sufficiente alla collettività a sua volta conseguenza necessaria di individualità; né bisogna confondere psicologia di comunicazioni politiche con psicologia delle grandi culture (confusione purtroppo frequente finanche in ambienti di studi universitari).
Quando nella organizzazione politica occidentale prevalgono aggregazioni subculturali ed individualiste allora l'Occidente politico si espone a giusto rifiuto da Oriente politico, contro evenienza occidentale non essenza dell'Occidente stesso; così accaddero le invasioni dei mongoli di Gengis Khan e Tamerlano invece diverso era il caso degli ottomani, alcuni dei quali neo-occidentali e diverso fu quello di Maometto e dell'Islam, questa religione non incompatibile con Occidente né aliena; ugualmente la opposizione araba medio-orientale degli ultimi decenni è stata ed è contro ripresentarsi di evenienza, quella che ho descritto quale fraintendimento di comunicare politico e culturali elementarità. Analogalmente accade se Occidente si oppone ad orientale collettivismo extracomunicativo ed eccedente ovvero ad una evenienza non essenziale ad Oriente stesso; e ciò serve ad intender ragioni delle spedizioni di Alessandro Magno, delle espansioni territoriali ordinate degli Zar russi, ma non dei protettorati instaurati dai britannici e neppure gli altri da altri europei in Asia, ultimamente anche italiani nel Libano.

La libertà occidentale ovviamente è fuori di ogni critica ma non la libertà in Occidente; però non era da critica la distruttività marxista ma da deliberazione invasiva, da realtà e non di realtà eurasiatica non settentrionale, non a caso anche antirussa.
Ordunque restare nella orbita intellettuale del marxismo non conduce ad alcunché di sensato tantopiù che questo fu lo strumento dello stalinismo — ed era stato bandito da ultima attività di Marx, che aveva riconsiderato tutto proprio operato rifiutandolo di fatto ed in ciò trovando posto in filosofia, mentre il marxismo, in passato accettato quale interlocuzione filosoficamente-politicamente meno distruttiva, attualmente non ha più alcun posto in filosofia; e questo bisogna mostrarlo e rifiutare dunque i residuati bellici intellettuali del sovietismo della Guerra Fredda e qualora si voglia agire entro azione politica-filosofica basata su fondamenti comunitari o comuni bisogna ritornare a comprendere politogia di Lenin e del leninismo e senza porre in causa primaria la società... Altrimenti si oppongono chimere a chimere e ciò serve ad evenienza chimerica che allorché prevale non descrive alcuna vera libertà anzi — motiva giusta ira della teocrazia islamica e rifiuti interni occidentali a collaborare con chiunque si erga a rappresentante di qualcosa che invece non comprende.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Sono spiacente per aver dovuto reinviare mio messaggio con testo corretto; purtroppo ho dovuto scrivere in mezzo a contrarietà da parte da chi da presso e di presso dove sto, che con rumori, parole, azioni, atti di minaccia e di interdizione ai danni miei e non solo miei e finanche ingannando animali mi ha costretto ad altri pensieri pure e necessariamente.
Ma su Internet basta ulteriore sufficiente invio, perché resta che Internet non è una libreria.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In messaggio del
20 settembre 2019 10:36

'politogia'

stava è sta per:

politologia .

Ulteriore del tutto sufficiente invio pare ora proprio accaduto; comunque era facile trovar scrittura corrispondente giusta anche prima.
Purtroppo casi sfortunati e persecuzioni contro di me a causa di stesso scritto, mi impedirono di reperire di nuovo sùbito e poi ad altro dovevo pensare.
Reinvierò con correzione, usando due asterischi.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

**

Era formula di dittatura totalitaria comunista stalinista, nonché sentenza di morte, il cosiddetto passaggio 'da diritto "borghese" a diritto sociale' che infatti non è storicamente esistito se non nella invenzione attuata dalla opposizione marxista-stalinista, fondata su decisione di porre fine alla storia occidentale e non per descrizioni di realtà storiche.
Ripresentarne schema ostile dando valore fondativo ai riferimenti di diritto alla proprietà, che invece sono dirette necessità dei fondamenti giuridici dei diritti umani ma non costuiscono tali fondamenti, conduce a trasformare l'individualismo tipico occidentale e il collettivismo tipico orientale da entificazioni di comunicazioni politiche e non entità etnografiche in chimere che subculturalmente fanno a loro volta degenerare le difese orientali ed occidentali da contrarietà per evenienze a rifiuti generici ai danni di reciproche identità; infatti l'individualitá ovunque anche in Oriente è sempre condizione necessaria non sufficiente alla collettività a sua volta conseguenza necessaria di individualità; né bisogna confondere psicologia di comunicazioni politiche con psicologia delle grandi culture (confusione purtroppo frequente finanche in ambienti di studi universitari).
Quando nella organizzazione politica occidentale prevalgono aggregazioni subculturali ed individualiste allora l'Occidente politico si espone a giusto rifiuto da Oriente politico, contro evenienza occidentale non essenza dell'Occidente stesso; così accaddero le invasioni dei mongoli di Gengis Khan e Tamerlano invece diverso era il caso degli ottomani, alcuni dei quali neo-occidentali e diverso fu quello di Maometto e dell'Islam, questa religione non incompatibile con Occidente né aliena; ugualmente la opposizione araba medio-orientale degli ultimi decenni è stata ed è contro ripresentarsi di evenienza, quella che ho descritto quale fraintendimento di comunicare politico e culturali elementarità. Analogalmente accade se Occidente si oppone ad orientale collettivismo extracomunicativo ed eccedente ovvero ad una evenienza non essenziale ad Oriente stesso; e ciò serve ad intender ragioni delle spedizioni di Alessandro Magno, delle espansioni territoriali ordinate degli Zar russi, ma non dei protettorati instaurati dai britannici e neppure gli altri da altri europei in Asia, ultimamente anche italiani nel Libano.

La libertà occidentale ovviamente è fuori di ogni critica ma non la libertà in Occidente; però non era da critica la distruttività marxista ma da deliberazione invasiva, da realtà e non di realtà eurasiatica non settentrionale, non a caso anche antirussa.
Ordunque restare nella orbita intellettuale del marxismo non conduce ad alcunché di sensato tantopiù che questo fu lo strumento dello stalinismo — ed era stato bandito da ultima attività di Marx, che aveva riconsiderato tutto proprio operato rifiutandolo di fatto ed in ciò trovando posto in filosofia, mentre il marxismo, in passato accettato quale interlocuzione filosoficamente-politicamente meno distruttiva, attualmente non ha più alcun posto in filosofia; e questo bisogna mostrarlo e rifiutare dunque i residuati bellici intellettuali del sovietismo della Guerra Fredda e qualora si voglia agire entro azione politica-filosofica basata su fondamenti comunitari o comuni bisogna ritornare a comprendere politologia di Lenin e del leninismo e senza porre in causa primaria la società... Altrimenti si oppongono chimere a chimere e ciò serve ad evenienza chimerica che allorché prevale non descrive alcuna vera libertà anzi — motiva giusta ira della teocrazia islamica e rifiuti interni occidentali a collaborare con chiunque si erga a rappresentante di qualcosa che invece non comprende.

MAURO PASTORE