giovedì 15 settembre 2011

Fistetti, Francesco, La svolta culturale dell’Occidente. Dall’etica del riconoscimento al paradigma del dono

Perugia, Morlacchi, 2010, pp. 256, euro 18, ISBN 9788860743824

Recensione di Francesco Giacomantonio – 30/05/2011

Due dei maggiori percorsi intellettuali che caratterizzano il recente dibattito culturale, filosofico, politico e sociologico sono quelli che orbitano attorno alle teorie sul riconoscimento e a quelle sul dono. Questo volume di Fistetti, che raccoglie alcuni contributi dell’autore, in parte già pubblicati su riviste specializzate, in parte inediti, tenta di incrociare e integrare questi due approcci.
L’idea di fondo, come esplicitato anche dal titolo del volume, è che il discorso su riconoscimento e dono possa essere alla base di una svolta per la civiltà occidentale. L’egemonia culturale dell’Occidente, infatti, non è più incontrastata ed è esposta alle questioni della diversità culturale poste dalla globalizzazione: pluralismo, cittadinanza, diritti, giustizia, redistribuzione, identità, democrazia, sviluppo economico, diventano i nodi chiave della condizione politica e sociale della fase storica attuale. Rispetto a questa condizione, Fistetti coglie una sorta di esigenza epistemologica, ossia quella di come poter interpretare e comprendere problemi che diventano sempre più trasversali, globali e planetari. È, dunque, necessaria “una nuova totalità dei saperi”(p. 79), che viene individuata nella costruzione di “una nuova teoria critica della società” (p. 77), capace di connettere filosofia morale, teoria sociale e analisi politica. La nuova teoria critica, che Fistetti auspica, richiede una concezione del politico differente da quelle sinora elaborate: non è, quindi, sostenuta né l’ipotesi della forma hobbesiana di uno stato di sicurezza globale, né quella della forma mondiale di un potere di incivilimento e di pianificazione; la proposta, piuttosto, è quella, il cui senso è espresso da Mauss e Arendt, che consiste nella rinuncia al mito della sovranità come centro di riferimento dell’organizzazione politica della comunità. Ora, nella società planetaria tutte le culture sono alla ricerca del riconoscimento e il loro valore, come osserva Caillè, è misurabile in rapporto alla loro capacità di donare. In tale ottica, argomenta Fistetti, “per scongiurare la chiusura etnocentrica e auto apologetica della ragione occidentale” (p. 153), si impone la necessità di uscire dall’universo della forza e dal cerchio dell’assiomatica utilitarista dell’interesse, per sperimentare la categoria del dono e creare paradigmi ibridi. Riattivare il ciclo del dono nella civiltà occidentale ha, in effetti, una rilevanza concreta, pratica, politica, poiché implica che economia e cultura non possono più agire separatamente, ma possono allearsi in forme del tutto inedite, in cui quantità e qualità, valore di scambio e valore d’uso, vengano riconiugati in vista della produzione e riproduzione del legame sociale. Questo passaggio è fondamentale, perché può consentire di prendere le distanze dall’ ”ideologia del progresso” (p. 189) e di riproporre, invece, una questione più fondante, che la razionalità occidentale ha, col tempo, rimosso, ma che era alla sua origine, ossia la questione del senso: quello che è ritenuto “progresso” all’interno dei paradigmi scientifici o della comunità dei ricercatori non fornisce sic et simpliciter una misura del “progresso” nell’ambito della convivenza umana” (p. 190).
Nel condurre una trattazione ricca di spunti e riferimenti e capace di spaziare pregevolmente nel panorama delle filosofie e teorie sociali contemporanee, passando per autori come Taylor, Mauss (cui è anche dedicata l’Appendice del testo, pp. 213-223), Arendt, Habermas, Schmitt, Sen, Caillè, Honneth, Rawls (solo per ricordare alcuni, tra i più importanti, citati nel volume) e per i principali dibattiti ad essi associati, il contributo di Fistetti invita a riconsiderare seriamente il nesso tra filosofia e scienze sociali rispetto ai problemi, anche politici, dell’Occidente contemporaneo. In quel nesso, oggi a volte trascurato, è forse in gioco non tanto una qualche nostalgia della Scuola di Francoforte, quanto il più profondo problema del senso, che la civiltà attuale vuole dare alla sua riflessione e alle modalità della sua esistenza.

Indice

Introduzione
1. Diversità culturale, globalizzazione, democrazia
2. Il diritto ad avere diritti
3. Riconoscimento, redistribuzione e dono: una controversia filosofica e politica
4. È possibile una società del riconoscimento?
5. Parola chiave: riconoscimento
6. Il “Cultural Turn” delle società multiculturali: teologia politica, re-incantamento del mondo e riconoscimento delle identità
7. La nuova frontiera del senso: il paradigma del dono

Appendice. Dal tempo delle nazioni alla civiltà planetaria dell’inter-nazione. La lezione di Marcel Mauss

Bibliografia

3 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Non ha senso far considerazione, per giunta antropologicamente (riconoscimento e dono sono oggetti diretti di scienza antropologica non sociologica) di un Occidente autoreferenziale senza specificare quale esso sarebbe.
L'occidentalità è una singola pluralità e bisogna tener conto nel pensarne dei limiti delle intellettualizzazioni e per integrarle con le sensibili emotive intuizioni: non intellettuali sia pure non irrazionali od irrazionali ma in tal ultimo caso secondo l'accordo, filosofico o direttamente sapienziale, tra decisionalità e razionalità, anche in merito al far filosofia o ad avvalersene.
L'attuale ruolo politico-globale occidentale (anche quello di anni 2010 e 2011) è in effetto derivato anche da forti compresenze extraoccidentali
— in America dal mondo degli indiani sia dall'Asia sia della sola America ((di cui in Settentrione essi vivono ultraorientalità o per eccezionalità di luoghi o perché nel Settentrione del Nuovo Continente l'Occidente è dato non dalla natura stessa ma dal rapportarsi ad essa secondo essa stessa, ciò non consentendo tutto e dunque del resto essendovi una parte disponibile ad ultraorientalità secondo distinzione tra Settentrione e non Settentrione e rapporto più stretto ma più distaccato con naturalità dei luoghi, mentre il restante in America Settentrionale è: autoctono, con conoscenza intuitiva dei luoghi in stesso àmbito civile ma in rapporti tutt'altro che stretti con natura (gli americani in tutto somiglianti agli europei americani ed in quasi tutto agli europei); o eschimese, ad estremo Settentrione e con realtà distinte di vita indigena (gli amerindi, presenti però diversamente anche nel Meridione) e nomade secondo orientamento col Nord o di vita stabile di oriundi (gli eredi reali, recenti o non, dei cosiddetti "amèri", originarii primi o primari esploratori del Nuovo Continente)...)); in Africa dal mondo esclusivamente arabo autoctono di origine non autoctona (...); in Eurasia settentrionale-nordica dal mondo eschimese orientaleggiante non orientale (di fatto in varie guise russo o 'rus'...), in Europa dagli europei autoctoni od oriundi o di retaggi eschimesi originarii od originari-originali (ho dato informazioni etnografiche perché non restasse antropologia sociale unico scientifico nesso peraltro inadeguato) —
dunque l'autoreferenzialità è stata e resta per Occidente ruolo marginale; abusato da ipercritico antioccidentalismo. Difatti ipercriticità, occidentalità, filosoficità, non stanno assieme ma c'è chi ne assomma per paralizzare attività filosofiche in polemiche estenuanti ponendone parzialità contro completezze.
La passata scuola di Francoforte in tali beghe e brighe antioccidentali ri-rappresenta distruttività dei moventi di essa esterni ad essa totalitari-comunisti-antioccidentali. Ripensare l'insegnamento di tal scuola, che fu anche sopravvivenza filosofica provvisoriamente filomarxista entro antifilosofia marxiana a scopo di moderazione e saggezza e che durante Guerra Fredda era dai nemici calitalisti preferibile sovente preferita — ma infine disattesa e deferiti i moventi esterni ad essa — ai diretti dispacci intellettuali-politici sovietici, implica pure constatarne l'interna apertura e disponibilità, in Europa, a realtà culturali eurasiatiche nonché asiatiche e con influenza delle eurasiatiche soltanto; allora è anche illogico che se ne deduca autoreferenzialità politica-sociale di Occidente, per il quale i tempi odierni esigono autoriappropriazione culturale.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In mio messaggio precedente 'calitalisti' sta per:

capitalisti.

Reinvierò messaggio con correzione inclusa in stesso testo.

Internet non è una libreria e aver dovuto procedere a reinvio non è pregiudicante né pregiudizievole.

(Sono spiacente per inconveniente, causato da minacce contro mia e non solo mia libertà fattemi udire dai miei pressi mentre componevo ed inviavo messaggio, alle quali ho dovuto prestare attenzione e per le quali ho dovuto anche dispormi a mentali difese, seguite le minacce poi da ingiurie contro umani in particolare anche occidentali (!) poteri di difesa e da offese generiche contro limiti di umanità e delle cose, in definitiva parole e azioni antiumanitarie tanto sciocche fino a violenza e segni da parte di chi stesso minacciava di propensione a viver meno e di volontà di invadenza contro altrui non coinvolgimento... Ovviamente non è un caso che accadeva mentre scrivevo codesto (non questo) mio messaggio... ho percepito psicologico disamore per la vita da parte di chi minacciava e sua spropositata curiosità percettiva unita ad altrettanto spropositata, fisiologica, insensibilità a stessi risultati di percezioni, tanto da poterne avvertire effetti a distanza di tanfo emanante da azioni di chi minacciava e offendeva e per controreazioni naturali ambientali... Sciagure di queste purtroppo son mosse specificamente contro filosofia e chi se ne avvale. )

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

*
Non ha senso far considerazione, per giunta antropologicamente (riconoscimento e dono sono oggetti diretti di scienza antropologica non sociologica) di un Occidente autoreferenziale senza specificare quale esso sarebbe.
L'occidentalità è una singola pluralità e bisogna tener conto nel pensarne dei limiti delle intellettualizzazioni e per integrarle con le sensibili emotive intuizioni: non intellettuali sia pure non irrazionali od irrazionali ma in tal ultimo caso secondo l'accordo, filosofico o direttamente sapienziale, tra decisionalità e razionalità, anche in merito al far filosofia o ad avvalersene.
L'attuale ruolo politico-globale occidentale (anche quello di anni 2010 e 2011) è in effetto derivato anche da forti compresenze extraoccidentali
— in America dal mondo degli indiani sia dall'Asia sia della sola America ((di cui in Settentrione essi vivono ultraorientalità o per eccezionalità di luoghi o perché nel Settentrione del Nuovo Continente l'Occidente è dato non dalla natura stessa ma dal rapportarsi ad essa secondo essa stessa, ciò non consentendo tutto e dunque del resto essendovi una parte disponibile ad ultraorientalità secondo distinzione tra Settentrione e non Settentrione e rapporto più stretto ma più distaccato con naturalità dei luoghi, mentre il restante in America Settentrionale è: autoctono, con conoscenza intuitiva dei luoghi in stesso àmbito civile ma in rapporti tutt'altro che stretti con natura (gli americani in tutto somiglianti agli europei americani ed in quasi tutto agli europei); o eschimese, ad estremo Settentrione e con realtà distinte di vita indigena (gli amerindi, presenti però diversamente anche nel Meridione) e nomade secondo orientamento col Nord o di vita stabile di oriundi (gli eredi reali, recenti o non, dei cosiddetti "amèri", originarii primi o primari esploratori del Nuovo Continente)...)); in Africa dal mondo esclusivamente arabo autoctono di origine non autoctona (...); in Eurasia settentrionale-nordica dal mondo eschimese orientaleggiante non orientale (di fatto in varie guise russo o 'rus'...), in Europa dagli europei autoctoni od oriundi o di retaggi eschimesi originarii od originari-originali (ho dato informazioni etnografiche perché non restasse antropologia sociale unico scientifico nesso peraltro inadeguato) —
dunque l'autoreferenzialità è stata e resta per Occidente ruolo marginale; abusato da ipercritico antioccidentalismo. Difatti ipercriticità, occidentalità, filosoficità, non stanno assieme ma c'è chi ne assomma per paralizzare attività filosofiche in polemiche estenuanti ponendone parzialità contro completezze.
La passata scuola di Francoforte in tali beghe e brighe antioccidentali ri-rappresenta distruttività dei moventi di essa esterni ad essa totalitari-comunisti-antioccidentali. Ripensare l'insegnamento di tal scuola, che fu anche sopravvivenza filosofica provvisoriamente filomarxista entro antifilosofia marxiana a scopo di moderazione e saggezza e che durante Guerra Fredda era dai nemici capitalisti preferibile sovente preferita — ma infine disattesa e deferiti i moventi esterni ad essa — ai diretti dispacci intellettuali-politici sovietici, implica pure constatarne l'interna apertura e disponibilità, in Europa, a realtà culturali eurasiatiche nonché asiatiche e con influenza delle eurasiatiche soltanto; allora è anche illogico che se ne deduca autoreferenzialità politica-sociale di Occidente, per il quale i tempi odierni esigono autoriappropriazione culturale.

MAURO PASTORE