mercoledì 9 novembre 2011

Forni, Lorena, La laicità nel pensiero dei giuristi italiani: tra tradizione e innovazione

Milano, Giuffrè, 2011, pp. 335, euro 37, ISBN 88-14-15364-7

Recensione di Umberto Imbriano - 25/06/2011  
Al pari di molti altri termini oggetto di controversie intellettuali, “l’etichetta di laico o di laicità è venuta ad indicare una moltitudine e varietà di caratteristiche e di virtù” (p.1).
Occorre verificare, sostiene Lorena Forni, entro le spire della torsione semantica del concetto di laicità, una continuità od una rottura che raccolga, racconti, rievochi le sorti di una disputa in continua trasformazione. La riattualizzazione del dibattito sulla laicità, 



scaturente dalla impellente esigenza di regolamentazione delle complesse vicende della bioetica e del pluralismo etico-normativo impone, preliminarmente, una interrogazione di quelle voci liberali e laiche che hanno scritto, ben oltre la contrapposizione di giurisdizionalismo e separatismo, la metrica della relazione fra stato e confessioni religiose, tra laici e credenti.
Emergono, dunque, decise linee di continuità tra elaborazioni dottrinali risalenti ed approdi giurisprudenziali e dogmatici più recenti. La riflessione che Francesco Ruffini conduce sino alla metà degli anni venti e quella che Arturo Carlo Jemolo, suo allievo, formula sino alla metà degli anni cinquanta, infatti, ispirano, in buona misura, taluni degli approdi più significativi cui porrà capo la sentenza della Corte Costituzionale n. 203 del 12 aprile 1989. Con tale pronunzia la Corte muove “il primo passo per non lasciare più ‘dormiente’ il supremo principio di laicità” (pp. 230-231) , così segnando “un momento politico epocale, in cui sono emerse la forza propulsiva e la tensione riformatrice del patto costituzionale” (V. Pugliese, Il principio di laicità nella giurisprudenza costituzionale, in “Rivista penale” n. 11/2006, p. 1170).
V’è, nondimeno, nella consapevolezza che la laicità debba riguardare anche le confessioni religiose diverse da quella cattolica, un’acclarata discontinuità con quella tradizione ottocentesco-liberale che aveva ipostatizzato  la laicità entro la rigida schermatura dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, misconoscendo il valore del pluralismo religioso ed offuscando i diritti soggettivi e le libertà individuali.
In un primo momento, Francesco Ruffini avvalora l’orizzonte lockiano della tolleranza, traslando l’intolleranza  religiosa al piano della intolleranza civile (cfr. F. Ruffini, La libertà religiosa, Storia dell’idea, Feltrinelli, Torino, ed. 1991, ristampa dell’opera edita per la prima volta nel 1901), ed opponendovi il dispositivo della libertà religiosa. La regolamentazione della pacifica convivenza e neutralizzazione del conflitto, è operata a partire dalla coesistenza del principio di uguaglianza con il diritto positivo di libertà religiosa. Con ciò, Ruffini si pone in aperto contrasto con la proclamazione di fede dall’articolo 1 dello Statuto Albertino, che recita: “La religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi” (p. 28). In seguito, l’autore torinese, superando le architetture classiche del giuspositivismo e del giusnaturalismo e lasciandosi alle spalle l’idea dell’autolimitazione dello Stato sostenuta dalla pubblicistica tedesca, si apre alla suggestione istituzionalista proposta dal Santi Romano. Ciò consente, non senza resti problematici, a Ruffini di affermare che: “In cotesta concezione dell’ordinamento giuridico […] diritti subiettivi degli individui si possono asserire senza fare ricorso a elementi pregiuridici o metagiuridici o sopragiuridici, e cioè senza momenti ideali o trascendenti” (F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Il Mulino, Bologna 1992, ristampa dell’opera edita per la prima volta nel 1924, p. 247).  Affrancatosi  dalla tolleranza di matrice lockiana ed emancipatosi dalla contrapposizione di giurisdizionalismo e separatismo (sopraffatti entrambi dalla complessità di un quadro legislativo ibrido che somma l’articolo 1 dello Statuto Albertino alla legge sulle Guarentigie), Ruffini propone una ridefinizione del concetto di libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, consistente nella facoltà dell’individuo di credere, o non credere, in ciò che più gli aggrada. “Rispetto al 1901 è ben più che chiedere che tutte le religioni stiano sullo stesso piano e che si abbia lo stesso rispetto per amor di pace e di pacifica convivenza sociale. È l’affermazione compiuta che diritto di libertà religiosa significa qualcosa di più e di diverso” (pp. 72-73). L’individuo, libero ed autodeterminato, è, dunque, il vero attore dello Stato laico ruffiniano, quello Stato che, ribadendo senza esitazione alcuna la sua supremazia di contro alle chiese, s’adopera per il riconoscimento più ampio della libertà religiosa e di coscienza.
Se con ciò già si palesa la straordinaria portata innovativa della riflessione dell’autore torinese rispetto allo strisciante confessionalismo praticato dallo Statuto Albertino ed a quello non meno spregiudicato che propizierà gli Accordi Lateranensi del 1929, ancor più luminoso pare il contributo che Ruffini ha saputo offrire alla teoria del moderno Stato costituzionale di diritto in relazione ai meccanismi di protezione e garanzia delle libertà fondamentali e di quella religiosa. Egli afferma infatti: “Il diritto fondamentale in questione o il diritto di libertà deve essere stato sancito in una Dichiarazione dei Diritti o da una Costituzione; e poi, per la riforma della Costituzione devono essere competenti altri organi e necessarie altre forme che per la confezioni delle leggi ordinarie” (F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, cit., p. 251).
Nel 1926 il Paese precipita nella spirale delle leggi eccezionali. Agli studiosi di diritto ecclesiastico di spirito laico, succedono altri di spirito nettamente guelfo (cfr. pp. 151-156). Il silenzio cui è indotta la riflessione dei giuristi accompagna la stipulazione degli Accordi Lateranensi. Il Concordato del 1929 ricompone la questione romana degradando la supremazia dello Stato rispetto alla Chiesa (in spregio anche al più indulgente giurisdizionalismo confessionistico), e tributando ad essa una sovrabbondante sovranità temporale (oltre alla piena soggettività di diritto internazionale), in grado di tradurre quell’antico e medievale progetto dello “Stato universale, voluto e fondato da Dio” (p. 133). Al redivivo confessionalismo di Stato viene, tra l’altro, improntata la disciplina del matrimonio cattolico (cui vengono riconosciuti effetti civili) e quella dell’insegnamento della dottrina cristiana (resa obbligatoria sia nelle scuole elementari che medie). La disciplina dei culti acattolici (che fa il paio con la materia concordataria) dispone, invece, che siano soltanto  ammessi i culti diversi da quelli cattolici autorizzati dall’autorità statale che non siano contrari all’ordine pubblico ed al buon costume.
Se per tutti gli anni Trenta il tenore guelfo della dogmatica continua a sorreggere l’impalcatura confessionista degli Accordi, a partire dalla metà degli anni Quaranta, lo spirito laico riappare a dissotterrare le sorti della dottrina giuridica. La testimonianza di autori come Carlo Rosselli, Gabriele Pepe, Guido Calogero, Luigi Salvatorelli e Carlo Arturo Jemolo precede e accompagna, infatti, i lavori dell’Assemblea  Costituente. Nel mentre prende forme il Patto Costituzionale che proclamerà, seppur troppo timidamente, il diritto alla libertà religiosa (si veda la centralità assunta dall’art. 7, il quale costituzionalizza il procedimento di revisione degli Accordi Lateranensi), Carlo Arturo Jemolo viene anticipando talune delle più significative riflessioni che, di lì a qualche decennio, costituiranno l’ossatura della declinazione democratica del concetto di laicità, assunto in seno alla sentenza della Corte Costituzionale n. 203/1989. Egli infatti, sulla scorta dell’opera del Salvatorelli, auspica che la produzione normativa, quand’anche costituzionale, possa concretare la presenza dei differenti orizzonti morali e religiosi entro “un patrimonio di valori condivisi”, sì da costituire un “nucleo etico minimo, a cui ogni componente della società dovrà ritenersi vincolata, ancor prima che sul piano giuridico, sul piano morale” (p. 177). Jemolo, dunque, rifuggendo da una concezione oggettivistica della morale, “rinvia alla necessità della discussione democratica nell’orientare le scelte, individuali o collettive, e all’importanza di non perdere di vista l’obiettivo di fondare e mantenere una società pacificata” (p. 178).
La differita entrata in funzione della Corte Costituzionale, le pressioni della Chiesa sulla classe politica e sulla D.C. in particolare, oltre all’inerzia legislativa del parlamento in relazione alla disciplina pattizia dei culti acattolici (disciplinati dall’art. 8 Cost.) ritardano quel procedimento virtuoso di attuazione in senso laico e pluralista della Carta, che soltanto a partire dai primi anni Sessanta mieterà i primi ragguardevoli frutti. Da questo momento si apre un arco storico di implementazione dottrinale, giurisprudenziale e legislativa che attesterà la laicità dello Stato ed il diritto alla libertà religiosa e di coscienza come elementi apicali del nostro ordinamento giuridico. Lo spostamento dell’attenzione dei giuristi dall’art. 7 agli artt. 2, 3, 8, 19 e 20 Cost., l’apertura praticata dalla Chiesa a seguito del Concilio Vaticano II e le innovazioni legislative prodotte negli anni Settanta in materie fondamentali come il divorzio, il diritto di famiglia e l’interruzione di gravidanza, romperanno definitivamente l’orizzonte del monoconfessionalismo di Stato ed apriranno il Paese ad un incipiente processo di secolarizzazione. In questo clima maturano le condizioni per la revisione del Concordato. Il 18 febbraio del 1984, per adeguare la materia pattizia al contenuto della Carta Costituzionale e raccogliere le sollecitazioni provenienti dal processo di trasformazione della società civile, la Repubblica Italiana e la Santa Sede firmano l’accordo di modificazione dei Patti del 1929. Gli Accordi di Villa Madama proclamano, sia pur con qualche ombra, il superamento del confessionalismo di Stato (cfr. art. 1 del Protocollo addizionale agli Accordi in Laterano del 18 febbraio 1984), ed apportano una decisiva modifica, in senso laico, alla disciplina dell’istituto del matrimonio concordatario (cfr. art. 8 legge 121/1984).
Inoltre, il secondo comma dell’articolo 9 stabilisce che, in ossequio alla libertà di coscienza, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica.  
Proprio il sindacato di questa disposizione occasiona il pronunciamento del Giudice delle leggi, che in una sentenza interpretativa di rigetto, la più volte richiamata 203 del 1989, attribuisce alla laicità, in aderenza al proposito ruffiniano, il crisma di principio supremo dell’ordinamento, conferendo ad esso una valenza superiore sia rispetto alle altre norme di rango costituzionale, che alle disposizioni concordatarie. La Corte, che ricava induttivamente il principio di laicità dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, non manca di ribadire, accogliendo l’insegnamento dello Jemolo, la necessità del metodo e delle procedure democratiche (cfr. p. 247) per la determinazione, in regime di pluralismo culturale e confessionale, di quel patrimonio di valori condivisi che devono entrare a comporre l’assetto delle istituzioni e la natura dei provvedimenti ed atti normativi. Proprio il profilo garantista e promozionale invocato dalla Corte (cfr. p. 252) diviene il metro di regolazione di una neutralità, non più declinata come luogo asettico dell’esclusione dei valori plurali, ma come pratica dell’inclusione democratica della diversità confessionale e culturale.    
INDICE
PREFAZIONE
PREMESSA
CAPITOLO I- LA LAICITÀ DEL SISTEMA ITALIANO: IL CONTRIBUTO DI FRANCESCO RUFFINI
CAPITOLO II- LA LAICITÀ SOSPESA
CAPITOLO III- LA LAICITÀ RISCOPERTA
CAPITOLO IV- LA LAICITÀ DI OGGI
APPENDICE- LA DÉCLARATION UNIVERSELLE SUR LA LAÏCITÉ AU XXI SIÈCLE

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