lunedì 19 dicembre 2011

Putnam, Hilary, (a cura di Massimo Dell’Utri), Filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein

Roma, Carocci, 2011, pp. 142, euro 15, ISBN 978-88-430- 5363-6

Recensione di Cecilia Ricci – 12/10/2011

La presente opera di Putnam costituisce una interessante introduzione al pensiero di «tre filosofi ebraici e 1/4» (114) – l’Autore inserisce la figura dell’ebreo "atipico" Wittgenstein accanto a quella di Rosenzweig, Buber e Levinas – e nasce da un corso sulla filosofia ebraica tenuto da Putnam nel 1997 ad Harvard che diede vita nel 1999 a due conferenze su La filosofia ebraica come modo di vita, la cui rielaborazione rappresenta il primo e il quarto capitolo del presente volume. 

La ricerca di Putnam, da sempre indirizzata verso l’epistemologia scientifica e la filosofia della scienza, cominciò ad aprirsi in direzione della filosofia ebraica nel 1975, anno in cui il figlio maggiore comunicò al padre il desiderio di celebrare il bar mitzvah. Ciò spinse Putnam a partecipare assiduamente alle liturgie ebraiche e a riconsiderare la preghiera come un’ «attività capace di trasformare le persone» (13). Come ricorda Putnam nell’Introduzione, il nuovo interesse per la religione si affiancava allo studio della filosofia della scienza senza che le due componenti venissero conciliate. Il corso sulla filosofia ebraica, tenuto nel 1997, rappresentò per Putnam la possibilità di riconciliare la vena religiosa con la generale visione scientifico-materialista del mondo.
I primi due capitoli del volume illustrano i tratti principali del pensiero di Rosenzweig e ne mettono in risalto la prossimità con quello di Wittgenstein. Per entrambi la filosofia non è pura riflessione speculativa né ricerca metafisica dell’essenza delle cose ma pratica di vita che trasforma l’interiorità. Ambedue, muovendo dalla denuncia dell’assurdità di ogni spiegazione metafisica che indaghi l’essenza delle cose reali, propongono «un ritorno all’uso ordinario delle nostre parole» (28) così come è dettato dal nostro senso comune. Per Rosenzweig la filosofia, interrogandosi esclusivamente sull’essenza, avrebbe estrapolato gli elementi costitutivi del reale – uomo, Dio, mondo – dal flusso della vita, eludendo così il problema della morte e neutralizzando le esigenze del quotidiano. L’autore de La Stella della redenzione si fa così promotore di un «nuovo pensiero che parla» (39), cioè che presta attenzione al bisogno dell’altro e porge l’orecchio solo agli interrogativi brucianti che nascono dall’esperienza. Dal momento che parlare presuppone l’esistenza di un interlocutore e delle sue urgenze, allora il nuovo pensiero ha bisogno di tempo affinché nel dialogo emergano consapevolmente le domande e maturino le possibili risposte. «Nello scontro attivo con i problemi filosofici o teologici vissuti di un altro essere umano, scontro che egli chiama pensiero che parla, un parlante non sa in anticipo quello che dirà – o anzi, se dirà qualcosa» (41). Putnam illustra nel secondo capitolo le tappe speculative del pensiero rosenzweighiano contenute in La Stella della redenzione. La nuova «filosofia esperiente» è un pensiero che narra attraverso le tre categorie – creazione, rivelazione e redenzione – l’accadere delle relazioni tra uomo, Dio e mondo. La creazione è la narrazione del rapporto che investe Dio e mondo, oscura profezia rinchiusa nel passato muto e lontano e che attende di essere risvegliata e inverata dall’eterno presente della rivelazione. L’accadere rivelativo assume i connotati di un vivo dialogo tra amante (Dio) e l’amata (uomo). Nella rivelazione l’essere creato è colpito dalla forza dell’amore di Dio che gli giunge sotto forma di comandamento. Il comando divino desta l’uomo dal torpore e dall’orgoglio caparbio che lo confinavano nella chiusura del proprio sé e sollecita la sua risposta responsabile che consiste nel ricambiare l’amore. Scoprendo di essere amato l’uomo impara ad amare non solo Dio ma anche il prossimo. L’esperienza dell’amore di Dio è la condizione di possibilità dell’imitatio dei e l’inizio della redenzione come relazione tra uomo e mondo. La redenzione finale non può essere relegata in un futuro lontano e irraggiungibile ma deve essere continuamente anticipata affinché il compimento entri di diritto in un tempo eterno. L’attesa paziente del Regno si deve accompagnare ad una forzatura della sua venuta allo scopo che il Regno possa eternamente venire. Putnam sottolinea perfettamente tale unità di presente e futuro nell’attesa della redenzione. L’uomo «sperimenta la redenzione simultaneamente come "presente", come "qualcosa che potrebbe accadere nel prossimo istante", e come qualcosa che accadrà nel futuro lontano» (58). Allo stesso tempo però non coglie la dimensione «esclusivamente» presente dell’accadere rivelativo. Per Putnam «Rosenzweig ritiene che la rivelazione sia avvenuta nel passato» (50); ma in realtà per l’autore de La stella della redenzione la portata miracolosa della rivelazione risiede nella sua capacità di rinnovarsi sempre ad ogni istante e nell’offrirsi all’uomo come novità eternamente presente. Nella continua richiesta di amore reciproco da parte delle due anime e nel ricorso al dialogo amoroso del Cantico dei cantici, Rosenzweig esprime il "per sempre" della rivelazione.
Nel terzo capitolo dedicato a Martin Buber, Putnam utilizza la formula «perfezionismo morale» – presa in prestito da Stanley Cavell – per definire il pensiero di Rosenzweig, Buber e Levinas. Ciascuno di loro è «perfezionista perché descrive un nostro obbligo in modi che appaiono intollerabilmente esigenti; ma è anche un filosofo realista perché comprende che è solo mantenendo bene in vista un’esigenza "intollerabile" che si può ambire al proprio "sé non realizzato ma realizzabile"» (67). Se in Rosenzweig i tre elementi tessono un sistema di relazioni che desta l’io dal mutismo del premondo offrendogli la possibilità di pronunciare il suo «Eccomi» e in Levinas il volto oltraggiato dell’Altro esige una un’assunzione di responsabilità nei suoi confronti, così «la famosa relazione "io-tu" di Buber è una relazione che esige da noi, e senza la quale nessun sistema di regole morali e nessuna istituzione possono avere un valore ideale» (67).
Nel delineare i punti cruciali del pensiero dialogico di Buber, Putnam si propone di smascherare i malintesi più comuni. Il primo errore nell’interpretazione del suo pensiero consiste nel considerare sempre valida e giusta la relazione io-tu, attribuendo un carattere «demoniaco» alla relazione io-esso. In realtà la validità della relazione io-tu «dipende dall’adeguatezza dello scopo» (70) che consiste nella «trasformazione del "mondo dell’esso"» (71). Grazie all’originaria relazione io-tu con Dio da cui discendono tutte le altre relazioni io-tu con le persone, è possibile operare una trasformazione della vita individuale e sociale. «Ogni vera comunità  e ogni genuino momento di trasformazione hanno bisogno di una relazione condivisa con il Tu supremo. Tutte le soluzioni puramente "materialiste" ai problemi del mondo, che valorizzino il socialismo, oppure il capitalismo, non possono che fallire senza un momento di relazione di questo genere» (74). Il secondo errore per Putnam consiste nel rintracciare l’originalità della riflessione buberiana unicamente nella fenomenologia delle relazioni personali e non nella sua «teologia». L’interesse del pensiero dialogico risiede invece, per Putnam, nell’incapacità di qualsiasi speculazione metafisica  e di qualsiasi teoria della conoscenza che voglia inglobare e definire il mistero di Dio. «Ciò che si può fare è parlare a Dio o piuttosto intraprendere una relazione "io-tu" con Dio, una relazione in cui tutte le relazioni parziali "io-tu" sono abbracciate e realizzate senza essere cancellate» (73).
Nel quarto capitolo Putnam illustra le categorie filosofiche centrali del pensiero di Levinas alla luce della famosa affermazione per cui l’etica è la filosofia prima e quindi priva di alcun fondamento ontologico. «Il pericolo di fondare l’etica sull’idea che noi siamo "tutti fondamentalmente uguali" è di aprire una porta all’Olocausto: basta solo pensare che alcune persone non sono davvero uguali per distruggere la forza di una simile costruzione» (78). Ciò in parte è vero perché il rifiuto dell’ontologia è comprensibile in termini ebraici come negazione della «presenza» dell’essere e di una sua rintracciabilità nell’ordine fenomenico ma allo stesso tempo deve essere letto in relazione all’orrore e allo sgomento provocati dalla Shoah. La tradizione filosofica occidentale, esaltando l’ontologia come filosofia prima, ha posto l’origine del senso nella sovrana affermazione dell’essere, finendo per neutralizzare il singolo e sancire così il trionfo della prevaricazione sull’altro uomo. L’orrore di una  storia ingiusta, tradimento del progetto che Dio aveva in serbo per l’uomo, avrebbe condotto non solo alla polverizzazione del senso che spalanca all’abisso del il y a, ma anche all’allontanamento di Dio rifugiatosi in un «altrimenti che essere» non fenomenico. Putnam si concentra maggiormente sul rapporto che in Levinas si stabilisce tra l’asimmetria radicale della relazione con l’altro, l’impossibilità di una tematizzazione di Dio e la vocazione universale a rispondere responsabilmente del bisogno altrui, ovvero la «categoria morale» di elezione alla responsabilità dell’Altro. Putnam non condivide la radicalità dell’asimmetria della relazione etica e quindi di un’assunzione di responsabilità fino ai limiti del martirio e legge questo tratto esasperato come frutto di un’«etica unilaterale» (104). In realtà però senza l’incondizionatezza dell’obbligo etico – limitata in parte dall’irrompere del «terzo» e dal fatto che anche il soggetto è il prossimo per l’altro –  non si potrebbe dare vera testimonianza di Dio, cioè della sua infinita eccedenza nel volto offeso dell’altro che sfugge ad ogni presa concettuale. Il volto non è per Levinas né riflesso né immagine di un Dio che è assente, ma nel suo dileguarsi lascia una traccia non assimilabile all’idea di residuo fenomenico. È interessante notare come Putnam contrapponga invece «la non fenomenicità del volto» alla possibile valenza teofanica della traccia. «Proprio come non vediamo mai Dio, ma al più tracce della presenza di Dio nel mondo, così non vediamo mai il volto dell’altro ma solo la sua traccia» (89). Se la traccia è la significazione di un "Dio che viene all’idea" solo nell’approssimarsi ad altri, allora Dio deve aver percorso in qualche modo le vie del mondo, lasciando poi alle sue spalle un vuoto ben visibile perché inscritto nell’orizzonte finito della presenza delle cose. La disponibilità totale ad accogliere ed aiutare l’altro – ci ricorda Putnam – può nascere solo da un incontro che genera scompiglio e «sgretola le mie categorie» (111) nella consapevolezza che «ciò che viola le mie categorie può solo venir appreso di sfuggita, in modo mistico – come la traccia del volto dell’altro, come "gloria" dell’Infinito» (111).
Il libro di Putnam è un’ utile presentazione delle categorie speculative di alcuni grandi filosofi ebrei del nostro tempo e si propone sin dall’inizio di essere una guida introduttiva per il pubblico comune di «non addetti ai lavori» che si accinge allo studio complesso e affascinante del pensiero ebraico. Putnam ha il merito di smascherare gli errori di comprensione più diffusi legati all’interpretazione delle opere dei tre filosofi e l’umiltà di illuminare il senso di alcuni concetti oscuri senza pretendere di esaurire la portata e la ricchezza filosofica del loro pensiero.


Indice:

Prefazione
Introduzione (autobiografica)
1. Rosenzweig e Wittgenstein
2. Rosenzweig sulla rivelazione e relazione d’amore
3. Che cosa Io e tu dice davvero
4. Levinas su quel che esige da noi
Postfazione
L’impertinenza della teoria, di Massimo Dell’Utri e Pierfrancesco Fiorato
Note
Indice dei nomi

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