venerdì 3 febbraio 2012

Embree, Lester, Analisi riflessiva. Una prima introduzione all’investigazione fenomenologica

Roma, Edizioni Studium, 2011, pp. 166, ISBN 978-88-382-4071-3

Recensione di Antonio G. Pesce - 29/11/2011 

Angela Ales Bello, nome di peso nella fenomenologia italiana, e Angelo Bottone, che ha tradotto un testo assai difficile, nel presentare questo lavoro di Embree insistono non soltanto sul ruolo giocato dalla scuola di Husserl nella storia della filosofia del Novecento, ma anche su quella peculiarità che la contraddistingue dalle filosofie analitiche: non l’argomentazione, tipica di quest’ultime, bensì la riflessione. 



“L’impegno di questo testo – scrive a conclusione l’autore - è stato di presentare la fenomenologia in generale come un approccio nel quale lo studio sui testi è subordinato all’esame delle cose, nel quale piuttosto che speculare si osserva riflessivamente e nel quale si producono analisi piuttosto che argomenti” (p. 165). Ecco perché la fenomenologia non è interpretata soltanto come una tradizione filosofica tra le altre, ma metodo applicabile a diversi ambiti dello scibile: “C’è stata una tendenza fenomenologica in psichiatria precedente la prima guerra mondiale ed è stato facile recentemente identificare delle tendenze fenomenologiche in più di una ventina di altre discipline non filosofiche” (p. 16). 
Se questo è un libro per diventare più abili nel metodo fenomenologico, allora servono tre cose innanzi tutto: adottare un atteggiamento “riflessivo e teoretico”, analizzare, e intendersi sul linguaggio da utilizzare. Quasi tutta l’Introduzione è dedicata a questo lavoro chiarificatore su alcune parole fondamentali della fenomenologia. Se si chiede, infatti, quale sia la materia trattata da un fenomenologo, la risposta non può che essere coscienza per i più, e chi ha letto qualcosa si spinge oltre, affermando l’intenzionalità. Ma coscienza sembrerebbe richiamare la “contemplazione, mentre la cosa qui in questione è originariamente pratica”: meglio esistenza, perché così si “denota qualcosa di originariamente irriflessivo e pratico”. Mentre si propone intentività come sostituto di intenzionalità. 
Premesso ciò, Embree fa muovere ai suoi studenti il primo passo dell’approccio fenomenologico che non consiste nell’osservare semplicemente, perché tutti ne siamo capaci, ma di aumentarne la capacità. “Possiamo chiamare “teoretico” lo scopo generale dell’osservazione pratica” afferma Embree, e più avanti continua: “In quanto tale [teoretico], è distaccato, spassionato e neutro nei modi valutativi e volitivi” (p. 45). L’esempio, infatti, è quello del pranzo – banale agli occhi del disinvolto intellettuale, sempre in cerca di stupore, eppure così complesso per il fenomenologo, che ha ben chiaro come la terra e il cielo abbiano più cose della filosofia del primo. Quali le prime determinazioni a cui possiamo giungere? Embree parla di proprietà, che gli oggetti posseggono “a prescindere da qualsiasi relazione”, e appunto di relazioni. Queste, a loro volta, possono essere classificate secondo natura, cioè psichiche o fisiche. Ma l’uomo non esperisce solo la natura, cioè quel “vasto sistema di oggetti animati o inanimati con relazioni fisiche e biologicamente sociali tra loro”: l’uomo ha anche un mondo, cioè gli oggetti hanno proprietà culturali, che non ignoriamo, frattanto che determiniamo anche le loro proprietà e relazioni naturalistiche. Le determinazioni culturali meno complesse sono quelle valutative. Una madre potrebbe volere che il figlio mangi broccoli, avendo saputo delle capacità nutritive di questi. Certo, sia per la madre che per il figlio i broccoli hanno un odore poco invitante, ma per la prima hanno un valore intrinseco positivo. Vi sono anche determinazioni culturali inerenti l’uso. Tornando all’esempio del pasto, chiedere a qualcuno di passare il sale significa usare il commensale e il recipiente del sale come mezzo. Gli uomini non devono trattarsi e trattare gli altri solo come mezzo, ma ciò non toglie che lo possano anche fare. Per quanto buoni si possa essere, è difficile pensare al cameriere, che magari aspettiamo con trepidazione ci porti il tanto atteso pasto (affamati dopo una giornata di duro lavoro), semplicemente come un fine. 
I risultati dell’analisi osservativa è la produzione di resoconti o descrizioni, che “sono affermazioni vere o false riguardo a cose o, meglio, a “materie” (matters)”. I resoconti, nonostante la tendenza diversa del nostro linguaggio, non sono spiegazioni, perché non tutti lo sono, dal momento che la spiegazione “è un resoconto nel quale si dà conto di una materia in relazione ad un’altra o ad altre materie” (p. 59). 
Bene, abbiamo spiegato l’osservazione. Ma come è possibile che si è osservata l’osservazione? È possibile perché vi è un’osservazione teoretica riflessiva (o semplicemente, riflessione) che può intendere l’osservazione teoretica non-riflessiva. Ovviamente, vi può essere una riflessione di una riflessione, e così via. Fino a che punto? Dice Embree che gli uomini, senza particolare sforzo, possono giungere ad un quarto grado di riflessione. La differenza tra osservazione e riflessione consiste nel fatto che in quest’ultima non ci limitiamo alle cose osservate, ma affrontiamo anche il problema del come sono osservate. “La nostra riflessione – scrive Embree – parte da una situazione nella quale noi riflettiamo sia sulle cose (ad esempio, sedie, come appaiono e vengono date altrimenti) che sui componenti del processo intentivo che ha luogo all’interno del percepire sensoriale, come il vedere, il toccare e l’ascoltare” (p. 70). Non c’è soltanto, però, una riflessione sull’ora, perché possiamo riflettere su quanto percepito ieri, e avremo così un riflettere reminiscente; o riflettere su quanto ci attendiamo del futuro – la visita di un amico che sta per arrivare – e in questo caso parliamo di riflettere aspettativo. 
Fin qui si è trattato di raffinare le competenze dello studente. Nei successivi quattro capitoli, Embree lo applica a diversi aspetti della speculazione filosofica. Il quarto capitolo, ad esempio, affronta la questione del volere, del valutare e del credere. In un processo intentivo, la distinzione più generale possibile è quella che distingue tra esperienza e posizionalità. “La posizionalità è in generale qualcosa di differente dall’esperienza e, correlativamente, gli oggetti in quanto dati sono differenti dagli oggetti in quanto posti, ossia creduti, valutati e voluti” (p. 87). Non appare molto chiaro il perché Embree identifichi valutazione ed emozione. Ci dice soltanto che questa operazione ha il compito di rendere accessibile lo studio delle emozioni, che nella nostra civiltà godono di scarsa attenzione, sospettosi come siamo di perdere, a causa loro, la dovuta imparzialità della ricerca. Una nota a piè pagina, da parte del traduttore o del curatore, avrebbe potuto rendere più chiaro queste passaggio. 
Embree divide le emozioni in sentimenti e stati d’animo. Quest’ultimi possono cominciare all’improvviso e durare relativamente a lungo, per concludersi altrettanto improvvisamente. I sentimenti “vanno e vengono” perché sono focali, “ossia i loro oggetti emergono da un sottofondo”, al quale tendono, invece, gli stati d’animo. Per intenderci: si può essere in uno stato d’animo funereo, e tuttavia provare un piacere positivo per un pensiero o un oggetto. A nessuno è capitato di trovarsi in un funerale, sinceramente contrito, eppure sorridere a causa di qualcosa? Succede, ed è anche imbarazzante. Ci abituiamo a certi stati d’animo, che possiamo anche imparare. E ciò non comporta che, poi, non li si possa giustificare. Si può imparare ad amare i momenti con Mozart: non si nasce imparati dai talk show. 
Nel campo della volizione, l’autore suggerisce di usare la parola azione, anche perché con questa si includono i movimenti somatici, cosa che volizione non permette. Se escludiamo la neutralità volitiva, che può anche essere positiva (astenersi dal prendere parte ad una disputa il più delle volte ha una valenza positiva, perché perseguiamo uno scopo, che magari non è assimilabile a nessuno degli altri in gioco), possiamo qualificare le azioni come preventive o creative, rispetto agli oggetti non attuali ma possibili; e preservative o distruttive rispetto a quelli attuali. Ma si può fare un’altra differenza: si possono distinguere processi automatici, abituali e operazionali. Discrimine? La relazione con l’io – un’operazione richiede un coinvolgimento dell’io che i processi abituali o automatici non prevedono – ma anche con gli oggetti. Nulla toglie, però, che ciò che è un’operazione oggi, non diventi domani un’abitudine. 
È questo coinvolgimento dell’io che possiamo chiamare esperienza, differenziandola tra diretta e indiretta, dove questa include e presuppone quella. Nella prima ci imbattiamo in due tipi di oggetti: quelli reali, che sono nel tempo, e gli oggetti ideali, come per esempio il significato delle parole. Interessante notare che, tra gli oggetti reali, se ne annoverano alcuni che hanno rapporti temporali e causali, pur non essendo oggetti fisici: sono le psiche. Questo ci pare il guadagno migliore della riflessione fenomenologica: “I processi psichici – leggiamo – sono collegati casualmente e temporalmente a quelle cose fisiche che chiamiamo i nostri corpi e anche indirettamente collegati agli oggetti che ci circondano, così come anche l’uno con l’altro all’interno e tra le psiche” (p. 109). Qui l’uomo conquista la propria concretezza, al di là di ogni fisicalismo, che negherebbe la specificità umana. Il mondo, inoltre, non appare slegato dall’attività dell’uomo, e tuttavia non si cade in forme di solipsismo altrettanto deleterie come il fisicalismo: l’intersoggettività non è un dato immediato (non c’è unità che non passi attraverso la distinzione), ma una lenta acquisizione. Gli “oggetti psichici” sono osservabili direttamentre con l’autosservazione, e indirettamente attraverso la riflessione sugli altri. Nell’esperienza indiretta o rappresentazionale, invece, possiamo parlare di esperienza pittorica, indicazionale e linguistica.
Fin qui abbiamo potuto vedere il vero volto della fenomenologia, la quale non è un mero tornare alle cose per dirne “qualsiasi cosa ci venga in mente”, bensì un analizzare in “modo disciplinato” i “resoconti descrittivi”. Oltre l’analisi “classificatoria” o “tassonomica”, utilizzata nei vari capitoli, Embree descrive quella intenzionale, perché “ogni singolo processo intentivo all’interno di un flusso intentivo è sempre intentivo ai processi che vengono prima e dopo di esso” (p. 127). Per questo si parla di processo intentivo retroattivo e protentivo. Poi passa a quella motivazionale che “produce “spiegazioni”, ossia resoconti nei quali si afferma perché succede qualcosa” (p. 137). E infine si parla dell’analisi eidetica, che implica una differenziazione tra fatto particolare ed essenza universale (eidos): è un po’ quello che facciamo, quando ci chiediamo in cosa consista una sedia – l’esempio di Embree – o una borsa.  
In conclusione, possiamo dire di trovarci davanti un manuale di riflessione scritto apposta per gli studenti, e con tanto di eserciziario alla fine di ogni capitolo. Cosa che può stupire il lettore italiano, sia egli studioso o persona di buona cultura, poiché solitamente la filosofia viene intesa come mera carrellata di volti e motti, ad andar bene di teorie, senza alcuna o poca attinenza tra loro che non un programma da svolgere durante l’anno scolastico o accademico. Niente da obiettare, allora, a chi la reputasse mero esercizio erudito, senza che la civiltà – questa civiltà che ora siamo – ne possa trarre giovamento. Ma se, invece, da Talete ai nostri giorni gli uomini non hanno fatto altro che interrogarsi e darsi delle risposte, veder sorgere domande e tentare di trovarne le risposte, allora perfino dall’attuale crisi finanziaria, che sta mettendo in ginocchio le economie del mondo, non se ne esce se non con un atto di pensiero che sia, per quanto umanamente possibile, risolutivo del problema che ci assilla. 
Embree vuole insegnarci a filosofare? Si può insegnare a filosofare? In ultima battuta, dobbiamo dire no. No, non si può insegnare a filosofare, quantunque ogni uomo, almeno una volta in vita sua, abbia filosofato, seppur incosciente di un linguaggio in cui la sua medesima domanda e (se vi è stata) la sua medesima risposta hanno trovato formulazione. Non si può trasmettere la paura dell’insensatezza – questo θάυμα di cui parla Aristotele nella Metafisica (cfr A 2, 982 b 14). Ma quando qualcosa scatta in un individuo – in Platone, per esempio, e molto meno in Alcibiade – allora si può parlare di una educazione del filosofare. Ecco, Embree vuole educare, vuole consegnare alle nuove generazioni – perché altrimenti scrivere un manuale? – uno stile del pensiero a cui egli è stato introdotto. Un fare, non un mero sapere. Tradizione che diventa orizzonte esistenziale, non cimelio storico. 


L’indice

Presentazione di Angela Ales Bello
Nota del curatore e traduttore
Prefazione per gli istruttori
Introduzione
1. Osservare
2. Render conto
3. Riflettere
4. Volere, valutare, credere
5. Far esperienza
6. Analizzare
7. Esaminare
Note conclusive

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