martedì 29 maggio 2012

Simonetta, Stefano, Senza parole. Il tema dell’indicibilità di Dio nella riflessione medievale

Milano, Unicopli, 2011, pp. 102, euro 12, ISBN 978-88-400-1547-7

Recensione di Emanuele Rossi Marcelli - 13/03/2012

Dopo essersi occupato a lungo del pensiero politico tardo-medievale, Simonetta decide con questo volume di cimentarsi con una problematica piuttosto estranea al suo percorso di ricerca: il tema della dicibiltà di Dio e del discorso teologico. Il filo rosso scelto come guida della trattazione è, nell’intenzione dell’autore, quello della teologia negativa di lingua latina, di cui si isolano alcuni momenti fondamentali. L’opera, piuttosto modesta nelle sue dimensioni, non intende infatti essere uno studio sistematico di quella tradizione che dallo Pseudo-Dionigi, passando per Eriugena ed Eckhart,

giunge almeno sino a Cusano, quanto la rielaborazione e la sistemazione del materiale raccolto per un corso monografico che l’autore ha tenuto nell’anno accademico 2010/11.
Il volume è quindi consapevolmente considerato dall’autore nulla di più di un'introduzione a tale tradizione (cfr p. 7). Il risultato, conviene dirlo subito, non brilla né per originalità, né per profondità e, nonostante i chiari limiti che l’autore ha individuato nella premessa, la scelta degli autori trattati porta inevitabilmente con sé un qualche segno di arbitrarietà. Ma vediamo ora all’analisi del testo, rimandando i rilievi critici alla fine delle nostre considerazioni.
La trattazione prende correttamente le mosse dalle tesi contenute nel corpus dyonisianum, redatto tra IV e V secolo ed erroneamente attribuito per tutto il medioevo a Dionigi l’Areopagita. In particolare nel De Ierarachia, lo Pseudo-Dionigi afferma il principio cardine di ogni teologia negativa per il quale in divinis tutte le negazioni sono vere, mentre le affermazioni risultano false, dal momento che nessun attributo può cogliere pienamente ciò che Dio è in se stesso. Se ne deduce coerentemente non solo che la Sacra Scrittura non è in errore quando, per parlare di Dio, usa immagini tratte dalle cose meno nobili, ma anzi che proprio questo linguaggio fatto di negazioni vere e similitudini dissimili è il modo più corretto per parlare della divinità. Del resto anche questo stadio deve essere superato, come spiegato nella Theologia mystica, per approdare alla vera conoscenza di Dio, che per il nostro autore può essere data solo dall'unione estatica con Dio, il cui esempio più eminente è quello di Mosè (cfr p. 14). Da un punto di vista umano però, come ben notato da Simonetta, tale conoscenza non può non identificarsi con silenzio e ignoranza. Stabilito quindi che di Dio non si può parlare propriamente, rimane da affrontare un'ultima questione che verrà costantemente ripresa dagli autori medievali. Seppur con dei limiti invalicabili, parlare di Dio è necessario: Egli infatti merita la lode degli uomini e la fede in Lui deve essere difesa razionalmente contro i fraintendimenti degli eretici e gli errori degli infedeli. Gli autori analizzati da Simonetta si distinguono fra di loro proprio per il diverso peso e la diversa soluzione che danno a tale questione. La posizione dello Pseudo-Dionigi in proposito è analizzata a partire dal trattato De divinis nominibus. Nel trattato viene elaborato una sorta di “vocabolario minimo” garantito dall’uso che ne fa la stessa Sacra Scrittura, la quale non esita a definire Dio come Colui che è, Vita, Luce, Verità (cfr p. 23) . L’uso di tali espressioni si fonda una di sorta di relazione di somiglianza tra Dio, inteso come principio totalmente trascendente, e le perfezioni che da esso derivano. Nondimeno anche questi appellativi divini intelligibili, sono impropri e restano inadatti a catturare l’essenza divina dal momento che tale relazione di somiglianza è imperfetta e asimmetrica (cfr p. 26). Infatti, commenta Dionigi, Dio è come il fuoco che scalda e brucia le cose, ma di cui non si può dire correttamente che scaldi se stesso o si bruci. Seppur nella sua complementarietà con la teologia affermativa, la via remotionis rimane quindi il modo più corretto per avvicinarsi alla essenza divina. Pressoché ignorate per diversi secoli, le opere di Dionigi entrano prepotentemente nella cultura latina grazie all’opera di Giovanni Scoto Eriugena che non solo tradusse il corpus dyonisianum, ma ne assimilò fortemente le tesi all’interno del suo pensiero. Dopo aver presentato le caratteristiche generali della sua opera principale, il Periphyseon, Simonetta presenta quindi la posizione dell’Eriugena sul discorso teologico. Se per il pensatore irlandese l’esistenza di Dio può essere pacificamente affermata a partire dall’osservazione del creato, che nella concezione eriugeniana è da interpretata come una sorta di espressione di Dio, cioè come una vera e propria teofania, la determinazione della sua essenza sembra sfuggire adogni tentativo di comprensione e definizione umana. Quando infatti diciamo di Dio che è “verità”, “bontà”, “luce” o “giustizia” stiamo predicando della causa ciò che propriamente appartiene agli effetti. Le nostre affermazioni sono quindi semplici metafore, realizzate per traslazione. Questi stessi termini infatti, nel loro funzionamento ordinario, presuppongo un’opposizione con il loro contrario, mentre è da escludersi che qualcosa del genere si produca nella natura di Dio, data la sua assoluta semplicità (cfr p. 47). La teologia affermativa deve quindi necessariamente completarsi con quella negativa, la quale, dal canto suo, non solo mostra che le affermazione sulla prima natura non possano essere considerate sic et simpliciter adeguate, ma anzi mette al riparo la vera teologia dai pericoli che possono prendere origine da un’ambigua confusione tra il Creatore e le sue creature. Correttamente infatti si deve negare che Dio è “verità”, o “bontà” dal momento che egli è “più-che-verità” o “più-che-bontà”. Stando quindi a quanto delineato dall’Eriugena, l’apparente contraddizione tra i due tipi di teologia trova una possibile sintesi in un terzo registro più aderente all’essenza divina: quello proprio della teologia eminenziale o superlativa. Tale teologia è però solo apparentemente affermativa, infatti nessuno intelletto finito può determinare la natura sovraessenziale di Dio.
Conclusa l’analisi del pensiero dell’Eriugena, Simonetta si sofferma brevemente su due autori fondamentali nello sviluppo del successivo pensiero scolastico: Anselmo d’Aosta e Pietro Abelardo. Sebbene questi autori, come doverosamente fatto notare da Simonetta, non siano riconducibili in toto alla tradizione della teologia negativa (cfr. p 55), l’autore del volume ritiene di trovare nella loro opera alcune affermazioni in linea con le conclusioni elaborate da Dionigi o da Scoto. Per quanto riguarda Anselmo, ci si sofferma su un passo del Proslogion in cui, dopo aver esposto il suo celebre argomento per l’esistenza di Dio, esprime la sua insoddisfazione per il risultati ottenuti: essi non sono sufficienti a saziare il desiderio di conoscenza dell’uomo. Dio sfugge nella sua essenza alla capacità conoscitiva ed espressiva umana, che oltre a essere limitata è stata indebolita dal peccato. Anche Abelardo parte dalla constatazione che i mortali non possono con le loro ragioni comprendere ciò che è incomprensibile, vale a dire l’essenza divina, e che pertanto non sia possibile neanche parlarne in modo adeguato. Per Abelardo quindi, come per gli autori precedenti, il linguaggio teologico è radicalmente improprio ed inadeguato, ma in lui tale affermazione trova una formulazione più chiara e esplicita. Egli infatti nella Theologia summi boni nota come il linguaggio non è affatto coniato dagli uomini per parlare di Dio, ma per esprimere i concetti che essi si sono formati delle cose concrete. È solo operando una traslatio dal loro senso ordinario che possiamo quindi crearci il vocabolario da usare nel discorso teologico (cfr p. 61).
Il successivo autore preso in considerazione da Simonetta, il maestro parigino Alano di Lilla, autore molto impegnato non solo sul fronte dell’insegnamento, ma anche della lotta alle eresie catara e valdese, è particolarmente importante per il tema trattato. Egli infatti nel suo capolavoro, le Regulae celesti iuris, affronta con rara consapevolezza e profondità il problema del discorso teologico. Simonetta ne mette in luce le conclusioni centrali: 1) la totale improprietà di ogni nome detto di Dio, compresso quello di “essere”, dedotta sistematicamente dalla assoluta semplicità di Dio; 2) la distinzione, di derivazione dionisiana, tra la proprietas dicendi e essendi, vale a dire: dicendo “Pietro è giusto” c’è proprietà nel dire, ma non nell'essere perché Pietro non è la giustizia; viceversa dicendo “Dio è giusto” abbiamo improprietà nel dire perché non c’è alcuna giustizia, intesa come forma distinta dal sostrato, che inerisca alla natura di Dio, ma c’è tuttavia proprietà nell’essere perché Dio è la stessa Giustizia; 3) una meticolosa analisi delle parti del discorso e del loro funzionamento in divinis; 4) l’ laborazione di una vera e propria gerarchia di “minore improprietà”, infatti non tutte le espressioni sono ugualmente inadatte a parlare di Dio.
Il percorso di Simonetta si conclude con l’analisi della questione dei predicati divini in due autori celeberrimi: Mosè Maimonide e Tommaso D’Aquino. Il primo affronta il problema nella Guida dei perplessi dove distingue cinque possibili generi di predicazione: il primo consiste nella definizione di un ente, ad esempio quando diciamo che “l’uomo” è “animale razionale”, mentre il secondo nella sua definizione parziale: ciò accade ad esempio quando attribuiamo all’essere umano la razionalità. Il terzo e il quarto hanno luogo rispettivamente quando distinguiamo nella cosa una sua qualità ed esplicitiamo una sua relazione esistente con qualcos’altro. Per Maimonide nessuno di questi modi predicandi è applicabile a Dio: egli infatti è indefinibile, anche parzialmente, in quanto essere puro, privo di cause e non appartenente ad alcun genere; non è affetto da alcun accidente, quindi è privo di qualità e non stabilisce alcuna relazione ad altro. L’ultimo possibile tipo di predicazione e l’unico attribuibile a Dio è quello di azione. È possibile cioè non dire ciò che Dio è, ma ciò che Lui opera, pur tenendo fermo il fatto che tale pluralità di attributi non comporta una reale molteplicità di azioni in Dio. Qualunque altro modo di parlare di Dio è assolutamente improprio ed equivoco: noi infatti non intendiamo la stessa cosa quando diciamo di Lui o di un uomo che è ente eccetera. Esiste dunque per Maimonide una sorta di “licenza poetica” che ci permette di fare affermazioni su Dio, il cui senso però è privativo, e che si affianca al primato, presente anche in questo autore, della via negationis. Seppur scritta verso la fine del XII secolo la Guida dei perplessi non fu tradotta in latino prima del 1226, è quindi nel XIII secolo che le sue tesi divennero feconde e furono dibattute dai maestri cristiani, tra questi un posto d’onore va riservato a Tommaso d’Aquino. Dell’immensa opera tommasiana, Simonetta prende in considerazione alcune sezioni della Summa contra Gentiles e della Summa theologica, in cui, in consonanza con Maimonide, Tommaso chiarisce che Dio non è un ens tra gli altri, ma è l’ipsum esse, totalmente in atto, scevro di ogni potenzialità e materialità. Esso è pertanto indefinibile in quanto sfugge alla classificazione per genere e specie teorizzata da Aristotele (cfr p. 90). Pur tenendo saldi questi punti metafisici, Tommaso è più fiducioso degli autori considerati nelle possibilità della teologia affermativa. Infatti, seppur solo parzialmente, esiste tra Creatore e creature una qualche somiglianza, così come affermato dallo stesso Dionigi. Tale rapporto è definito dalla’Aquinate analogia e permette di attribuire in sommo grado a Dio tutte quelle perfezione riscontrabili nelle creature come Bontà o Sapienza. In questa attribuzione ciò che difetta non è il concetto significato, ma il modo di significare : infatti noi applichiamo a Dio nomi che esprimono perfezione conosciute a partire dalle cose create e che, in quanto tali, non possono essere totalmente adeguati a coglierne l’essenza nella sua pienezza (cfr p. 94). Con la presentazione della posizione di Tommaso si conclude il percorso di Simonetta, pur nella consapevolezza che le vicende della teologia negativa sarebbero durate ben oltre il XII secolo (Cfr p. 97.) Egli infatti ritiene di trovare nella soluzione di Tommaso “una possibile risposta al dilemma che abbiamo visto contraddistinguere tutti coloro che appartengono alla tradizione di pensiero indicata con l’espressione teologia negativa” (cfr p. 97). 
Il volume è di piacevole lettura, anche per l’assenza di quei tecnicismi caratteristici degli studi specializzati, e costituisce un interessante percorso specialmente ai fini divulgativi e didattici, da cui per altro l’opera trae occasione. Tuttavia, pur considerando i limiti intrinseci a uno studio che abbia una natura puramente introduttiva, l’opera di Simonetta non è esente da aspetti di criticità. In particolare, al di là della presentazione delle tesi dei singoli autori, è proprio nel principio guida dell’insieme che si mostra una radicale debolezza. Nella premessa infatti l’autore dichiara di volere “offrire un’introduzione a tale tema”, vale a dire la teologia negativa di lingua latina, “concentrandosi sull’origine di quel percorso … e su alcune delle sue tappe più significative” (cfr p. 7). Tale intento non è perseguito coerentemente da Simonetta. Innanzitutto dei sette autori trattati ben tre (Anselmo, Abelardo e Tommaso d’Aquino) su quattro (Dionigi, Eriugena, Alano di Lilla e Maimonide) non possono essere collocati propriamente all’interno della teologia negativa. D'altronde, se per inglobare un autore in questa tradizione bastasse riscontrare nella sua opera una certa attenzione ai limiti con i quali deve fare i conti la ragione umana quando cerca di comprendered Dio e esprimere la conoscenza che ha di Lui, allora il criterio interpretativo diventerebbe talmente debole da inglobare tutta, o quasi, la speculazione medievale e non solo: quale autore cristiano, infatti, ha mai ritenuto possibile in questa vita avere una conoscenza piena e adeguatamente esprimibile della divinità? Stando così le cose si potrebbe legittimamente rimproverare a Simonetta di non aver preso in considerazione autori centrali come, per citarne solo alcuni, Agostino o Boezio. Per altro, quest’ultimo avrebbe ben meritato di essere inserito nell’excursus proposto, quanto meno perché è nella sua metafisica della forma che trovano origine e fondamento le tesi sostenute da Alano di Lilla sui limiti discorso teologico. Inoltre la scelta delle “tappe più significative” messa in campo da Simonetta è ancora più discutibile se si considerano alcune “assenze illustri”: tra tutte s’impone quella di Meister Eckhart che, pur essendo un esponente semplicemente imprescindibile per lo studio della teologia negativa, non viene menzionato neanche una volta nel volume. In sostanza: nel libro ci si dedica all’analisi di autori non strettamente pertinenti per l’argomento e invece si omette di considerarne alcuni veramente fondamentali. L’opera dovrebbe essere quindi definita un libero, e legittimo, percorso di lettura proposto dall’autore, più che uno studio introduttivo alla teologia negativa. Per finire, la bibliografia, sezione particolarmente importante poiché deve fornire al lettore quegli strumenti utili per orientarsi nel dibattito ed eventualmente approfondire la tematica proposta, è piuttosto insoddisfacente: non vi si trovano infatti alcuni studi fondamentali sull’argomento, come ad esempio il recente volume di Luisa Valente “Logique et théologie. Les écoles parisiennes entre 1150 et 1220” del 2008, oppure gli studi classici di Giambattista Mondin o di Irène Rosier-Catach dedicati al problema del discorso teologico. 


Indice

Premessa 
I  “Nessuna affermazione si adatta al mistero delle cose arcane”. La via negativa in Dionigi lo Pseudo-Areopagita
Istruzioni per la scalata al cielo
Verso la vetta, in un’aria sempre più rarefatta
Le parole per celebrare Dio, indegnamente
II “Di Dio non vi è nulla che possa essere detto o compreso in maniera propria”. L’approdo della teologia negativa nella civiltà medievale latina, da Eriugena ad Alano di Lilla
Dio e universo nel Peryphyseon di Giovanni Scoto 
“Dire l’ineffabile”: Eriugena e l’indicibilità di Dio 
Il Dio nascosto in Anselmo d’Aosta
“Paole che non mantengono il proprio significato”: Abelardo la questione dei nomi divini
“Detto di Dio, ogni nome si dice impropriamente”: Alano di Lilla e le regole per parlare di Dio
III Tutto il resto è silenzio. Il tema dei nomi divini in Mosè Maiomonide e Tommaso D’Aquino
“la comunanza è solo nel nome: la posizione di Maimonide 
Con licenza parlando
“Possiamo indagare come non è”: Tommaso d’Aquino e la tradizione della teologia negativa
“Noi nominiamo tutte le cose nel modo in cui le conosciamo”: parlare di Dio nelle aule universitarie
Indicazioni bibliografiche

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