sabato 7 settembre 2013

Angelucci, Daniela, Deleuze e i concetti del cinema

Macerata, Quodlibet, 2012, pp. 143, euro 18, ISBN 978-88-7462-474-4. 

Recensione di Pietro Camarda – 14/01/2012

Il testo mette in relazione, secondo un percorso tematico imperniato sul rapporto cinema-filosofia, l’esposizione  delle idee filosofiche di Deleuze e la sua personale riflessione sul cinema, in grado di intrecciare una relazione inscindibile, una “coincidenza tra arte cinematografica e filosofia” (p. 7). Si viene così ad instaurare un rapporto di stretta parentela tra le due pratiche: la pratica cinematografica viene intesa come creazione di immagini, la filosofia corrisponde ad un’invenzione di concetti.


Nelle molteplici possibilità di rapporto tra cinema e filosofia, è proprio Deleuze che intorno alla prima metà degli anni Ottanta inaugura una nuova modalità di pensiero sul cinema con i volumi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. In questi veri e propri studi sul cinema, Deleuze, indagando nelle profondità di questa pratica fino a rintracciarne gli elementi primordiali, giunge a qualificare la materia come un’immagine, intesa come un’esistenza situata a metà strada tra una rappresentazione (idealismo) e una cosa (realismo). L’immagine e il movimento sono soltanto due dei concetti originari del cinema: è così che si comincia a notare la stretta relazione tra la pratica artistica, cinematografica, delle immagini, e quella concettuale, filosofica: questo lo si può notare ancor di più nell’intesa che Deleuze ha con le teorie di Bergson, filosofo preso come esempio per mostrare che il movimento (nel cinema) ha un proprio statuto ontologico (piano-sequenza), cioè un continuo, composto da sezioni mobili e non da segmentazioni che riportano un’immagine del o in movimento (Bergson), ma un’immagine-movimento.
Questa struttura rappresentativa, il legame tra immagine e movimento in una sola direzione senza soluzioni di continuità, ha come effetto il repentino cambiamento di tutto, cioè ha al suo interno le condizioni stesse del suo modificarsi. Ai margini della coincidenza tra immagine e movimento, si mostra il tempo, “la restituzione del tempo in un’immagine, novità sostanziale del cinema moderno” che sembrerebbe mettere in un rapporto di subordinazione il movimento al tempo, rovesciando la logica kantiana per cui il tempo è subordinato al movimento. Il tempo sembra poter condizionare il movimento, espresso nella formula di Amleto: “the time is out of joint”. Si crea così un punto di indecidibilità tra il reale e il virtuale, l’immagine-cristallo, cuore delle immagini ottiche e sonore: si tratta di una illusione oggettiva, frutto non di confusione soggettiva, ma di un rapporto per natura biunivoco tra reale e virtuale. Questa è la configurazione dell’immagine-cristallo, ma da dove viene? A crearla è il tempo, “che si scinde continuamente in passato che si conserva e presente che passa tendendo verso il futuro” (p. 27). L’immagine-cristallo mostra quindi contemporaneamente presente e passato, “la doppiezza, la virtualità che esiste fuori dalla soggettività e della coscienza, nel tempo” (p. 28). Il cinema “cristallino”, quindi, liberandosi dalla subordinazione al movimento e rivelando presenze illusorie, crea un luogo virtuale per una narrazione che va oltre la coppia oppositiva tra attuale e virtuale.
Il tempo, nel cinema, non solo crea immagini e quindi movimento, secondo l’impostazione deleuzeana, ma oltretutto si sdoppia continuamente, in presente e passato, sembra creare una detemporalizzazione del tempo tale per cui la memoria si struttura come “il differenziarsi attraverso la relazione” (p. 43): si tratta di un sistema fascicolato che si regge sulla serie di contrattempi dovuti a forze di relazione. Il cinema si modernizza quindi mostrando nuovi paradigmi tipici della modernità: innovazione tecnica, nuova percezione del soggetto, specchio della società contemporanea, e così via…ma niente come la potenza del falso qualifica il cinema moderno. Il nuovo sistema cinematografico è in continuo divenire, cambia senza sosta, in un continuo rinvio di se stesso dà vita a pluralità che è impossibile ricondurre ad unità, generando così uno stile né soggettivo né oggettivo, contaminato dice Deleuze, dove il giudizio, inteso in quanto valore di riappropriazione-riconoscimento, viene meno e fa posto all’affetto che spodesta l’ideale di verità e rilancia una serie di rapporti di forze senza centro. Deleuze (insieme a Bergson, Nietzsche – filosofi - e Welles – regista -), vede l’inganno, il falso, che diviene creazione del nuovo, e “l’artista è creatore di verità” (p. 72). È il falso che caratterizza il nuovo modo di fare cinema, in virtù di un oltrepassamento continuo delle posizioni precedenti e presenti, rispetto al tempo in prima battuta, ma anche rispetto alle immagini (o anche concetti). Siamo di fronte ad “una potenza che ci costringe a pensare” (p. 84), a partire dall’esperienza cinematografica e dalla sua relazione con la creazione di concetti, con la filosofia, di fronte a un cinema che mette l’uomo a confronto con l’impensabile. 
È in questo modo che si instaura e si può parlare di una logica della “ripetizione come elevazione a potenza, come sempre nuova affermazione di singolarità” (p. 87). Quella proposta da Deleuze per il cinema, consiste nel rilanciare e ripetere lo stesso: la descrizione dell’oggetto si sostituisce all’oggetto in sé; al posto di una trama verosimile compare una narrazione falsificante; si può notare così la differenza in opera, cioè al lavoro, come una dinamica che si ripete e crea molteplici rinvii. Il nuovo modo di fare cinema, quindi, mostra ciò che solitamente non si può vedere, un simulacro, come lo chiama Deleuze, cioè ciò che appare, in una vertigine senza fine che comprende differenza, ripetizione, sdoppiamento. “Il cinema, grazie alla sua genesi meccanica, si configura come un’impronta digitale del reale: sulla pellicola viene impressa una traccia in grado di aderire alla vita e di mostrare la vera natura delle cose e degli esseri umani” (p. 118). Ciò che viene mostrato nel e dal film non è una semplice riproduzione, ma l’oggetto stesso reso indipendente e libero, eterno, non come risultato di una tecnica, ma come lavoro in fieri. La pellicola diventa il materiale di supporto dell’intera rappresentazione, il foglio bianco di una scrittura che imprime un lavorio non solo tecnico, ma soprattutto vitale (in vita).        
Lo studio condotto dalla Angelucci si mostra come un' introduzione al pensiero del cinema di Deleuze ma, rimarcandone alcuni aspetti della riflessione filosofica, mette anche a fuoco indagini e letture di particolari autori e film significativi. Si tratta di una lettura parallela tra la riflessione sul cinema di Deleuze e l’arte cinematografica in sé, mettendo in luce i rapporti che sembrano regolare una concentrazione di affinità tra le due pratiche. 


Indice

Premessa

I. Movimento
II. Tempo
III. Virtuale
IV. Modernità
V. Falso
VI. Vita
VII. Ripetizione
VIII. Simulacro
IX. Sadismo
X. Caso

Bibliografia
Indice dei nomi 
Indice dei film

16 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

"Immagine - cristallo" è del prodotto quale percepito con eventuale supporto sonoro, prodotto offerto alla intuizione; essa non è di qualunque cinema ma del cinema con un significato evidente, conferito da arte o lavoro soltanto. Dunque immagini senza senso o con un senso; di oggetto risultante da azione tecnica previa e tecnologica postuma, del fare-proiettare. Quale significato, che sensi? Quali relazioni ad essi? Ma tutto ciò non modifica fondamenti di filosofia della percezione, adatti a qualunque percepire.
Altro è il paragone tra invenzione di azione filosofica e creazione artistica; ma vano è tributare alla arte del cinema facoltà di guide percettive per i filosofi; che appunto hanno filosofia della percezione quale base materiale del pensiero ed hanno, quale scaturigine interiore dell'agire, l'àmbito etetico — il quale in età contemporanea per la filosofia generale ha ruolo di sintesi e guida, tempi addietro tra fine Antichità e inizio Modernità attraverso parte di Medio Evo assunto da dottrina metafisica (solo dottrina è, non argomento concreto di per sé)...

Tutto ciò da recensione non si intende proprio!

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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In effettiva risultanza cinematografica, piano-sequenza è sempre assai scarsamente fluido, perché inquadrature vi si succedono o per sola attinenza estetica o anche per continenza estetica parziale, per esempio figura umana stessa... Continenza che in risultanza effettiva di solo cinema può esser semiparziale anche o finanche generale, mai totale.
Opera d'arte si può realizzare creativamente per interezza di fluidità, maggiormente a disposizione in cinema - non-cinematografia; condizione tecnica analogica rende risultanze di solo cinema ardue e raggiungimenti artistici di solito più radi o rari.
Tendenze d'arte antirealiste del cinema possono essere forze antiintellettuali non per critica d'arte ma per riflessione estetica filosofica; per la quale non è risolutorio fino ad esser antirisolutorio il concettualismo combinatorio –da risultanze di nonsenso e designificanze col fluido luminoso del proiettato non del proiettando né del resto, fluido costituito da effetto-schermo (oggi non solo inerti non solo separati cioè videoschermi anche) –che di fatto col cinema non consente arte concettuale ma arte in concetto materiale invero matericamente, mostrando precarietà e insufficienza dell'arte senz'opera – anzidetto concettualismo preferito da intellettualismi ed antiintellettuità dei marxismi -e relativi ex o post ed ex- sospesi tra primitivismo di massa e velleitarismo di pochi fino ad inadempienza cioè autodistruzione ex demagogica in società. Intellettual cultural Decostruzione e relativi Decostruzionismi ne recepivano destino fallimentare che revanscismi o aneliti distruttivi antioccidentali scordavano od occultavano...
Ciò ultimo accadeva purtroppo ancora in anno di recensione, la quale è sprovvista di consapevolezza a riguardo.

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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Tendenza antirealista imperante e minimalità di resa artistica dell'intero dispositivo del cinema erano una combinazione dagli effetti controproducenti, realisti qualora ingenuamente disimpegnatamente attuati; e fu il caso, durante Guerra Fredda, delle produzioni per massa del Blocco Ovest le quali da Est invano si tentò di confinare in mera elucubrazione; e stesso Deleuze contribuiva col porre in illogicità non solo teorica i rapporti di produzione cui intromesso sistema comunista totalitario con proclami ideologici che decostruire o quasi-decostruire appunto vanificava estrinsecando - anche per autorità di censure (in Italia invece, mai capite abbastanza dai più, furono determinanti provocazioni autocensorie di B. Bertolucci , fino ad autoesilio (non stabile)).
Ripetizione era istradata repubblicanamente da Deleuze quale fatalità di un procedere artistico ed extraartistico ingenuo data da conoscenza filosofica devoluta in società del cinema, non solo francese.

Lavoro di artisti del cinema non è analogico ma paralogico; anche digitale in certo senso e prima di relative tecniche; è un lavoro di autocostruzioni di base, non viceversa di ripetizioni metodiche di base; per questo tecniche digitali non ne hanno interrotto arte; difatti non c'è alcuna essenziale contrarietà tra codesti lavori e produzioni digitali, cui resa in non videoschermi però assai dipendentd da tecniche di sala da esser raffinate e sviluppate più di prima ...tanto che rese totali non tante e ricatti contro arte più gravi che mai nelle grandi sale...
— di ciò ultimo recensione non era rivelativa e adesso neppure.


Nel resto recensione non tratta di riflessioni su violenza sociale e cinema, annunciate da indice accluso.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In messaggi precedenti :

'etetico' sta per: estetico .

'Bertolucci , fino' sta per: Bertolucci, fino .

'dipendentd' sta per: dipendente .


Reinvierò con correzioni (sono spiacente per inconvenienti dipendenti da brighe ricevute e segnale internet concomitante a fenomeni elettromagnetici oggettivamente ingannevoli).


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

"Immagine - cristallo" è del prodotto quale percepito con eventuale supporto sonoro, prodotto offerto alla intuizione; essa non è di qualunque cinema ma del cinema con un significato evidente, conferito da arte o lavoro soltanto. Dunque immagini senza senso o con un senso; di oggetto risultante da azione tecnica previa e tecnologica postuma, del fare-proiettare. Quale significato, che sensi? Quali relazioni ad essi? Ma tutto ciò non modifica fondamenti di filosofia della percezione, adatti a qualunque percepire.
Altro è il paragone tra invenzione di azione filosofica e creazione artistica; ma vano è tributare alla arte del cinema facoltà di guide percettive per i filosofi; che appunto hanno filosofia della percezione quale base materiale del pensiero ed hanno, quale scaturigine interiore dell'agire, l'àmbito estetico (e non prettamente etico (in tal senso proprio "etetico") ) — il quale in età contemporanea per la filosofia generale ha ruolo di sintesi e guida, tempi addietro tra fine Antichità e inizio Modernità attraverso parte di Medio Evo assunto da dottrina metafisica (solo dottrina questa è, non argomento concreto di per sé)...

Tutto ciò da recensione non si intende proprio!

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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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In effettiva risultanza cinematografica, piano-sequenza è sempre assai scarsamente fluido, perché inquadrature vi si succedono o per sola attinenza estetica o anche per continenza estetica parziale, per esempio figura umana stessa... Continenza che in risultanza effettiva di solo cinema può esser semiparziale anche o finanche generale, mai totale.
Opera d'arte si può realizzare creativamente per interezza di fluidità, maggiormente a disposizione in cinema - non-cinematografia; condizione tecnica analogica rende risultanze di solo cinema ardue e raggiungimenti artistici di solito più radi o rari ma più frequente pienezza di arte (dunque logica inversa a quella da me or ora esposta a questo riguardo non è sbagliata).
Tendenze d'arte antirealiste del cinema possono essere forze antiintellettuali non per critica d'arte ma per riflessione estetica filosofica; per la quale non è risolutorio fino ad esser antirisolutorio il concettualismo combinatorio –da risultanze di nonsenso e designificante, col fluido luminoso del proiettato non del proiettando né del resto, fluido costituito da effetto-schermo (oggi non solo inerti non solo separati cioè videoschermi anche)– concettualismo che di fatto col cinema non consente arte concettuale ma arte in concetto materiale invero matericamente, mostrando precarietà e insufficienza dell'arte senz'opera – tantoché stesso concettualismo preferito da intellettualismi ed antiintellettuità dei marxismi -e relativi ex o post ed ex- sospesi tra primitivismo di massa e velleitarismo di pochi fino ad inadempienza cioè autodistruzione ex demagogica in società. Intellettual cultural Decostruzione e relativi Decostruzionismi ne recepivano e non refutavano destino fallimentare che revanscismi o aneliti distruttivi antioccidentali scordavano od occultavano...
Ciò ultimo accadeva purtroppo ancora in anno di recensione, la quale è sprovvista di consapevolezza a riguardo.

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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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Tendenza antirealista imperante e minimalità di resa artistica dell'intero dispositivo del cinema erano una combinazione dagli effetti controproducenti, realisti qualora ingenuamente disimpegnatamente attuati; e fu il caso, durante Guerra Fredda, delle produzioni per massa del Blocco Ovest le quali da Est invano si tentò di confinare in mera elucubrazione; e stesso Deleuze contribuiva col porre in illogicità non solo teorica i rapporti di produzione cui intromesso sistema comunista totalitario con proclami ideologici che decostruire o quasi-decostruire appunto vanificava estrinsecando - anche per autorità di censure (in Italia invece, mai capite abbastanza dai più, furono determinanti provocazioni autocensorie di B. Bertolucci, fino ad autoesilio (non stabile)).
Ripetizione era istradata repubblicanamente da Deleuze quale fatalità di un procedere artistico ed extraartistico ingenuo data da conoscenza filosofica devoluta in società del cinema, non solo francese.
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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Lavoro di artisti del cinema non è analogico ma paralogico; anche digitale in certo senso e prima di relative tecniche; è un lavoro di autocostruzioni di base, non viceversa di ripetizioni metodiche di base; per questo tecniche digitali non ne hanno interrotto arte; difatti non c'è alcuna essenziale contrarietà tra codesti lavori e produzioni digitali, cui resa in non videoschermi però assai dipendente da tecniche di sala da esser raffinate e sviluppate più di prima ...tanto che rese totali non tante e ricatti contro arte più gravi che mai nelle grandi sale...
— di ciò ultimo recensione non era rivelativa e adesso neppure.

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Nel resto recensione non tratta di riflessioni su violenza sociale e cinema, annunciate da indice accluso.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Ho reinviato miei messaggi con utili integrazioni anche e con ultima parte in ulteriore invio a se stante cioè.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Avendo citato attività del tutto non comune anche politica (filosofica) ed intellettuale di Bernardo Bertolucci, accluderò - in successivi miei invii - miei saggi critici, scritti dopo notizia non confermata, poi senza avvedutezza ripetuta dai giornalisti e accolta da opinione pubblica senza attenzione, di sua morte.

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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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- Prima Della Rivoluzione -
Saggio di cinematografia non sperimentale per la televisione.
Una critica inavveduta se ne compiacque senza identificarne tipologia, trattandolo alla stregua di saggio cinematografico sperimentale, restando ferma ad una analisi del linguaggio cinematografico ed aliena da serie valutazioni.
Tale linguaggio ironizzava proprio sulle inavvedutezze critiche, ciò per etica casalinga, per evitare cioè che i pedanti potessero disturbare con successo i reali interessati.
Il film fu presentato con rozzezza ed inconsapevolezza dai pubblicitari, tuttavia senza alterazioni.
Di quale cinematografia il saggio? Bernardo Bertolucci assumeva per oggetto la estetica tradizionale del cinema italiano prima di inizio del movimento neorealista, durata anche dopo e con risultati non trascurabili anzi maggiori di prima. A causa dell'evolversi delle produzioni culturali, predeterminato dallo stesso regista evidentemente con facoltà di cineasta e carisma bastante da solo per questo, non erano più possibili saggi cinematografici fuori dal movimento del neorealismo, per cui "Prima della rivoluzione" ne presenta lo stato ipotetico, di come essi sarebbero stati; e parallelamente ne presenta sarcasticamente e negativamente la realtà politica corrispondente, rimasta senza giuoco del cinema: la propaganda della sinistra totalitaria, che pretendeva una arte cinematografica della utopia comunista-marxista, idealista e moraleggiante.
Ma a farne le spese, per così dire, non furono dunque le fazioni già sconfitte, semmai le opposte, che intendevano porre in secondo piano il movimento del neorealismo, accusato di essere votato al solo socialismo e di essere o poter essere invadente e finanche sostituente creazione di italianità. A tale avversione il regista B. Bertolucci, con poteri di cineasta, reagì con la memoria dei veri nemici e con il funerale per il monopolio da essi perduto già prima di iniziare. Di fatto la politica marxista era stata in grado di ottenere il monopolio della cinematografia sperimentale ma non aveva raggiunto l'obiettivo e la parte opposta speculare restava anch'essa senza... il bottino, non potendo più profittare della mancanza di un esempio pratico che mostrasse l'impossibile ed il possibile da realizzarsi secondo gli schemi produttivi del capitalismo in Europa Ovest.
"Prima Della Rivoluzione" fu la pellicola che faceva girare gli intelletti dei maestri di cinema oltre che i fotogrammi, che inseriva nella produzione capitalista un oggetto estetico esotico, sorta di piccolo cavallo di legno entro limitate cinta murarie, che costringeva a una valutazione pubblica del cinema italiano senza il neorealismo e che poneva gli allievi aspiranti artisti del cinema in condizione di chiedere, di notare, oltre lo schema del capitalismo selvaggio, questo ultimo nel mondo del cinema funzionando per principi e metodi mai nuovi, sempre datati, che quindi si sarebbe ritrovato senza più una reale funzione formativa di base, anche perché in Italia le scuole durante gli anni della Guerra Fredda tra Est ed Ovest erano animate dalle richieste dal basso, proposte o comunque imposte dalla sinistra estrema non totalitaria e quindi nessun potere accademico poteva rifiutare le alternative estetiche nell'arte.
Una opera fredda, con pochissime pretese, apprezzabile da pochi interessati, nella quale si mostra l'aspetto di 'natura matematica' del cinematografo, il Regista riscattandone l'uso artistico dai calcoli obbligati. Ideologicamente un umanesimo non marxista contro gli usi univoci delle macchine da presa.
MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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La commare secca -
Primo lavoro di regia, non quale creatore d'opera, di Bernardo Bertolucci. Si tratta di un saggio cinematografico basato su sceneggiatura e soggetto e non su regia. Autore effettivo: Pier Paolo Pasolini.
Regia per un futuro diverso del cinema, secondo estetica di arte eventuale e concettuale, per volontà del Pasolini priva di direzione di produzione.
L'evento cinematografico che il regista designò per mutare i quadri di produzione secondo i medesimi canoni etici dell'epoca, compresi quelli delle Censure dello Stato, lasciando che fossero questi ultimi a dare essere all'evento ma (ovvio!) univocamente definito dal solo regista. È evidente che nel film lo stile è tutto ed è in tutto “pasoliniano”, era parimenti evidente però che il “climax”, nelle post-visioni, non le reazioni ma i modi delle reazioni degli spettatori ed i pareri di costoro non sul film ma sulla idea di andare a vederlo e di vederlo, non aveva nulla a che fare con le proiezioni con autore Pasolini. Quest'ultimo aveva azzardato la scelta di dare regia a B. Bertolucci, benché restandone poi quasi perplesso e come spaventato, a causa della determinazione con la quale il regista muoveva gli accadimenti del cinema, a proprio arbitrio di artista.
La soggezione di Pasolini fu considerata dalla critica una esternazione poco generosa ma eloquente ed il regista fu ritenuto dai giornalisti sorta di “bimbo prodigio” del cinema neorealista italiano.
Per ciò che riguarda i destini dell'arte cinematografica, questo lavoro di regia resta il medesimo sia nel valore intrinseco che estrinseco, per questo il Regista stesso ne disse come la conoscenza di un adito e la architettura di una porta, secondo intuizione non postuma ma postumo pensiero però sentimento invariato da prima a dopo.
Quelli che non intendevano differenza tra estetiche del concettualismo e dello eventualismo e delle diverse combinazioni relative, restarono convinti, come per estraniante fede religiosa, che autore ne fosse regista, ...una mente gemella dell'autore reale del soggetto.
Alcuni che aggiungevano commento agli atti censorii statali, anche in Stato stesso, insinuavano ridicolamente e superstiziosamente che erano stati “quelli della censura” a creare il grande evento di arte, ma venivano smentiti dai creduloni, quelli “dei gemelli”…
Di fatto gli ambienti cinematografici della critica costruttiva e della competenza lavorativa reagirono con una discreta approvazione generale e assai meravigliata.
Nonostante tanto intrico estetico ed intrigo politico, il saggio “La commare secca” è una opera non difficile e dai significati del tutto ‘trasparenti’; e ciò rappresentò una minima ma sufficiente ed irresistibile rivoluzione della pratica e degli ambienti della saggistica cinematografica, in Italia ed in Francia ed altrove. Sì, ché prima del successo di critica e cultura, nessuno forse avrebbe scommesso su una continuazione di carriera del regista, ma non dopo!
MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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/ Partner/
Sceneggiato cinematografico.
Il Regista presentò archivio anagrafico hollywoodiano di sorta, ottenuto per divergenze ideologiche, con tramiti estetici di discontinuità oltre che per spoliazione della bellezza tipica: si scorge l'Immaginifico degli "Studios" americani intervallato dai simboli antitetici, culturali più che politici, ritraendo la Contestazione mancata in Italia, non senza rivelarne le ragioni ma anche colmandone il segno con la comunicazione emotiva degli altri destini mancati, per disattenzione sociale ed egoismo economico da parte di mondi sempre meno reali e sempre più ideali. Entro tali istanze è l'Opera stessa a costituire la rivalsa sulle mancanze destinali dunque non fatali; la visione di "Partner" era cioè esperienza di Contestazione ed attualmente ne è testimone materiale.
Il film rappresenta il rifiuto, da parte del Regista, della matrice concettuale in estetica e del predominio della avanguardia artistica concettuale in politica sociale e culturale, qui ridotti a contenuti di un ironico campionario figurativo di mezzi orrori e mezzi onori, sullo sfondo di eventi di altra vitalità ed altri drammi e tragedie sconosciute ed incatalogabili dall'assolutismo delle Destre e delle Sinistre, altri eventi che irrompono per segni spettrali mentre i simboli che non li comprendono non offrono più interezze di significati né interessi per il senso della realtà e non solamente politica.
Quale lavoro nel cinema e del cinema, suo fine proprio ed unico possibile per cinematografia ma non di cinematografia: contro le imposizioni di convenzioni una mortificazione delle convenzioni culturali imperanti nei mercati delle sale e nelle occupazioni nelle sale; difatti non essendo atto di falsa emancipazione, la sola veramente attuata anche poi dai poteri marxisti europei, né azione di alternativa o avversione alla emancipazione, ma un raro esempio di questa ultima in Italia e per l'Italia, quando il contestare non era ancora il combattere.
Non un "horror-picture", ma un "terrific-picture"!
Genere che B. Bertolucci aiutò ad abortire limitandolo alle scene, per difendere la esistenza di una reale economia artigianale o di artigianato del Grande Cinema. Un contributo unico per quegli anni.
¯
MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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/Agonia /
Saggio di cinematografia sperimentale, secondo piano d'opera comune e diversi realizzatori, denominato "Amore e Rabbia" ed improntato ad ideologia anarchica apolitica non impolitica, col fine di esplorare i limiti del lavoro di gruppo cinematografico e di dare opportunità espressive non definitive ed impensate a nuovi autori di arte cinematografica diretta, cioè con piena resa artistica. In particolare l'episodio diretto da Bernardo Bertolucci era una interpretazione visionaria e realistica della politica e della società contemporanea, dove i potenti stavano diventando i rinunciatari, coloro che volevano sottoporre la rabbia all'amore per non intendersi diritti e legittime ambizioni e che avevano scopo recondito di rendersi rabbiosi dominatori e predoni, in società ed in politica; per questo l'interpretazione visiva mostrava la realtà di tale prepotenza concludendo il messaggio principale con una rievocazione immaginale di stampo biblico, da "statue di sale".
Stile neorealista e teatrale, per concezione artistica Opera da annoverarsi quale piccolo non ufficiale Manifesto di Realismo, genere cinematografico che Bertolucci poi egli medesimo praticò quale Autore, ma non suo unico genere.
Di fatto la consistenza, pur latente ma effettiva, del realismo di "Agonia", era un esperimento per un futuro cinema ma ne era anche esperienza presente, non legata a compimento autorale e proprio in quanto tale non esposta a critiche di parte e protetta dall'anarchismo di fatto nella Produzione, esposta agli imprevisti per lo stesso Piano dell'Opera; ed in tal modo il movimento neorealista era portato a destino imprevisto da B. Bertolucci, che non lo trasformava in realismo, cosa che stava facendo F. Fellini psicologizzandone la comunicatività, ma lo rendeva un contenitore per il realismo. Il potere demiurgico del movimento neorealista per un verso ne fu moltiplicato a dismisura, per altro verso ridotto a dismisura perché il contenuto primo ne era un manifesto realista e neutrale; e ciò, fu notato, era la fine di una incipiente tirannia intellettuale, che stava nascendo già negli ambienti della cultura politica legata alle espressioni cinematografiche, che essa pretendeva sempre meno psicologiche e senza smentite possibili dalle produzioni.
L'anello che non tiene del movimento neorealista, che ne evitò il degenerare in comando ed ovvietà e ne mutò la fine, evitandone che fosse anche morte dell'arte del cinematografo. Fu una impresa tempestiva, condotta tra polemiche furiose dei contrari, che già erano anche violenze e non secondarie.
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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+La strategia del ragno +
Lavoro cinematografico per televisione.
Opera di arte grafica verista, ottenuta per controesempio straniero, assunto per soggetto che di fatto era invertito in esempio non estraneo, a causa del differire della prassi del cinema dalla pratica della televisione.
Bernardo Bertolucci non si limitava al confronto del neorealismo cinematografico e della scrittura letteraria verista, ma trovava nella sottrazione-addizione segnica della tecnologia televisiva una non-identità oggettuale ma una identità dei soggetti, delle scene e degli argomenti, delle preparazioni cinematografiche e rese televisive, della verità letteraria e della nuova realtà visiva.
Mentre altri artisti italiani erano impegnati, per primi, alla creazione del cosiddetto "cinema in casa", B Bertolucci realizzava per i simboli letterari del Verismo una dimora nei segnali televisivi... ma con causa ed effetto volontarii di alienità, estraneazione, designificazione, trasmutazione, annichilimento; poiché il pathos dei romanzi veristi riceveva senso dalle immagini ma questo senso diventava tragico nel significato, fatalità e non imprevisto dunque cimento per una sublimazione-trasvalutazione, nello stesso destino della politica culturale italiana, quale necessità del suo esistere, allora si percepiva il bisogno di creare delle similitudini ai simboli letterari, che non fossero a loro volta letterarie e che non consistessero in una materialità densa e plasmabile per totalità e che fossero di arte popolare e di poca arte, non arte povera o ricca; ciò per dare alla gente ed anche comune esempi di drammi sensati e controesempi di insensate tragedie, da un altrove ma non per un altrove.
Il servizio reso alla RAI dal Regista fu il modo per pensare non idealmente cioè praticamente le verità da cui era nata la unitarietà della comunicazione contemporanea e per consentire ancora di godere l'arte piena delle immagini, anche cinematografiche, senza che gli artisti fossero impediti dalle contingenze negative.
Con questo lavoro B. Bertolucci chiudeva un proprio ciclo creativo, potendo finalmente iniziare con piena soddisfazione ad occuparsi del Grande Cinema, abbandonando cioè le piccole realizzazioni della saggistica e con tutto ciò di collaterale che esse potevano fare ed inoltrandosi nella arte cinematografica propriamente detta, dopo averne mutato il quadro con strategie da vero cineasta già in azione.
La resa televisiva del lavoro "La Strategia Del Ragno" è definibile un nichilismo dall'arte e dalla vita contro una fatale ma anche fatata negatività nella vita e nell'arte, non solo degli artisti ed anche dei defunti.
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

... // -
Ho concluso sequenza dei miei invii -appunto direttamente precedenti e non indirettamente connessi con gli altri miei prima– di miei saggi critici, su carriera di B. Bertolucci.
MAURO PASTORE