mercoledì 6 novembre 2013

Porciello, Andrea, Il caso degli speleologi di Lon L. Fuller e alcuni nuovi punti di vista

Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 162, euro 15, ISBN 9788849835564.

Recensione di Alessandra Callegari - 26/04/2013

Il pensiero di Lon Luvois Fuller si colloca all’interno del vasto e non facilmente definibile ambito dell’antiformalismo giuridico, in cui confluiscono molti autori e scuole di pensiero, appartenenti a tempi e luoghi diversi, ma che hanno tutti in comune l’aver cercato di cogliere l’origine dell’esperienza giuridica nella realtà sociale.
È opportuno sottolineare che per molto tempo il nome di Lon Fuller è stato curiosamente tralasciato dai manuali di filosofia del diritto 

prodotti in ambito italiano e internazionale, e solo dalla fine degli anni ‘90 del secolo scorso si è assistito ad una riscoperta della figura e degli scritti di questo studioso. 
L’opera in cui questi espose le linee fondamentali della sua filosofia del diritto, The Case of the Speluncean Explorers, del 1949, è stata recentemente tradotta in italiano da Andrea Porciello, presso l’editore Rubbettino. In questo saggio Fuller narra di un caso ipotetico, e delle possibili argomentazioni fornite da cinque giudici “di fantasia”, in merito alla sua corretta risoluzione. In dettaglio, la vicenda posta all’attenzione del lettore è la seguente: nei primi giorni di maggio del 4299 cinque speleologi, durante una spedizione, rimangono improvvisamente chiusi all’interno di una caverna, e, al fine di sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi, decidono di ricorrere ad un estremo atto di cannibalismo, uccidendo, uno tra loro, Roger Whetmore, cibandosi delle carni del suo cadavere (p. 16). 
Una volta tratti in salvo, e accusati di omicidio volontario, i quattro imputati vengono condannati a morte dal tribunale di primo grado. Fuller nelle pagine del suo lavoro, ipotizza il secondo grado di giudizio, in cui la Corte Suprema di Newgarth, attraverso i pareri dei suoi cinque membri, è chiamata a decidere se confermare o meno la sentenza di condanna a morte. Il caso degli speleologi, nelle differenti conclusioni formulate dai cinque giudici chiamati a deliberare, rimanda al ruolo svolto dalla morale all’interno del fenomeno giuridico. 
Se ad esempio il giudice Foster perviene alla conclusione che gli imputati vadano assolti, ciò deriva non tanto da una giustificazione di tipo politico, ideologico o emotivo, e quindi irrazionale, piuttosto dal modo in cui egli concepisce e definisce, del tutto razionalmente, il fenomeno giuridico e il suo rapporto con la morale, e quindi la sua concezione del diritto come un’attività finalizzata a perseguire determinati propositi o valori, interni al diritto stesso. 
Se il giudice Foster sembra ricordare, nelle parole di Porciello, lo stesso Lon Fuller, il giudice Keen personifica invece la filosofia che da Austin arriva fino a Hart e a Kelsen, ossia quell’approccio che vede la morale come un’abile scusa per disapplicare la volontà del legislatore e per applicare invece quella soggettiva dell’interprete (p. 30). 
Anche se Porciello sostiene nel suo saggio introduttivo “Taking Fuller Seriously”, che il diritto fulleriano consiste in un’attività che incorpora in sé una dimensione morale (p. 28), è doveroso precisare che il giurista americano non aderisce alla tradizione del diritto naturale sostanziale. Infatti, se da un lato non accetta l’idea che un sistema giuridico possa avere origine da una fonte trascendentale e assoluta, sia essa rappresentata da Dio o dalla “natura delle cose”, dall’altro, non confonde, come fanno invece i giusnaturalisti classici, la validità del diritto con l’obbligo di obbedire allo stesso. Più precisamente, egli non afferma che un cattivo diritto non sia diritto, ma sostiene invece che un sistema giuridico che si allontani dalla moralità interna non sia più diritto, e pertanto ne venga meno l’obbligo all’obbedienza.
Ed è proprio con il riferimento alla morale interna dei processi giuridici che è possibile comprendere la diversa qualificazione operata da Hart e da Fuller in relazione al rapporto mezzi-fini. 
Sul punto, il filosofo inglese ritiene che gli scopi cui deve tendere il diritto, inteso quale mezzo, siano esterni ad esso. Da ciò deriva l’idea per cui il diritto, privato del suo contenuto valoriale tipico, si riduca, in un’ottica à la Kelsen e à la Weber, a strumento tecnico creato per conseguire finalità individuate in ambito politico o ereditate dal contesto sociale. 
Fuller, a differenza di Hart, è invece del parere che le diverse forme giuridiche non possano conseguire un qualunque fine sostanziale, in quanto limitate da una loro moralità interna, che permette il rispetto della legalità. 
Nell’opera The Law in Quest of Itself, il giurista americano sostiene che la filosofia del diritto: “[…] is an attempting to give a profitable and satisfying direction to the application of human energies in the law” (L.L. Fuller, The Law in Quest of Itself, Northwestern University Press, Evanston Illinois, 1940, p. 2). Conseguentemente, egli elabora un vero ribaltamento in merito alla classica contrapposizione, all’interno del pensiero giuridico, tra giuspositivismo e giusnaturalismo, insistendo sulla concezione del diritto come ragione applicata alle relazioni umane.
Ora, Porciello, nel suo lavoro, espone il pensiero del giurista americano in tutto il suo sviluppo, senza tuttavia soffermarsi su una riflessione unitaria del suo pensiero, che ricomprenda anche un'analisi dei suoi scritti relativi al concetto filosofico-politico di libertà e alla concezione dell’uomo quale agente responsabile. Ciò sembra aver messo in secondo piano il contributo fornito da Fuller alla Jurisprudence contemporanea, non solo anglosassone ma anche continentale, sensibile alla tradizione del Classical Liberalism, che considera il diritto uno strumento per tutelare la dignità umana e la libertà, considerate dal giurista americano “le migliori speranze per un mondo pacifico” (L.L. FULLER. Anatomy of the Law [1968], Greenwood Press, Westport, 1976, p. 3). 
La stessa morale interna del diritto, anche se è composta da procedure, non si limita ad essere uno strumento tecnico valutabile in termini di efficacia e si qualifica come “morale” proprio in quanto è agganciata, dal punto di vista antropologico, ad una visione dell’uomo quale agente responsabile. Tale concezione, elaborata in modo esplicito nel 1964 quale mera appendice del più generale impianto teorico sviluppato nel libro The Morality of Law, conducono Lon Fuller ad affermare e sostenere un’etica deontologica di origine kantiana che considera l’uomo come «soggetto fine a sé» e mai come oggetto-mezzo, che si esplica attraverso il riconoscimento del carattere propositivo dell’uomo e nella tutela della sua dignità umana. In Morality of Law Fuller indaga le implicazioni che nella sua concezione può avere il diritto, definito come l’impresa volta ad assoggettare la condotta umana al governo di norme. Ed è proprio in tale ambito che egli conferma la sua adesione alla concezione secondo cui l’uomo è, o può divenire, un agente responsabile, capace di comprendere e seguire delle norme, e di rispondere delle sue mancanze. Il rispetto degli otto requisiti della moralità giuridica permette, da un lato, al diritto di perseguire il fine generale e primario di considerare le persone come agenti responsabili, dall’altro, di realizzare una comunità politico-giuridica di successo, impegnata alla promozione e alla realizzazione della libertà, intesa quale “libertà di”. La visione della natura umana, della relativa concezione della società e del diritto proposta da Fuller, si pone in netto contrasto con quelle concezioni, come il behaviorismo radicale di B.R. Skinner, a cui aderisce, secondo il giurista americano, il giuspositivismo.
È da segnalare, infine, che il saggio fulleriano The Case of Speluncean Explorers, abbia dovuto aspettare più di sessant’anni anni prima di essere tradotto in lingua italiana.  Il fatto che anche The Morality of Law abbia subito una sorte quasi analoga non rappresenta certo una consolazione. 
Il ritardo nell’attenzione e nella traduzione delle opere di Lon Fuller stupisce in modo particolare anche in considerazione dell’innegabile attrazione del mondo accademico italiano nei confronti di autori ed opere di area anglosassone.  I libri di alcuni studiosi britannici o americani vengono tradotti quasi a “scatola chiusa” e, spesso, addirittura in contemporanea con l’edizione originale.
È difficile e forse superfluo individuare tutte le ragioni che hanno contribuito a produrre questo disinteresse nei confronti del pensiero di Lon Fuller. Ritengo, tuttavia, che almeno una di queste possibili ragioni meriti quantomeno una breve riflessione.
In particolare, è possibile osservare che i teorici e i filosofi del diritto dei paesi di civil law non sempre si trovano a proprio agio con  le  opere  di  teoria  del  diritto  di  area anglosassone, caratterizzate da una spiccata attenzione nei confronti della pratica giuridica e giudiziaria,  e  dei  problemi  reali  di  giuristi, giudici ed avvocati. 
Concludendo, si sarebbe potuto desiderare che la traduzione del saggio di Fuller, manifestamente accurata, fosse accompagnata nell’introduzione, da un’analisi complessiva dell’approccio gius-filosofico fulleriano. Fuller, come si è detto, è un esponente del liberalismo classico, e quindi un’analisi di tale aspetto del suo pensiero – svolta parallelamente ad una ricostruzione della sua concezione del diritto - avrebbe indubbiamente accresciuto l’interesse e l’utilità di questa ricerca. 


Indice

Saggio introduttivo: “Taking Fuller Seriously”, di Andrea Porciello
1. Introduzione e struttura del volume
2. Il caso degli speleologi, ossia la filosofia del diritto per bocca di cinque giudici
3. Il caso degli speleologi come strumento didattico: dalla teoria alla prassi e dalla prassi alla teoria
4. Diritto e morale, la cornice teorica del “caso”: Fuller tra neokantismo e giusnaturalismo
5. Il rapporto tra mezzi e fini nella filosofia di Fuller: la terza via tra il formalismo di Hart e il sostanzialismo di Finnis
Nota del traduttore
Il caso degli speleologi, di Lon L. Fuller
1. Parere del giudice Truepenny
2. Parere del giudice Foster
3. Parere del giudice Tatting
4. Parere del giudice Keen
5. Parere del giudice Handy
Postscriptum
Il caso degli speleologi: ulteriori pareri, di Anthony D’Amato
1. Parere del Professor Wun
2. Parere della Professoressa Tieu
3. Parere del Professor Thri
Due pareri ancora sul caso degli speleologi, di Andrea Porciello
1. Parere dello studente Novice
2. Parere del Professor Masterhead
Epilogo
Le questioni giusfilosofiche evocate nei dieci pareri: squarci di filosofia del diritto da Platone a Rawls, di Andrea Porciello
Introduzione
1. I giudici della Corte Suprema di Newgarth e il problema della fedeltà alla legge ingiusta: dal movimento del diritto libero fino al neocostituzionalismo
2. I professori dell’Ateneo di Newgarth e il problema della giustificazione morale dell’azione: dall’utilitarismo di Bentham fino al liberalismo rawlsiano
3. Novice, Masterhead e il problema della volontarietà dell’atto: dall’etica deontologica al consequenzialismo
Bibliografia essenziale di Lon L. Fuller

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