lunedì 10 febbraio 2014

Heller, Ágnes, I miei occhi hanno visto

con Francesco Comina e Luca Bizzarri, Trento, Il Margine, 2012, pp. 130, euro 15, ISBN 978-88-6089-101-3. 

Recensione di Antonella Fani - 20/02/2013
  
Questo libro-intervista, in cui l’Autrice tratteggia sapientemente il suo percorso umano dalla vita nel ghetto alla sempre attuale dedizione alla filosofia, è l’espressione dei quattro giorni di dialogo profondo con Francesco Comina e Luca Bizzarri, ideatori del progetto, che ha come cornice il monastero degli Stimmatini di Sezano. Come sottolinea la Heller nella prefazione al suo stesso libro, l’intervista – che è il genere tipico della comunicazione diretta, normalmente estraneo alla riflessione filosofica – deve essere letta alla luce del lavoro di un filosofo e 

consente di tradurre in un linguaggio ordinario quei concetti specifici che possono così “suscitare l’interesse di tutti coloro che si sforzano di capire” (p. 11). 
Nel volume traspare, prima di tutto, una personalità appassionata alla vita e a quella ricerca filosofica che, data la complessità della realtà, non può arrivare mai a dare risposte definitive. Il ritmo delle giornate è sempre denso, ricco non solo di concetti filosofici ma vivo di presenze: il gusto per la natura e le passeggiate in montagna, la contemplazione dei paesaggi e delle città dell’Italia, la descrizione delle amicizie nella loro ricchezza e fragilità, la fiducia nella possibilità umana di costruire un mondo migliore con gesti eroici di bontà.
Il percorso umano e filosofico della Heller parte dalla descrizione della negazione metafisica dell’altro che con Auschwitz diventa progetto politico e nel nazismo celebra il culto di un Dio sterminatore: la filosofa afferma, infatti, che “assassinare tutti gli ebrei è un fine religioso. Egli [Hitler n.d.a.] voleva uccidere Dio e cancellare anche il cristianesimo, che comanda l’amore del prossimo come principio supremo” (p. 39).  Ágnes sperimenta la vita nel ghetto e la sua esistenza rimane profondamente segnata dall’esempio del padre, intellettuale, uomo giusto e onesto che non rifiuta di ospitare chi ha necessità, sebbene venga in seguito lui stesso deportato in un campo di concentramento nazista da cui non riuscirà a tornare. 
Nelle pagine del volume traspare una fine analisi di questo duro periodo vissuto: un’analisi che non si lascia sopraffare dal dolore e dalla condanna, ma che lucidamente esamina la situazione in cui si sono trovati ‘vittime e carnefici’. Sostiene, ad esempio, che non tutti i soldati del Reich furono malvagi e che è difficile definire chi si sia trovato in quella che viene chiamata “la zona grigia”: i giusti sono coloro che non stanno nella zona grigia, perché rischiano la propria vita per salvarne altre; tuttavia, in Germania ci sono state anche persone che, pur sapendo la drammaticità di quanto stava accadendo, non hanno potuto far nulla in quanto avrebbero compromesso la vita di altre persone, come ad esempio quella dei loro familiari. 
La vita e la filosofia della Heller è intimamente pervasa da quello che lei stessa chiama ‘ottimismo antropologico’: la cattiveria è un atteggiamento sempre attivo, perché significa far del male ‘volontariamente’ a qualcuno, per cui il giudizio del popolo che non si è ribellato a Hitler resta estremamente complesso. Secondo l’Autrice, infatti, poche persone sono malvagie per natura, mentre molti si convincono spesso a fare del bene, se non hanno motivi espliciti per non farlo. Spesso sono le condizioni sociali che creano i presupposti della cattiveria umana, facendo forza su quei sentimenti che indeboliscono l’uomo, che lo rendono più fragile nei confronti del bisogno di ricchezza, di riconoscimento, di potere.
Nel III capitolo la Heller risponde alla problematica questione sulla valenza della bomba atomica come punto di non ritorno della storia, prendendo anche in esame il dramma umano vissuto da chi, lanciando la bomba, ha prodotto inconsapevolmente quella violenza e migliaia di morti. Anche in questo caso, l’Autrice mette in evidenza molteplici punti di vista: ad esempio, nonostante sia estremamente consapevole del dramma umano che si è generato e della strage di persone innocenti avvenuta, afferma che “la bomba atomica ha portato la pace, e diversamente molti più americani e giapponesi sarebbero morti nei campi di battaglia” (p. 52); che “la forza simbolica di Hiroshima è importante perché funge da deterrente per l’umanità” (Ibid.); che nonostante la pace sia voluta da tutti, non è possibile estirpare dal mondo la violenza, perché “la libertà è tendere alla felicità e alla pace, ma non significa soffocare la contraddizione” (p. 56). La Heller, infatti, sebbene nutra profonda ammirazione per tutti quelli che nel ’900 hanno portato avanti una lotta nonviolenta, come Gandhi, non crede che questa possa rappresentare un’opzione vincente per il mondo intero. La pace costituisce un orizzonte, che può portare frutti nei singoli Stati ma non universalmente, perché le logiche e le contraddizioni del mondo sono troppo complesse.
L’intervista prosegue prendendo in esame il percorso esistenziale che l’ha portata a sacrificare la sua vita interamente alla ricerca filosofica, quando da studente della facoltà di fisica e chimica rimase soggiogata da una lezione di Lukács a cui era stata accompagnata. Il rapporto con il filosofo segna profondamente tutta la sua vita e Ágnes descrive attentamente anche le varie fasi che si susseguono in questo rapporto lavorativo e di amicizia. Se nel 1949 Lukács è “il volto della verità in mezzo a un mare di menzogne e di ipocrisie”, “dal 1953 il rapporto con Lukács si trasformò ed egli mi apparve davvero con il volto dell’amico” (p. 61): il ruolo di assistente la pone in condizione di percepire una posizione di pari dignità e di iniziare un dialogo e confronto libero.
Sarà tra il 1957 e il 1960 che verrà a costituirsi ‘la Scuola di Budapest’ da un gruppo di amici marxisti, fortemente influenzati da Lukács, che si opponevano al marxismo ufficiale e al marxismo-leninismo. Nella descrizione degli avvenimenti che seguiranno tale periodo – come l’impossibilità dell’insegnare nel regime che si era stabilito in Ungheria e il necessario trasferimento in Occidente nel 1973 per poter continuare la ricerca filosofica –, la Heller sostiene che il pensiero marxista è stato spesso travisato e manipolato in funzione delle logiche di potere, affermando che sarebbe possibile e opportuno parlare di Marx senza il ‘marxismo’, perché nella storia i vari ‘ismi’ hanno fatto più male che bene.
Ágnes Heller riprende, infine, la nota posizione espressa su quei ‘bisogni radicali’ che, se soddisfatti, aiutano ad “abolire lo sfruttamento nei rapporti sociali e a trasformare le forme di predominio e di alterazione nei rapporti tra gli Stati” (p. 84). Tutto questo mira non alla soddisfazione di tutti i bisogni (ideale irraggiungibile per il ricrearsi continuo di altri bisogni), ma alla realizzazione di un pluralismo etico, con differenti modelli etico-normativi in grado di creare consenso per una “vita buona”, ossia piena di senso, giusta, responsabile, retta, buona, dove il dover-essere dell’uomo si combina con il dover-fare.
  
  
Indice

Prefazione
di Ágnes Heller

Anteprima
Come Diotima nel monastero

Capitolo I
Il mio canto all’Italia 

Capitolo II
Auschwitz: l’immane colpa

Capitolo III
Hiroshima, il successo di un trauma

Capitolo IV
Lukács, le mucche e la scuola di Budapest

Capitolo V
Marx senza «ismo» e i bisogni radicali dell’uomo 

Capitolo VI
Il cane di Melbourne e lo champagne a New York

Capitolo VII
Il ballo con Rorty e  altre storie dall’Arcadia

Conclusione
Dove va la filosofia

Bibliografia
Indice dei nomi

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