mercoledì 2 aprile 2014

Lyotard, Jean-François, Perché la filosofia è necessaria

Presentazione di Corrine Enaudeau, traduzione di Rossella Prezzo, Milano, Raffaello Cortina, 2013, pp. 77, euro 9,50, ISBN 978-88-6030-586-2.

Recensione di Tiziana Gabrielli - 16/11/2013

«Ecco, quindi, perché filosofare: perché c’è il desiderio, perché c’è dell’assenza nella presenza, del morto nel vivente; e perché è in nostro potere il fatto che esso non sia ancora tale; e anche perché esiste l’alienazione, la perdita di ciò che si credeva acquisito e la scissione tra il fatto e il fare, tra il detto e il dire; infine, perché non possiamo sfuggire a questo: testimoniare la presenza di una mancanza attraverso la nostra parola. In realtà, come non filosofare?» (p. 77).
Così Lyotard, l’autore del celebre volume La condizione postmoderna (1979), risponde alla magna quaestio della filosofia: “perché filosofare?”. Il passo citato chiude un corso, rimasto finora inedito, che il filosofo francese tenne nel 1964 alla Sorbona per gli studenti di Propedeutica filosofica. Il testo, pubblicato in lingua italiana con una presentazione di Corinne Enaudeau, riproduce la seconda stesura del corso del filosofo, che ha rappresentato la traccia per le sue conferenze, a cui non sono state volutamente aggiunte note, per rispettarne l’originario carattere orale. 
Nella prima conferenza (“Perché desiderare?”), Lyotard eredita da Freud, attraverso Lacan, l’idea che «ogni relazione alla presenza si dà su uno sfondo di assenza» (Presentazione, p. XIII; cfr. p. 9). L’argomentazione muove innanzitutto dalla situazione contraddittoria che custodisce il segreto dell’esistenza stessa della filosofia, legata al desiderio come suo paradigma: «Perché porta con sé l’annientamento di ciò che esso interroga. In tale domanda sono ammesse sia la presenza reale della cosa interrogata (prendiamo la filosofia come un fatto, una realtà) sia la sua possibile assenza: ci sono al tempo stesso la vita e la morte della filosofia» (p. 4). 
Per comprendere meglio la relazione tra l’atto di filosofare e la struttura presenza-assenza, conviene esaminare brevemente che cos’è il desiderio. Il desiderio, secondo Lyotard, sfugge alla relazione causa-effetto, per essere piuttosto «il movimento di qualcosa che va verso l’altro come verso ciò che gli manca» (p. 5). Come emerge dal racconto di Diotima sul mito della nascita di Eros nel Simposio di Platone, «il desiderio è uomo e donna, oltre che vita e morte» (p. 8). Tutta la storia dell’Occidente, per Lyotard, può essere riletta attraverso il mito di Eros. «Come Eros ha bisogno di tutta l’ingegnosità che ha ereditato dagli dei per via paterna per non cadere nell’indigenza, così nella civiltà e nella società – poiché la civiltà è minacciata di morte, ossia di povertà di valori, e la società è minacciata da discontinuità, da un’interruzione della comunicazione tra le sue parti – niente è definitivamente acquisito, ed entrambe hanno continuamente bisogno di essere riconquistate, di essere riunite in quello slancio che, come dice Diotima del figlio di Poros, “spinge in avanti con tutta la sua forza”. In quanto socialità e storicità, anche noi viviamo su uno sfondo di morte e anche noi apparteniamo al desiderio. Deve dunque essere chiaro che con il termine “desiderio” intendiamo la relazione che, al tempo stesso, unisce e separa i suoi termini, li fa essere contemporaneamente l’uno nell’altro e l’uno fuori l’altro» (p. 11). 
Lyotard spiega come la filosofia, richiamandosi etimologicamente al philein, sia essa stessa amore, desiderio. A tal fine prende in esame la parte finale del Simposio, in cui Alcibiade crede che Socrate sia innamorato di lui e vuole «barattare qualcosa di visibile, la propria bellezza, con qualcosa di invisibile, la sapienza di Socrate» (p. 13). In realtà, non essendoci gioco tra i due, Alcibiade persisterà nell’errore fino alla fine, credendo, come gli Ateniesi, che Socrate sia un seduttore più sofisticato, uno stratega superiore a lui. Nulla di tutto questo, naturalmente. La neutralizzazione della logica di Alcibiade è l’unico scopo di Socrate, il quale vuol provocare, attraverso il dialogo, la riflessione sul fatto che la sapienza non è oggetto di scambio, ma non perché non può avere una contropartita, bensì perché essa non può mai darsi come dato acquisito, ma va cercata e desiderata ogni volta. «Ciò che il filosofo desidera  - avverte Lyotard - non è che i desideri siano convinti e vinti, ma che siano esaminati e riflettuti. Dicendo che sa di non sapere, mentre gli altri non sanno e credono di sapere e di avere, e morendo per questo, vuole testimoniare che c’è nella domanda, per esempio nella domanda di Alcibiade, più di quello che essa chiede, e questo più è un meno, un niente; che la possibilità stessa del desiderio significa in effetti la presenza di un’assenza e soggiornare presso di essa. Invece di cercare la sapienza, il che è folle, Alcibiade farebbe meglio (e anche voi e io) a cercare perché egli cerca. Filosofare non è desiderare la sapienza, è desiderare il desiderio» (p. 17).  
La seconda conferenza (“Filosofia e origine”) verte sul tema della perdita dell’unità e della morte del senso all’origine della filosofia e del bisogno di filosofare. La riflessione di Lyotard si snoda attraverso una disamina di alcuni frammenti di Eraclito, nonché di passi tratti da un’opera giovanile di Hegel, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (1801) e dalla Scarpina di raso (1925) di Paul Claudel. Dai frammenti di Eraclito (A 24: “la trama nascosta è più forte di quella manifesta”; A 17: “Nessuno, fra tutti coloro le cui espressioni ho ascoltato, si è spinto fino a questo riconoscere che la sapienza è separata da tutte le cose”, (p. 30) emerge, secondo Lyotard, che «non bisogna cercare l’unità, il dio, se non nella diversità, perché essa ne è la regola, il codice» (p. 31). Ma questi frammenti rivelano anche che «l’armonia, che è contemporaneamente la polemica degli elementi fra loro, non è più udita né espressa, che gli uomini stanno già sognando, si sono cioè ritirati al riparo dei loro mondi separati e, infine, che se c’è bisogno di attestare l’unità, come fa Eraclito, è proprio perché essa sta perdendo i suoi testimoni, si sta cioè perdendo» (p. 32). «Sappiamo perché c’è bisogno di filosofare: perché l’unità è perduta, - chiosa Lyotard - , e noi viviamo e pensiamo nella scissione, come dice Hegel; sappiamo anche che questa perdita è attuale, presente, non perduta in sé, e che non c’è un’unità per così dire transtemporale di tale perdita. Dovremo allora chiederci che cosa ha a che fare il filosofare con questa perdita unica, permanente, del senso, dell’unità, che non smette mai di perdersi» (p. 39). 
Il lavoro di distacco e di ripresa che contraddistingue la storia del pensiero mostra infatti che ogni filosofo è abitato dallo stesso desiderio, dalla stessa mancanza. È, come diceva Husserl, «un eterno principiante» (p. 35). Pertanto la storia della filosofia «mostra nella sua trama che la perdita dell’unità, la scissione che separa la realtà e il senso, non è un evento in questa storia, bensì, per così dire, il suo motivo (…); la perdita dell’unità è il movente della filosofia nel senso che è ciò che ci spinge a filosofare» (p. 38). 
Il rapporto tra filosofia e parola è al centro della terza conferenza (“Sulla parola filosofica”). Lyotard, innanzitutto, prende le distanze da una concezione reificante del pensiero ed afferma piuttosto che «pensare è già parlare» (p. 43), e che «parlare è comunicare» (p. 47). Rileggendo Claudel (Arte poetica) attraverso Saussure (Corso di linguistica generale) si comprende come il primo sostenga essenzialmente che «la realtà intera è la lingua che Dio parla» (p. 53). Al contrario, secondo Lyotard, «il filosofare inizia proprio quando Dio tace, nel tempo della povertà, come diceva Hölderlin, nel tempo in cui l’unità della molteplicità che le cose formano è ormai perduta, quando il differente smette di conferire, il dissonante di consonare e la guerra di essere armonia, per dirla con Eraclito. Il paradosso della filosofia è di essere una parola che si leva quando il mondo e l’uomo sembrano non parlare più, è di essere una parola che de-sidera, una parola che il silenzio degli astri ha privato della parola degli dei» (ibidem). La parola filosofica, quindi, non può ridursi ad un discorso coerente ed autosufficiente: «Per quanto i filosofi diano la loro parola, essa contiene contemporaneamente meno e più di quanto chiediamo loro» (p. 58). E poco più avanti: «La parola filosofica manca la verità, a cui pur mira esplicitamente; ed è vera solo in quanto sta al margine di ciò che dice, in quanto parla al margine» (ibidem). 
«I filosofi hanno solo interpretato il mondo in molti modi, si tratta ora di cambiarlo”. Così recita la ben nota undicesima Tesi su Feuerbach, scritta dal giovane Marx intorno al 1845. «Credo che in questa tesi di Marx – osserva Lyotard – abbiamo un buon punto di partenza per riflettere sulla reale ampiezza dell’impotenza, dell’incapacità, e dell’inefficacia della filosofia» (p. 63). La quarta ed ultima conferenza (“Su filosofia e azione”) rilegge in profondità la critica radicale alla filosofia come ideologia di Marx. «Per Marx, come per Hegel, la filosofia cerca la morte della filosofia, sta qui la sua passione più autentica; la morte significherebbe, infatti, che non c’è più bisogno di filosofare (…). Ma proprio la filosofia, intesa come ideologia nel senso marxiano, è incapace di porre fine a se stessa, di porre termine ai suoi giorni, perché deve la sua esistenza solo a quella mancanza che è presente nella realtà umana, perché poggia su di essa per cercare di colmarla mediante la parola e perché la parola filosofica, in quanto filosofica, cioè ideologica, cioè alienata, non può colmare la mancanza reale, dal momento che parla al margine, al di là, altrove» (pp. 66-67). 
Diceva Marx che «non è sufficiente che il pensiero cerchi la realizzazione, bisogna anche che la realtà cerchi il pensiero» (Contributo alla critica della filosofia del diritto di Hegel). «È solo se la realtà viene al pensiero, se il mondo viene alla parola,  - rileva Lyotard - , che il pensiero e la parola possono essere vere» (p. 70). Ma è chiaro che se il mondo chiede di essere trasformato, è perché nella realtà c’è un senso, un evento, che chiede di avvenire, ma è impedito. La stessa separazione della società in classi sociali è anche la separazione tra la pratica e la teoria, che informa le idee delle classi dominanti, come le chiama Marx. E pensare dal punto di vista dell’azione significa soprattutto lottare «contro tutto ciò che impedisce al desiderio di prendere la parola e, con la parola, il potere» (p. 75). 
Ma allora a che cosa serve filosofare, se la filosofia non sembra portare ad alcunché? Lyotard, in conclusione, ribadisce la necessità della filosofia: «Non potete trasformare questo mondo se non comprendendolo, e la filosofia può pure sembrare un ornamento sclerotizzato, un passatempo per signorine di buona famiglia (perché non produce aerei supersonici o perché lavora in casa e non interessa quasi a nessuno), può essere tutto questo e lo è realmente; ma resta il fatto che è o può essere anche il momento in cui il desiderio che è nella realtà viene a se stesso, e la mancanza di cui soffriamo, come individui e come collettività, si nomina e nominandosi si trasforma» (p. 76). 


Indice

Presentazione (Corinne Enaudeau)

Nota editoriale

1.        Perché desiderare?
2.        Filosofia e origine
3.        Sulla parola filosofica
4.        Su filosofia e azione

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