martedì 26 aprile 2016

Riva, Franco, Filosofia del cibo

Roma, Castelvecchi, 2015, pp. 226, euro 19,50, ISBN 978-8869440

Recensione di Mario Tanga – 18/06/2015

Il titolo dell’opera, diretto ed esplicito, tanto da sembrare persino un po’ pretenzioso, è onorato, però, da contenuti generosi e tali da soddisfare anche i lettori più esigenti. Lo snodarsi del discorso spazia ampiamente e percorre il tema del nutrirsi, dai recessi naturali fino a spaziare, senza soluzione di continuità, nell’universo simbolico e culturale delle pratiche alimentari, nei loro risvolti sociali, economici, scientifici, sanitari, giuridici, etici, estetici, filosofici. 


Uno dei principali punti di forza del testo è proprio rendere ragione della continuità – e unitarietà – dei diversi aspetti dell’uomo considerato in tutti i suoi rapporti con il nutrirsi, del loro denso implicarsi, attraversarsi e contaminarsi a vicenda: una bella spallata agli ormai datati, sebbene duri a morire, dualismi, quali soggetto-oggetto, corpo-mente, natura-cultura, percezione-azione, e agli idealismi che hanno dominato la scena del pensiero occidentale per secoli. L’opera di Riva invoca un nuovo paradigma, di ambivalenza, alternativo all’aristotelico principio di non contraddizione. Anche la forma si incrocia con la sostanza, occorre tener conto del fatto che l’allegoria crea estraneità e distanza tra i termini implicati, al contrario del simbolo, che mantiene un imprescindibile attraversamento reciproco tra tali termini.
La continuità tracciata dall’autore non è un pedissequo tentativo di giustapposizione, l’ennesimo sincretismo di facciata per una mera apparenza di ricomposizione dei ai vecchi dualismi, ma la proposta di una coraggiosa rifondazione antropologica a partire proprio dal corpo. Tale Operazione non si deve confondere con un materialismo che sia mero calco in negativo dell’idealismo, dettato dal risentimento per aver svalutato il corpo, in un modo o in un altro, cercando di dissolverlo in una sorta di negazionismo sdegnoso e ostinato, oppure relegandolo nei bassifondi della cultura, prigioniero piuttosto che cittadino. I rapporti tra corpo e prigione sono recidivi, nella storia del pensiero, e si declinano in due modi non del tutto disgiunti: il corpo è prigione dell’anima, come già per Platone, o il corpo è imprigionabile e imprigionato, veicolo di vessazione dell’uomo.
Insieme al cibo, il corpo si affaccia fin da subito, e da protagonista, sulla ribalta del percorso argomentativo, né poteva essere altrimenti. Nelle prime due parti come pertinente correlato, nella terza come padrone della scena. Nelle prime due parti molti, moltissimi sono i riferimenti al corpo, e tutt’altro che pretestuosi. La terza parte tralascia questa ben disegnata trama di implicazioni ed è dedicata tout-court al corpo. Riva segue le implicazioni forti che dal cibo portano al corpo (e viceversa), percorso che sviluppa per l’intera terza parte: un’espansione ben connessa al resto e decisamente interessante. Il corpo è inteso secondo differenti prospettive e accezione, una delle più significative è quella di nullpunkt dell’essere e dell’esistere; rifondazione non significa gratuità, né gusto del nuovo per il nuovo. Molti sono infatti i riferimenti filosofici, letterari e scientifici, rivisitati, però, con occhio diverso e con il chiaro intendimento di portarli alle loro conseguenze più lontane.
Cibo e corpo, hanno intrecci stretti, sovrapposizioni estese, fino a poterli scambiare. Tramite naturale e obbligato sembrano la corpulenza e l’anoressia, peraltro ampiamente trattate, ma in questa connessione, che si profila sottile e complessa c’è dell’altro, che emerge solo ad una lettura attenta.
Alla fine si esce dalla lettura di questo libro con l’impressione di aver esplorato uno statuto del corpo, oltre che del cibo e della nutrizione, tutt’altro che banale.
In un testo di questo genere, ricco di citazioni e riferimenti, occorre dire, però, anche che si contano diversi assenti. A proposito del rapporto tra cibo e lavoro, visti anche i termini in cui la questione è affrontata, ci si aspetterebbe di trovare il nome di Marx; Per il gioco di ambivalenze, uno dei principali fil-rouge, poteva essere appropriato un riferimento a Galimberti: Il corpo risale al 1983. Vigarello potrebbe essere citato a proposito delle prospettive storiche. E, ancora, dato il coraggio argomentativo, che consente all’autore di spaziare rompendo molti confini e tassonomie tradizionali, forse ci si aspetterebbero riferimenti anche ad alcuni elementi del simbolismo religioso, come l’eucarestia della liturgia cristiana, o all’immaginario letterario/cinematografico, come il vampirismo e il cannibalismo. Prima di chiudere questo piccolo cahier de doleances, un’ultima osservazione: già dalle prime pagine si rileva una vocazione esternalista. Dalla definizione del fenomeno comunicativo come tutt’altra cosa che un evento “balistico”, scandito in modo lineare e riduttivo, alla centralità del rapporto con gli altri, tutto parla dell’identità come qualcosa che include la diversità e va oltre l’autocentratura.
La vocazione esternalista, avanzando nella lettura, emerge forte e chiara, sebbene mai dichiarata esplicitamente; non a caso Riva insiste in più occasioni sulla portata della fenomenologia, tutt’altro che datata o esaurita, nei suoi sviluppi: le sue implicazioni, specie in nell’accezione pragmatica da lui prediletta, sono ancora feconde. Infatti la forza innovativa del paradigma di reciproca intersezione e scambio tra soggetto e oggetto, la dialettica irrisolta e irrisolvibile tra questi due poli, ciascuno sempre aperto al suo contrario, costituisce la pulsazione autentica e vitale del corpo, un dinamismo capace, già da solo, di scongiurare ogni tentazione dualistica o idealistica. Se uno dei due termini conquista un valore assoluto, come per esempio quando il corpo viene oggettivato in modo estremo, viene ridotto a materia di cui si dispone totalmente, si hanno i casi limite dell’anoressia e del suicidio, del corpo ridotto a mero oggetto, inerte cadavere. Ma proprio questi casi limite, anziché sancire in modo definitivo la modalità oggettivante, restituiscono al corpo, in modo apparentemente paradossale, quella primarietà che avrebbero dovuto negargli: l’oscillazione dialettica è inestinguibile. Inoltre tale dialettica genera anche un altro spostamento: dal paradigma spaziale, in cui si iscrive la cosa in quanto ontos, al tempo, in cui si iscrivono la vita e il divenire.
Il corpo non ci sta ad essere messo nell’angolo, chiede di essere (ri)assegnato al ruolo che gli compete. Il corpo è tutto: è fondamento, si estende anche nella dimensione psichica, autorizza a parlare di uomo-corpo come copula mundi, come risolutivo trait-d’union che connette materia e idea, sé e mondo.
Sé e mondo: la connessione e lo scambio parte dallo scoprirsi sporgenti su di esso, mentre il mondo sporge sull’uomo. Qui si svela la fallacia di fondo dei tentativi di costruire apparati identitari che dal mondo ci distinguano, che traccino una cesura completa per separarcene. È assurdopensare di potersi chiudere dentro tale arbitrario confine e di chiudere fuori il mondo, di separare un dentro e un fuori perché eterogenei ed estranei. Se siamo al centro del mondo, del nostro mondo, è solo perché siamo, in quanto corpo, il perenne punto – il famoso nullpunkt – di partenza e di ritorno per intrecciare le nostre fibre nella vasta e complessa trama del mondo. Il corpo non è una condizione, è la condizione per partecipare a tale scambio, partendo dall’assunto che io sono corpo. La scala di Giacobbe non deve portare fuori dal corpo, a trascenderlo, il suo decorso ascensionale già raggiunge le dimensioni non-corporee decorrendo sempre entro il corpo stesso. Tra corpo e mondo c’è un inesausto ed inesauribile gioco di scambi, in cui l’atto del nutrirsi e la bocca che ne è il luogo simbolico e materiale, giocano un ruolo primario. Dice Riva: «bocca è un io esposto, travolto» (p. 156). È un’espressione molto incisiva e si integra con la definizione di bocca come luce, in quanto non voragine introiettiva rivolta alla tenebra del cavo del corpo, ma possibilità di scambio e di arricchimento reciproco tra i mondi che mette in comunicazione. Vivere è non avere scampo dal mondo e non avere altro luogo dove andare, è attraversarsi reciprocamente, sebbene questa posizione, per la sua forza e radicalità, possa suscitare perplessità o addirittura rifiuto. In questa visione anche la grande lezione dell’esistenzialismo, che ha segnato in modo così profondo e innovativo il Novecento, spostando dall’essere all’esser-ci il perno della riflessione filosofica, sembra superata. L’esser-ci è incalzato da un più cogente esser-presso, presso il mondo, presso l’altro. L’espressione si esiste vicini ci ricorda l’epilogo di Se questo è uomo, di Primo Levi, in cui l’autore conclude che la nostra anima risiede in chi ci accosta.
La nudità che, fuor di metafora, mi fa scoprire umano, così come la fame e il bisogno, è il punto di partenza per rivestire queste congenite carenze con il mio volto sociale, con le parole e gli atti dello scambio con il mondo. La nudità dell’uomo è un po’ la stessa, se vogliamo, di quella de La scimmia nuda di Desmond Morris, ma superandola: è il punto di passaggio da una nudità come perdita di uno stato di natura, che non c’è più, a uno stato di cultura, che potrebbe non esserci ancora, reinvestendoci a ricordare un’innata carenza.
Il cibo ci chiama anche a responsabilità etiche. In prima istanza sembra implicare solo l’atto più egoistico e individuale: accaparrarsi le risorse alimentari, ogni giorno, ingurgitarle, impedire che gli altri intorno a noi facciano altrettanto sottraendocele: l’immagine della Natura dalle zanne e dagli artigli insanguinati, del darwiniano Huxley. In altra prospettiva si possono trovare e sviluppare spazi etici, cominciando dalla fame dell’altro, che ci permette di vedere come la condivisione non è solo possibile, ma doverosa. Dell’altro ci si può occupare e preoccupare: un salto di qualità necessario e possibile, pur senza rinnegare o aborrire il retaggio naturale, se si vuole ferino e brutale, con il quale occorre e occorrerà sempre fare i conti.
Questa lezione etica va anche oltre: qui si gioca la stessa umanità dell’uomo che inizia proprio dalla condivisione, da questo essere-per-l’altro. Riva la affida soprattutto, con maestria e grande pertinenza, ad un personaggio letterario, il Quijote di Cervantes, protagonista di bislacche avventure, al limite del grottesco, certamente, ma anche animato da una indomita idealità altruistica, profonda e matura, che ha ancora molto da insegnarci.
Riva non esita a condannare il soggettivismo tradizionale, bollandolo come produttore di un’identità bugiarda che ha come contraltare un’oggettivazione radicale che riduce il corpo a mera cosa, a carne morta, a cadavere, titolare né di soggettività, né di vita. Poteva essere opportuno un riferimento chiaro e forte alle radici storiche del soggettivismo moderno, la lunga deriva culturale che, dalla tarda antichità al Rinascimento, ne ha prodotto le condizioni.
In questo libro troviamo più di uno spunto originale, che però a volte si diluisce un po’ in alcuni passaggi appesantiti da pleonasmi e ridondanze, forse nel tentativo di sviscerare, anche linguisticamente, tutte le implicazioni dell’argomento. Il registro stilistico, nell’insieme pregevole, non è omogeneo e si dispiega al meglio nelle parti conclusive della seconda parte, per quanto riguarda il cibo, e della terza, per quanto riguarda il corpo, ricche di espressioni dense, incisive, particolarmente felici e ispirate.
Filosofia del cibo èuna lettura da cui si esce sicuramente arricchiti e a cui gli studi in materia dovranno fare riferimento.


Indice

Sommario

Prefazione – Sentire fame

Introduzione – Quel che il cibo non è

PARTE PRIMA. Mangiare è una gran cosa
Mangiare è una gran cosa. Paradossi del cibo
Bistecche al sangue. La tirannia dei bisogni
Città obesa, città snella. Il dualismo morale

PARTE SECONDA. Incomprensioni alimentari
Paragoni impossibili. Goethe, Calvino, una mucca e il principio di nutrirsi
L’orso mangia l’uomo, l’uomo mangia l’orso. Petronio e la cena di Trimalchione
Resisto al sesso, non al cibo. Una confessione di sant’Agostino
Zucchero e frusta. Addestrare l’animale che è in noi (Simone Weil)
Ventre affamato non sente ragioni. Levinas, Buber, Bloch, Don Chisciotte e una lite sul cibo
La bocca è un viaggio. Nancy, Derrida e l’«animale che dunque sono»

PARTE TERZA. Corpi incerti
Corpi liberi, corpi imprigionati
Corpi ambigui
Corpo e prossimità

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