lunedì 23 maggio 2016

Muraro, Luisa, Autorità

Torino, Rosenberg & Sellier, 2013, pp. 128, euro 9,50, ISBN  9788878851849

Recensione di Silvia Baglini - 21/01/2014

Con questo piccolo, denso volumetto Luisa Muraro ci mette a confronto con un tema centrale per il pensiero occidentale moderno e che risulta, oggi, piuttosto offuscato. 
Nel 1995 Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità del collettivo filosofico Diotima, di cui Muraro è tra le fondatrici, rifletteva sul «bisogno» di autorità – distinta dal potere – come sfida alla confusione simbolica fossilizzata sotto il principio di uguaglianza astratta su cui si fondano le nostre società. Adesso Muraro riprende il cammino e


riaccende la discussione prendendo in prima persona la parola – con tutte le implicazioni che in tema di autorità e “autorialità” questo atto comporta – non tanto per tracciare una sintesi di quel che da allora è trascorso, bensì per aprire un nuovo percorso dialogico (sollecitato dalla forma stessa di un libro che vuol farsi prima tappa e non conclusione compiuta). 
La nostra condizione attuale è di ambiguità nei confronti del tema che spesso si preferisce mettere da parte fin dal vocabolario, privilegiando il termine «autorevolezza» quando non si condannino invece gli eccessi dell’«autoritarismo». Muraro prende nota di questa incertezza semantica fin dall’inizio: incertezza del nome dovuta a scarsa chiarezza della cosa (p. 10), che ella si premurerà di evitare usando, nel seguito del libro, con luminosa precisione e senza paura, la parola “incriminata” anziché le sue parenti indebolite. Di «crisi» dell’autorità aveva parlato già nel 1958 Hannah Arendt, notando come questa fosse in difficoltà sia nello spazio politico che in quello, forse addirittura più esemplare, dell’educazione. Dell’oggi Muraro scrive come di una situazione di diffusa perdita, ma anche – in virtù di una concezione più fluida, come si vedrà, rispetto ad Arendt – di diffusa possibilità di risveglio del «senso» dell’autorità. Paragonando epoche storiche distinte non sul metro di un progresso della libertà (concetto sfuggente e per il momento lasciato da parte) ma con quello della forza o debolezza di questo «settimo senso» (p. 52), Muraro può accostare la confusiva perdita di riferimenti nel massimo della subordinazione propria dei cittadini nei regimi totalitari, all’attuale impostazione tecnocratica nella quale l’autorità, a meno che non sia quella impersonale delle «scienze», è trattata da problema superato tanto nella politica che nella pedagogia (campi che si rifugiano, semmai, nell’introduzione di nuove authorities con funzione gestionale). Il compito diventa allora riattivare la riflessione, a partire dalla conoscenza che ciascuno di noi ha dell’autorità e delle sue forme nella propria esperienza. 
Il libro è strutturato in quattro parti, più un’introduzione e un Congedo che è insieme ingresso nello spazio riservato all’interlocutore («Questo libro che non è un libro»). Ognuna delle parti è aperta da un’immagine, o meglio, da un invito a raffigurarsi, pescando nella memoria e nella fantasia, una o più immagini rappresentative di dimensioni o problemi dell’autorità. Muraro non propone una definizione, il suo stile non è analitico ma narrativo: è come persona ricca di esperienza che parla, mettendo in gioco la propria individualità, anche la propria differenza sessuale offerte apertamente come elementi del discorso a chi lo ascolta. Si rivela qui una sfida alla richiesta di obiettività impersonale propria di un modello scientifico dominante, come alla pretesa «neutralità» imposta alla parola, che non è altro poi che il corrispondente dell’uguaglianza formale sulla quale si vorrebbero misurare le relazioni umane. Prendere la parola invece, ci dice Muraro, significa creare uno spazio sottratto all’uguaglianza formale, uno spazio di differenza e di disparità – ma anche di mediazione – il cui principio, più che quello funzionale della competenza, è proprio l’autorità. 
Così facendo Muraro si pone in antitesi rispetto a un senso comune diffuso e tradizionale nella nostra cultura che, malamente identificando autorità e potere, fa della prima il bersaglio di una lotta in nome dei valori di libertà e verità; al contrario, riafferma l’imprescindibilità dell’autorità là dove vi sia creazione, introduzione di possibilità trasformative nell’esistente. Nel farlo si richiama all’etimologia individuata da Benveniste, il quale riconosce l’origine del senso della parola «autorità» non nel verbo latino augere con significato di «aumentare» (come da tradizione), ma nel più arcaico uso di augeo che indica «non il fatto di accrescere ciò che esiste ma l’atto di produrre dal proprio seno». E ancora: «Ogni parola pronunciata con autorità determina un cambiamento nel mondo, crea qualcosa; questa qualità misteriosa è ciò che augeo esprime, il potere che fa spuntare le piante, che dà esistenza a una legge. È provvisto di questa qualità solo colui che è auctor, che promuove […]» (citazione riportata a p. 80). Questa facoltà – che Benveniste attribuisce ai «pochi uomini» che possono vantare la qualifica di autore – Muraro la riconosce come prettamente collegata alla capacità femminile di «mettere al mondo», alla dimensione materna della quale fanno parte non solo il dare la vita nel parto ma anche quelle prime cure indispensabili all’essere di tutto bisognoso che è il lattante, tra cui rientra l’introdurre in un mondo di suoni, segni, significati condiviso. Il compito più grande della madre è il dono della lingua che essa fa all’infante, colui o colei che ne è, nel nome stesso, privo: «imparare a parlare» è anzitutto, per Muraro, non l’acquisizione di una capacità tecnica ma l’ingresso in un ordine simbolico all’interno del quale ciascuno può esprimere ciò che è (e vuol essere), riconoscendo gli altri e venendo da questi a sua volta riconosciuto. La «lingua che abbiamo imparato per prima, ammesso che la consideriamo non un’imposizione arbitraria ma una forza simbolica e una fonte inesauribile di mediazioni» (pp. 42-43) è, secondo l’autrice, la prima esperienza di autorità che tutti facciamo, e anche quella fondamentale su cui modelliamo tutte le successive. Si dà «autorità» là dove vi sia riconoscimento della comune appartenenza ad un ordine all’interno del quale le reciproche posizioni, azioni, possibilità e doveri trovano un senso condiviso. Ciò significa che l’autorità esclude l’esercizio della forza e la costrizione: coincide con un’obbedienza al valore simbolico dell’ordine cui si appartiene.
Significa anche che l’autorità esclude il ricorso ad un fondamento esterno, sia esso pure un’ipotetica norma di Verità, Giustizia o Razionalità: seguendo Montaigne “contro” Galilei e Kant (figure chiave della auto-definizione della modernità occidentale come lotta alle auctoritates) Muraro afferma che il segreto della forza della legge (sia essa dello Stato o regola etica condivisa) è nel suo «nome» di legge, nel valore simbolico che ad essa è tributato. Montaigne parla di «fondamento mistico» dell’autorità proprio nel senso che essa non è fondata su altro da sé ma coincide con la trasformazione che si attua nelle relazioni al momento del suo apparire (pp. 35-36): l’autorità trascende gli elementi del rapporto, non perché si collochi su di un altro piano dell’essere ma perché essa produce ed è la metamorfosi di questi entro un contesto che muta di significato. Essa non è dunque una «cosa» che qualcuno possa possedere, ma consiste della relazione stessa.  
Ciò conferisce all’autorità un significato politico che la distingue nettamente dagli ordini della forza e del potere: esemplarmente mostrato nel dipinto di Velazquez Las Lanzas (pp. 44 e segg.) l’apparire dell’autorità comporta l’instaurazione di un ordine simbolico nel mondo, la sostituzione del caos muto della violenza con un codice linguistico che dà senso ai gesti e permette di risolvere le controversie su di un piano diverso. Il riconoscimento dell’autorità non ha a che vedere con l’efficacia dell’azione o l’equilibrio delle forze relative: è la trasposizione della conflittualità su di un piano di regole che non annulla le disparità, ma le riqualifica come possibilità di scambio (si potrebbe riflettere sul ruolo che esperienze di ordine simbolico e «sostituzione» quali il gioco e l’illusione possono avere nel nutrire il senso dell’autorità). Là dove non vi sia autorità al più debole non resta che essere schiacciato dalle forze soverchianti. Lo spazio aperto dall’autorità conferisce senso alle regole della vita comune e trasforma un gioco di poteri in competizione in un ordine significativo rispetto al quale ciascuno può comprendere la propria posizione e decidere dell’opportunità dell’obbedienza o della necessità, invece, della ribellione (pp. 59-61). Muraro mostra come, a differenza della guerra contro il potere, che mira alla sua distruzione, la lotta contro l’autorità non può misconoscere il «fondamento mistico» della relazionalità, pena il ricadere nel magma della violenza: possedere il senso dell’autorità significa anche avere la sensibilità di capire come e quando disobbedire senza offendere l’ordine simbolico pur sempre necessario perché anche la propria stessa azione sia significativa e generatrice. L’autorità non è dunque garanzia di giustizia, ma spazio nel quale le istanze di giustizia possono combattere per la propria affermazione: spazio essenziale alla vita pubblica nella quale le donne e gli uomini ricercano, scrive l’autrice, risposta ai bisogni fondamentali che non sono solo di vita e sicurezza, ma anche di significato e valore (p. 59). 
In particolare in questa prospettiva l’autorità rappresenta un’occasione per le donne, storicamente escluse dal potere e dalla determinazione dei codici simbolici dominanti (vengono in mente non solo Antigone, qui citata, ma anche Le tre ghinee di Virginia Woolf), perché essa consente di combattere sul piano stesso dell’ordine simbolico, del suo riconoscimento o della sua negazione in virtù delle istanze sentite come essenziali: sconfitte dal potere le donne possono tuttavia riconoscersi e definirsi «soggette» nel «nome» dell’autorità diversa, sfidante, cui si richiamano. La lingua materna, lingua prima in cui impariamo a parlare, continua a costituire una possibilità pur dopo che si siano appresi i codici, maschili e paterni, di espressione nel mondo comune: il suo ingresso nello spazio della politica – è il caso delle Madres di Plaza de Mayo – crea scandalo e testimonia di un ordine nativo, irriducibile, che permane a contendere all’univocità dell’ordine dominante i registri della comunicazione e del pensiero nella loro integralità (pp. 81-83). 
Emerge, in conclusione, una concezione dell’autorità che, opposta a quelle «statiche e monumentali» che ne fanno un portato della tradizione o un monolite modellato «secondo l’ordine simbolico del patriarcato» (p. 91), la vede sorgere al contrario «nel qui e ora di una relazione tra esseri umani, grazie alla potenza mediatrice della lingua che ci mette in relazione attraverso le nostre differenze e disparità nell’atto stesso di darci le parole per significare la nostra esperienza altrimenti muta» (p. 90). Così intesa l’autorità si svela come evento molteplice e transitorio, non struttura unica e univoca, ma colore delle relazioni che esiste in un equilibrio sempre precario. L’autorità è qualcosa di cui aver cura e che vuol essere coltivata per esistere: sua condizione, ci dice Muraro, è una estrema fragilità. E tale fragilità non possiamo che accettarla come parte ineludibile del nostro essere umani: l’autorità è la forza che può creare e tutelare legami sociali liberi da violenza e sopraffazione, carichi di senso; ma d’altra parte è una forza del cui germogliare e crescere non vi è garanzia oltre all’impegno costante di ciascuno dei termini della relazione. La libertà pur non esplicitamente tematizzata corre come un filo teso lungo tutto il libro: pudicamente evocata come la possibilità di «ogni singolo essere umano ad essere quello che è, a monte di ogni opzione morale, etica, religiosa […], accettazione di sé, punto di partenza per essere e scegliere (e in caso fare) di più o di meglio, se lo desidera[…]» (p. 63), rivela la propria fragilità insieme all’inutilità del tentativo di offrirle una protesi nel diritto formale con il suo «senso obbligato della parità» (p. 99). Anziché opposta all’autorità se ne rivela consustanziale, e bisognosa delle medesime attenzioni della ragione e degli affetti, per continuare a costituire uno spiraglio, un’incrinatura e una resistenza negli odierni edifici del potere.


Indice

Volume I

Perché autorità?
Abbasso le Autorità!
Le Autorità cittadine
Siamo un cielo in tempesta
Abbasso le Autorità
Un autore senza autorità?
Il fondamento mistico
Usi, costumi e leggi
Pensieri di uomini in crisi
Il punto più difficile
La vis politica dell’autorità
Non è il trionfo della bontà
Potente senza i mezzi del potere
Il settimo senso
Le gerarchie
La vis politica dell’autorità
Anche l’autorità sbaglia
La confusione con il potere
Il grande gioco del linguaggio
La qualità misteriosa
Nel territorio dell’infanzia
Dignità e grandezza
L’autorità dal vivo
Maschile femminile neutro
Congedo
Per approfondire

Volume II

Questo libro che non è un libro

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