martedì 4 aprile 2017

Giuliani, Massimo, La giustizia seguirai. Etica e halakhà nel pensiero rabbinico

Firenze, Giuntina, 2016, pp. 264, euro 15, ISBN 9788880576518.

Recensione di Cosimo Nicolini Coen – 14/02/2017

L’oggetto di analisi del testo di Giuliani è icasticamente rappresentato nel sottotitolo del volume. Si tratta di indagare il rapporto tra “etica e halakhà nel pensiero rabbinico” laddove il termine di halakhà costituisce l’ambito normativo che innerva l’esistenza ebraica. L’indagine si muove quindi nel solco di una problematica che ha dominato la storia del pensiero umano: quali sono i rapporti tra “ciò che è lecito”, la norma, e “ciò che è giusto”? (p. 76). Fino a quando, si chiede l’Autore riportando delle riflessioni di Zagrebelsky, è possibile ricercare la giustizia


“nella e attraverso” la legge e quando tale ricerca porta ad andare “contro la legge”? (Ibidem, cf. G. Zagrebelsky, 2003). 
Se tali interrogativi presentano un interesse generale si tratta di comprendere come vengano a declinarsi nell’ambito ebraico. Questo basa la propria identità su di un nucleo normativo ove costantemente sono fatti risuonare motivi di portata universale che si specificano, nella narrazione biblica, nei comandamenti rivolti a tutta l’umanità (cf. p 72.) e nell’idea che ogni creatura sia fatta “a immagine di Dio”, da cui l’obbligo universale di “non fare agli altri quel che non vuoi che gli altri facciano a te” che si sostanzia, nella normativa rivolta a Israele, nell’obbligo di “amare lo straniero” (Deut, cf. p. 96). L’interrogativo circa il rapporto tra etica e legge diviene così anche interrogativo circa il rapporto tra universale (l’umanità) e particolare (Israele). 
Giuliani affronta, senza voler necessariamente risolvere, tali nodi attraverso un’accurata restituzione delle categorie che la tradizione ebraica, nella sua pluralità, ha nel corso del tempo adottato. Anzitutto va chiarita l’endiadi con cui l’ebraismo rabbinico ha pensato il rapporto tra il polo della normatività e quello, la cui definizione è di meno facile presa, di non normatività. Chi abbia un poco di familiarità con tali temi parlerebbe, a questo punto, del rapporto tra halakhà e aggadà, quest’ultima di solito definita come tutto ciò che di non strettamente normativo è contenuto nel Talmud e nella letteratura rabbinica. Per quanto questo sia corretto, l’endiadi che ha di mira Giuliani è un’altra e si colloca a un livello superiore poiché inerente non già alla natura dei testi della tradizione bensì alla restituzione che questa ha fornito di Dio. Storicamente refrattaria alla trattazione teologica, la tradizione ebraica muove non di meno da alcuni presupposti inerenti al trascendente tali da condurre Giuliani, analogamente a quanto avviene nel mondo ebraico anglosassone, a ricorrere con facilità a termini quali “istanze teologiche (halakiche)” (p. 33). Secondo l’endiadi di “Din”, Giudizio, e “Rahamim”, tenerezza ma anche pietà (cf. p. 101 e seg.), la tradizione concepisce un Dio agente nella storia in base alla difficile unione dei paradigimi del rigore, conditio sine qua non di ogni giustizia, e del perdono, elemento imprescindibile per lasciare all’uomo i margini per redimersi, mediante l’azione, da precedenti trasgressioni. Ora “l’inscindibilità di queste due dimensioni” (p. 102), oltre a permettere al lettore di comprendere l’infondatezza della contrapposizione propria all’antigiudaismo della Chiesa preconciliare ( e oggi piuttosto ereditata dalla parte disinformata del pensiero secolare) tra il Dio vendicativo dell’Antico Testamento e il Dio del perdono e dell’accoglienza del Nuovo, è propedeutica a mettere in luce l’equilibrio tra “nomos e ethos, legge ed etica”(p. 109) che si riverserebbe nella tradizione ebraica, e invero in ogni singolo ebreo, nella misura in cui questa e questi si plasmano in “imago Dei” (Ibidem).
Eppure questo equilibrio tra rigore del giudizio normativo e generosità, elasticità, del giudizio morale è lungi dall’essere pacifico. Tale relazione, oltre a rimandare alle “dualità esistenziali (…) metafisiche, che contraddistinguono ogni essere umano” (p. 11), illustra una tensione che segna il mondo ebraico attraversato da scissioni antinomiche (cf. p. 77) laddove si verifichi un eccesso di peso al polo del sentimento e dell’elasticità (gli esempi più noti sono il cristianesimo e Shabbatai Zevi), e da cristallizzazioni ortopratiche laddove si assuma l’insieme normativo privandolo della sua più intima ratio.
La sopravvivenza e la vitalità dell’universo ebraico si baserebbero su tale equilibrio, la cui comprensione è approfondita da Giuliani ricorrendo a termini che, se pur non sinonimici tra loro, si inseriscono nel medesimo schema endiadico. Così comprenderemo che “senza la realtà del chesed, il nomos perderebbe la sua anima” laddove chesed, termine prossimo a rahamim in quanto rimanda alla “reciprocità” e “gratuità”, “risponde a una mancanza e a una ferita di fondo” (p. 93) indicando “l’anarchia spirituale” (M. Fishbane, 2008, cf. Ibidem) al fondo del sistema halakico. Con la ripresa di tale termine, particolarmente provocatorio quando usato con riferimento a un sistema normativo, Giuliani può far emergere con nitidezza come l’osservanza della precettistica halachkika, nella misura in cui riposa su tale “archè anarchica” (p. 106) porti – almeno idealmente a “una dimensione che va oltre la legge” (p. 99) sulla base di una sua previa e costante osservanza. La comprensione del fondo anarchico, gratuito in quanto non giustificato o fondato da una norma di elemento superiore, della dimensione normativa halakica, permetterebbe di inserire all’interno dell’orizzonte normativo, e non in antitesi a questi, “l’attitudine alla generosità che (…) compensa i limiti stessi della legge” così “i tribunali e i giudici aggiustano i torti ma l‘oltre-misura del chesed compensa quel che il diritto non sa né può dare” (p. 92). 
Per comprendere in cosa consista questo “oltre-misura” è necessario guardare a un’altra delle endiadi analizzate da Giuliani, quella di “mishpat”, legge, e “zedek”, giustizia (p. 77), laddove il termine di mishpat rimanda alla soglia minima necessaria al mantenimento di un confine normativo riconoscibile, mentre il termine di zedek dovrà essere inteso in accordo al monito di Deuteronomio 16, 18 “giustizia, giustizia seguirai” dove “la radicalità della ripetizione del termine giustizia”, che non ha smesso di interrogare i commentatori, caratterizzerebbe “la vita etica” come “un incompiuto, una perenne tensione-verso” (pp. 81-82). In quest’ottica nessuna specificazione normativa, pur necessaria, può esaurire il significato di giustizia, sostantivo che la tradizione vincola al verbo futuro di inseguire, quasi a indicare l’impossibilità di giungere “alla pienezza della giustizia”, configurando quest’ultima come “valore-quadro”, “appello alla responsabilità” che va “al punto d’incontro tra riflessione etica ed esercizio dell’interpretazione halakhica” (pp. 75-76). L’oltre-della legge si declina all’interno del quadro normativo stesso mediante un’“etica situazionale” (p. 125) che se può ricordare l’equità aristotelica, è intesa in ambito ebraico quale “compensazione ermeneutica tra giustizia formale e moralità contestuale” (p. 146). L’imperativo a ricercare la giustizia eviterebbe di risolversi in esiti antinomici in virtù del fatto che il quadro normativo medesimo è in grado di evitare “gli assolutismi giuridici” “praticando la flessibilità ermeneutica” (p. 90). 
Ma attorno a quali principi si esercita tale flessibilità? I presupposti teologici sopra ricordati non devono ingannare. Il Talmud racconta l’episodio in cui l’interpretazione normativa favorita da Dio fu messa in minoranza dall’opinione degli altri dottori della legge. Giuliani si riferisce a tale episodio quando parla provocatoriamente di “immanentismo teologico” e “miracolo della logica” ossia predomino della “regola della maggioranza” e della “forza della ragione” (pp. 164-165). Pure gli interrogativi rimangono elusi: quali sono i principi che guidano i maestri nel loro ambito discrezionale? È possibile, e in quale misura, che in tale discrezionalità entrino principi estranei alle fonti (cf. p. 143)? Queste domande segnano le linee di faglia che attraversano il mondo ebraico. Nel momento in cui ci si allontana dagli aspetti più nitidi dell’halakà quest’ultima da sicuro vicolo diviene tessuto da ricomporre, chiarire. Problematiche giuridiche che presentano nondimeno portata filosofica, non appena siano intese. Secondo Giuliani qui è ineludibile, di nuovo, il riferimento teologico. Sarà la credenza secondo cui l’uomo è fatto a immagine di Dio a fungere da riferimento per orientarsi nell’ambito della discrezionalità e, più radicalmente, nell’oltre della legge. Tale proposizione conduce, secondo l’ottica dell’imitatio Dei accennata, a ricercare la realizzazione nella propria persona degli attributi divini. Riferimento teologico che si rivolve in effetti antropoietici, potrebbe suggerire qualcuno. Come che sia il legame tra etica e presupposti teologici trova riscontro nel legame tra riferimento al trascendente e umanesimo che attraversa tutti i monoteismi abramitici. 
La problematicità di tali passaggi non è sottaciuta dall’autore, anzi. Per quando de facto illustri pensatori come R. Cassin, tra gli autori della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, si siano rifatti esplicitamente all’eredità biblica per far avanzare posizioni umanistiche (cf. p. 193), rimane che la sussunzione a una ratio etica della tradizione ebraica, sia, secondo autorevoli autori quali Leibowitz, in polemica con la lettura del neokantiano H. Cohen, nient’altro che un travisamento dell’effettiva natura del patto di Israele poiché il servizio a Dio (avodà) deve essere prestato “a titolo completamente gratuito” e ogni sua “giustificazione” in termini di “bisogni umani” lo svuoterebbe di significato (p. 141, cf. Y. Leibowitz, 2001). Tale posizione è illustrabile ricorrendo a una terza endiadi, quella di “mishpatim”, leggi, e “hukim”, regole; dove mishpatim sta per l’insieme di “precetti etici, che la nostra ragione può comprendere” e hukim per “i comandamenti che appaiono del tutto gratuiti (…) senza apparente fondamento etico-razionale” (p. 100). Questi ultimi richiedono di essere accettati in quanto “comando incondizionato” (94-95), in base a un’eteronomia che segnerebbe uno iato incolmabile fra tradizione ebraica e lascito dei Lumi. 
Ora, però, se è vero che l’opinione di Dio è stata messa in minoranza con il menzionato “miracolo della logica” ne risulterebbe una contraddizione insanabile. L’endiadi mishpatim e hukim verrebbe a scindersi nei due opposti di razionalità, ove l’interpretazione normativa è eticamente orientata, e irrazionalità di un nucleo di norme insindacabile cui unico fondamento è il riferimento al trascendente. Forse la contraddizione apparirà meno lancinante non appena si presti attenzione a cosa significhino effettivamente i hukim, le regole prive di fondamento etico-razionale, sintetizzabili nel precetto di portare le primizie del raccolto al Tempio (p. 200). Di tale precetto siamo anzitutto chiamati a cogliere l’irrazionalità, posta la sua contrarietà a qualsivoglia principio produttivo. Una volta esclusa la lettura storicistica che lo inquadrerebbe nella logica superstiziosa della ricompensa – e che è precisamente quella contro cui la tradizione rabbinica si scaglia con il concetto di “lishmà, per amore del Nome” (p. 94) possiamo però provare a individuarne un’intrinseca razionalità, data dall’educazione anti-idolatrica di cui il precetto si vorrebbe vettore. Tale cessione di una parte di sé, del proprio prodotto, restituisce l’idea di un’umanità non idolatrica, che non si presta al culto della terra. È questo l’umanesimo inaugurato dal monoteismo, come segnalato da Levinas che coglieva nel carattere anti-idolatrico dell’eteronomia l’incipit di ogni ateismo. Proprio a Levinas Giuliani fa riferimento presentandone il pensiero come la più riuscita “fondazione non teologica dell’etica che sia mai stata tentata” (p. 186). In effetti una differente lettura di Levinas suggerisce che “l’etica senza soggetto”, “compito infinito” in quanto privo di “possibilità di essere esaurito in qualche dovere oggettivo” (Ibidem), non è tanto un’etica priva di riferimenti presupposti al trascendente quanto una rilettura del trascendente quale alterità per antonomasia; rottura della totalità dell’ontologia, come Levinas si esprimeva in polemica con Heidegger. Mentre Giuliani presenterebbe un Levinas fenomenologo influenzato dalla tradizione ma filosoficamente autonomo da questa vi sarebbe la possibilità di riscontrare nell’etica levinassiana sì la messa in discussione di una concezione teologica della rivelazione ma non già una negazione di quest’ultima, quanto, piuttosto, una sua radicale riqualificazione come momento eteronomo indispensabile all’etica come “optique”, conditio all’orientamento nel mondo. 
Giuliani però, pur volendo essere esaustivo, non sceglie di avventurarsi nei passaggi filosofici e si concentra invece sulla tradizione rabbinica. Ciò che interessa all’autore porre in evidenza, prendendo posizione e pur tuttavia non occultando la percorribilità nel seno della tradizione di altre letture possibili, è in che misura i precetti, quale che sia il loro grado di non fondabilità, si presentino al popolo ebraico per vivere in e mediante essi. “Osserverete le Mie leggi e i Miei statuti eseguendo i quali l’uomo avrà la vita” (Levitico; 18, 5); così il ritorno di una sovranità ebraica in terra di Israele, ritorno che di per sé si voleva in rottura rispetto alla lettura rabbinica dell’identità ebraica, permette di cogliere la ragione per la quale al centro della Mishnà (codice normativo) venga posto l’ordine che regolamenta l’agricoltura: la giustizia va inseguita in questo mondo e se per il nuovo ebreo secolare, che il sionismo ha reso possibile, vi è un senso nel riprendere in mano la tradizione questo è dato dal fatto che tale tradizione ha imposto un “primato dell’etica sulla fisica” (p. 135) vincolando l’uomo al dover essere della norma e obbligando la norma a convivere con il “bisogno di trascendere il din” (il giudizio: A. Lichtenstein, p. 146).


Indice

I. Il regolo di Shammai e la regola di Hillel.
I. Il primato dell’etica nel giudaismo . . . . . . . . . . . . . 11
1. La regola di Hillel e il suo specifico ebraico . . 13
2. Perché la regola d’oro è formulata in negativo 17
3. Riscattare Shammai: il regolo come simbolo . . 21
4. Il contesto del ghiur (conversione)
4. tra norme etiche e aspettative halakhiche . . . . . 25
II. Shofar e spada. I principi etici
II. e i dilemmi teologico-politici di Rabbi ‘Aqiva . . . 33
1. Rabbi ‘Aqiva e Ben Azzai: una disputa
4. sull’essenza della Torà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
2. Be-tzelem Elohim come dottrina a fondamento
4. dell’etica biblica e rabbinica . . . . . . . . . . . . . . . 39
3. In dialogo con il romano Tinneio Rufo:
4. lezioni etiche in forma di parabole . . . . . . . . . . 43
4. Quando l’etica non basta al Regno:
4. la resistenza armata di Bar Kochbà . . . . . . . . . 48
III. Qiddush haShem. Il martirio tra testimonianza
III. e idolatria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
1. L’halakhà sul qiddush haShem . . . . . . . . . . . . 55
2. Il morire per la fede nella storia ebraica
4. e nell’aggadà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
3. Il martirio è categoria adatta alle vittime
4. della Shoà? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64
4. Perché un kamikaze non è un martire . . . . . . . . 67
IV. Tzedeq e tzedaqà. Il primato della giustizia
IV. e il suo ‘oltre’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71
1. La giustizia, uno dei tre pilastri su cui poggia
4. il mondo, va senza definizione . . . . . . . . . . . . . 73
2. Lifnim mishurat hadin: “al di là della soglia
4. della legge” (per chi l’osserva) . . . . . . . . . . . . . 77
3. “La giustizia, la giustizia seguirai”
4. (Devarim 16,18), compito infinito ma fattibile . . 81
4. Come tutte le virtù, la giustizia non è
4. un habitus ma uno sforzo . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
V. Ghemilut chasadim. La pietas rabbinica
V. che rende vera la giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91
1. Chesed e ahavà: l’eccesso dell’amore che
4. compensa (e sorprende) la misura del giusto . . 93
2. Il contenuto dell’amore comandato non è
4. l’amore ma lo stesso comando . . . . . . . . . . . . . 97
3. La dialettica dell’amore e della giustizia . . . . . 101
4. ‘Am segullà: elezione e responsabilità . . . . . . . 106
VI. ‘Avodà, melakhà, pe‘ulà. L’etica del lavoro
VI. nella cultura ebraica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111
1. Lavorare nella Bibbia: la fatica
4. di trasformare il mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
2. “Bello è lo studio, se accompagnato
4. da un’attività produttiva” (Avot II,2) . . . . . . . . 118
3. Una business ethics già inscritta nell’halakhà . . 122
4. Hechaluz ovvero il pioniere sionista:
4. il lavoro come strumento di redenzione . . . . . . 126
VII. Qual è il posto dell’etica nella Torà?
VII. Una discussione aperta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131
1. Sul monoteismo etico: successo e
4. limiti di una certa idea di giudaismo . . . . . . . . 133
2. Torà lishmà e Torà lo-lishmà:
4. Yeshayahu Leibowitz vs Hermann Cohen . . . . 137
3. Il giudaismo riconosce una moralità naturale?
4. Aharon Lichtenstein vs Marvin Fox . . . . . . . . . 142
4. Etica e coscienza nel contesto dell’alleanza:
4. Walter S. Wurzburger e Eugene B. Borowitz . 147
VIII. Le “cause” delle mitzwot. Tra perfezione etica
VIII. e perfezione dianoetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153
1. Non v’è comandamento che non sia etico . . . . 155
2. “Razionale” è la Legge o il metodo
4. con il quale la si studia e la si applica? . . . . . . . 160
3. Lo ba-shammayim hi, la Torà non è in Cielo.
4. È immanentismo teologico? . . . . . . . . . . . . . . . 164
4. Fede contro etica, fede oltre l’etica ed etica
4. intrinseca alla fede: approcci a confronto . . . . . 168
IX. Dottrine ebraiche sui diritti (e i doveri) dell’uomo.
IX. Tra religione e laicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175
1. Quale fondazione per la dignità e i diritti
4. dell’uomo? Sull’idea di coscienza . . . . . . . . . . 178
2. È possibile una morale non religiosamente
4. fondata? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183
3. Il ritorno all’etica delle relazioni:
4. da Levinas a Hilary Putnam e Avishai Margalit . . 187
4. Il contributo dell’ebraismo francese alla
4. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo . 191
X. Ecologia, responsabilità verso il creato
X. e opzione vegetariana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197
1. Le mitzwot della terra come emblema
4. della giustizia nell’economia . . . . . . . . . . . . . . 199
2. Tutta la creazione ha valore in se stessa
2. e dunque ‘merita’ rispetto e cura . . . . . . . . . . . 204
3. “Rispettare ogni essere in quanto proprietà
4. di Dio” (Samson Raphael Hirsch) . . . . . . . . . . 208
4. Rispetto e moderazione: per un’etica ebraica
4. della sostenibilità ambientale . . . . . . . . . . . . . . 212
5. Etica ambientale, regole della kashrut
4. e opzione vegetariana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216
XI. Giudaismo, Stato di Israele e sovranità nazionale.
XI. Per un’etica del potere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221
1. Autonomia politica tra continuità e cesura:
4. duplice sfida per il popolo ebraico . . . . . . . . . . 224
2. Realismo e moralità nell’esercizio
4. del potere statale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 228
3. Perfezione halakhica e intuizione morale:
4. un’idea di meta-halakhà . . . . . . . . . . . . . . . . . . 232
4. Medinat Israel: la responsabilità di coniugare
4. tradizione, etica e modernità . . . . . . . . . . . . . . 237
XII. Il tiqqun ‘olam tra messia, etica e halakhà . . . . . 241
1. Dall’aggiustamento etico dell’halakhà
4. all’halakhà come aggiustamento etico . . . . . . . 243
2. La Shoà come male morale e la capacità
4. di resistergli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246
3. Quale tiqqun ‘olam dopo Auschwitz?
4. La lezione di Emil L. Fackenheim . . . . . . . . . . 250
4. Dare compimento, tramite l’halakhà, all’opera
4. della creazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 254

7 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Consultando l'indice ed appartenendo io ad altro universo di umanità, sono stato lieto di incontrare risonanze linguistiche inconsuete, etnograficamente rilevanti, certo non descrittivamente essendo la ebraicità non una appartenenza etnica ma essa configurandosi etnicamente per distinzione a posteriori rilevabile.
Per la radicale alterità a tale etnicità, indefinibile eppur riconoscibile, non esiste incertezza di identità relazionale agli altri ed alle cose che siano altre e proprio per tale ragione il dubbio sulle alterità a se stessi è ignorante fin quasi a paradossalità, fintantoché esso stesso risolvendosi nonostante insipienza si mostra nel suo lato sensato, ovvero si rivela non conoscitivo. Le umane alterità assolutamente non si somigliano, ma possono sembrare simili; allora un discorso di complicatezze bizantine, qual è questo mio (anche con un poco di umorismo) parrebbe una cosa differente da quel che è. Tali complicatezze sono esatto opposto delle raffinatezze giudaiche e sono in antitesi alla semplicità che si può constatare nei modi civili ebraici delle presentazioni; ed essendovi alterità non sola differenza, non se ne troverebbe in esse civiltà neppure... ché difatti non c'è dubbio che questa mia è una barbarie logica! Però è "innocente" anzi opportuna e necessaria, date 'circostanze e contesti'.

Dopo tanta premessa, mi risulta possibile fare anche un poco di filologia con stessa filosofia.
Il termine biblico 'Eber' corrisponde a parola della "Torah", con altro alfabeto e pronuncia, risultando eponimo dei cosiddetti 'ebrei', ciò secondo variazione di posizione di consonante 'r'. Questa intuibilità, oltre a derivare da altro riferimento precedente ovvero il termine biblico 'Sem' che indica eteronomicamente (non secondo omonimia!) una remota e più che antica umanità per tramite di nomìa cioè di appellativo non personale, è una possibilità che scaturisce dalla cosiddetta cultura mosaica, la quale non è ebraica né giudaica. Essa è definita dal termine biblico 'Mosè', foneticamente non lessicalmente da scriversi con accento non consueto, acuto: Mosé. Cosa ha a che vedere questo con la cultura della filosofia? Innanzitutto col passato: un grande filosofo, non ebreo proveniente da ebraismo quindi appartenente al giudaismo poi fuoriuscitone, Baruch Spinoza, aveva fatto studio comparato dei testi sacri dell'ebraismo e delle storie numinose del giudaismo, quindi pervenendo alla individuazione di tre antiche fonti linguistiche separate: una paratatticamente non sintatticamente di tradizione ebraica; un'altra grammaticalmente non paratatticamente presente e di origine giudaica; un'altra ancora sintatticamente paratatticamente presente quale originarietà non originalità ed assente ma affine linguisticamente, di ascendenza mosaica. Tale ultimo elemento glottologico B. Spinoza lo analizzava e lo scopriva in analogia con la cultura settentrionale degli ebrei dell'Asia, per i quali il Nord era e restava la direzione dei confini dei cammini, mentre della lingua mosaica biblica, matrice del linguaggio essenziale della "Torah", stesso Spinoza ne trovava appartenenza alle particolari culture nordiche, per le quali il Nord è la direzione di partenza non di abbandono né di arrivo. A qualcuno sembrò tutto ciò "come studiare l'arcobaleno" e Spinoza, scienziato ottico oltre che tecnico orologiaio, non parve soltanto diventare olandese e proprio allora che nasceva la preistoria de "I Nuovi Credenti"...
...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

... "I Nuovi Credenti" (costoso...) non sapendo nulla dell'Estremo Ovest, il luogo cui si può appartenere in tutto abbandonandolo per intero, disperarono dei Reami di Olanda e pensarono che ebrei e giudei fosser tutti falsi clandestini... Insomma non la ovvietà araba e raminga, per cui il monoteismo assume funzione del politeismo coi luoghi, ma tutto il rovescio; e si raccontò che... essendo il filosofo portoghese della Olanda estraneo ai gridi del Fado ed alieno dalle smorfie da belva dei suoi silenzi, non incominciasse a cantar nulla, ma non solo senza i termini rapaci né ferini, anche senza cenno di inizio. Da tanto senso di vuoto e buffo, si disse nacque ' l'ateismo moderno'!

Sembrerebbe volo pindarico il mio discorso, eppure la esistenza de "I Nuovi Credenti", proprio quella che il Conte G. Leopardi scorgeva estremizzarsi fin quasi allo sparire per i sentieri a tratti evanescenti per i bollori solidi non lontani del Vesuvio ed inventati cioè costruiti dai sommovimenti vulcanici ed umane spericolatezze, esistenza essa dubbia, precaria, era stata la occasione dell'ulteriore esistere, religioso, di ebrei non sedotti da Dio né col bimbo abbandonato in un cesto nel Nilo a tramutar con dogmi inespressi faide peggiori in vendette meno riuscite, ma abbandonati, senza giudice, senza divini "malediri", ed a mutarne le stramberie di quei Nuovi in stramberie di Vecchi neppure antichi, onde renderne presenza meno violenta con assenza ancor meno violenta...
È in tale quadro storico-culturale che si può trovare un principio filosofico orientativo per affrontare lo studio di "ebraismi ed ebrei" moderni ed, eventualmente, contemporanei. Per ciò bisogna chiarire filosoficamente la differenza che passa tra l'esser dei definibili ebrei e tra definizione di ebraismo. In tal caso lo 'ismo' non complica e per negazione definisce soltanto una inerenza positiva in quanto consapevolmente fuori da particolari destini incerti. Tale verità non è chiusa a pochi né riservata agli eguali di giudaismi né alle uguaglianze ulteriori, bensì è (o sarebbe) intellettualizzabile anche dagli 'altri' cioè anche da me, non mostrando si, a noi, però per concrete intuizioni. Eppure proprio la astrazione che ho cercato di far considerare è punto di osservazione alternativo utile, nello stesso senso per cui un mosaico bizantino è fatto non dalle tinte, non dalle parvenze dei colori, ma dai messaggi varianti vari luminosi ed ivi ovvero su di esso non posate ma levantisi.
Senza dubbio questa ultima non è barbarie logica ma selvatichezza emotiva, che ricostruisce sensitivamente finanche i fenomeni celati, non coperti soltanto, ma, si badi!, non è la famigerata temuta (ed a ragione anche) pornografia del postmodernismo.
...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Nell'ultimo testo inviato "costoso" sta per: costoro .
Purtroppo formattazione automatica assurda ed inconvenienti non creati da me né da me desiderati mi hanno impedito di correggere prima di invio.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

... "I Nuovi Credenti", costoro, non sapendo nulla dell'Estremo Ovest, il luogo cui si può appartenere in tutto abbandonandolo per intero, disperarono dei Reami di Olanda e pensarono che ebrei e giudei fosser tutti falsi clandestini... Insomma non la ovvietà araba e raminga, per cui il monoteismo assume funzione del politeismo coi luoghi, ma tutto il rovescio; e si raccontò che... essendo il filosofo portoghese della Olanda estraneo ai gridi del Fado ed alieno dalle smorfie da belva dei suoi silenzi, non incominciasse a cantar nulla, ma non solo senza i termini rapaci né ferini, anche senza cenno di inizio. Da tanto senso di vuoto e buffo, si disse nacque ' l'ateismo moderno'!

Sembrerebbe volo pindarico il mio discorso, eppure la esistenza de "I Nuovi Credenti", proprio quella che il Conte G. Leopardi scorgeva estremizzarsi fin quasi allo sparire per i sentieri a tratti evanescenti per i bollori solidi non lontani del Vesuvio ed inventati cioè costruiti dai sommovimenti vulcanici ed umane spericolatezze, esistenza essa dubbia, precaria, era stata la occasione dell'ulteriore esistere, religioso, di ebrei non sedotti da Dio né col bimbo abbandonato in un cesto nel Nilo a tramutar con dogmi inespressi faide peggiori in vendette meno riuscite, ma abbandonati, senza giudice, senza divini "malediri", ed a mutarne le stramberie di quei Nuovi in stramberie di Vecchi neppure antichi, onde renderne presenza meno violenta con assenza ancor meno violenta...
È in tale quadro storico-culturale che si può trovare un principio filosofico orientativo per affrontare lo studio di "ebraismi ed ebrei" moderni ed, eventualmente, contemporanei. Per ciò bisogna chiarire filosoficamente la differenza che passa tra l'esser dei definibili ebrei e tra definizione di ebraismo. In tal caso lo 'ismo' non complica e per negazione definisce soltanto una inerenza positiva in quanto consapevolmente fuori da particolari destini incerti. Tale verità non è chiusa a pochi né riservata agli eguali di giudaismi né alle uguaglianze ulteriori, bensì è (o sarebbe) intellettualizzabile anche dagli 'altri' cioè anche da me, non mostrandosi, a noi però, per concrete intuizioni dirette. Eppure proprio la astrazione che ho cercato di far considerare è punto di osservazione alternativo utile, nello stesso senso per cui un mosaico bizantino è fatto non dalle tinte, non dalle parvenze dei colori, ma dai messaggi varianti vari luminosi ed ivi ovvero su di esso non posate ma levantisi.
Senza dubbio questa ultima non è barbarie logica ma selvatichezza emotiva, che ricostruisce sensitivamente finanche i fenomeni celati, non coperti soltanto, ma, si badi!, non è la famigerata temuta (ed a ragione anche) pornografia del postmodernismo.
...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Dicevo di risonanze linguistiche inconsuete. Infatti in certi discorsi trovo inconsuete certe timbriche. Sonoramente "din", senza risuonare, originariamente ovvero, è elemento timbrico della cultura linguistica sanscrita, onomatopeicamente corrispondente a parte singola di imitazione verbale triplice del suono delle campane:

"Din, Don, Dan" .

Quale prima parte di onomatopea celtica in quanto da oggetto di origine celta, "Din" indica direttamente per comparazione maggior chiusura e non completa in restante identicità. Quale radice semantica greca, in variante ellenica "dyn", essa nella tradizione linguistica dei dialetti greco-elleni sta a significare scaturigine di movimento, principio di moto; mentre in greco italico e greco italo e lessico greco italiano essa rispettivamente significa: impulso; mobilità concretamente possibile; energia tensionale, ovvero usando il termine a se stante e non quale correlato:

sonorità colma di energia evidente .

Tale espressione va riferita alla elementarità linguistica italiana se usata anche con mentalità greca italiana cioè lessicalmente con minor indifferenza.

Noto invece che la cultura ebraica la astrae anche in risultante italiana da concretezze timbriche e semantiche lasciandone segno scritturale o vocabolo esotico o dizione straniera, che in quanto tale non riferendosi a natura ma omologandosi a concretezze espressive naturali ne assume senso limitato ed eccezionale di: 'corrispondenza ed arbitrarietà' e acquistando esternamente senso ulteriore aggiunto di: 'giustizia e opportunità'. Senza dubbio questo è il senso della variante spagnoleggiante non aragonese, cioè non stabilmente usufruibile in italiano, alle parole 'danaro', 'denaro', ovvero: "dinaro". Tale variante esotica illustra senso economico affine a cultura ebraica non greca, che i greci usavano per significare impassibilità ed estraneità in affari.
Invece trovasi un nesso compiuto di non identità nella analisi linguistica del vocabolo "rabbino", in quanto tale realmente consistente in diminutivo con genere mutato, nel senso di: piccola e diversa cioè non femminile rabbia. Tale vocabolario estemporaneo minimo unito a ugual dizionario si ricollega a cultura biblica senza eccepire significazioni anche non originarie né originali negli scopi di comunicazione religiosa e culturale.
Dunque per "Rabbino" nella cultura biblica, storicamente riferibile e riferita a storia dell'ebraismo, si intende carisma religioso che non prova ira ma pur sempre con analogo rifiutare le aberrazioni di faide, vendette ed occultazioni di Mistero.

Ciò implica...


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Ciò implica, dicevo:... Un Etos separato, con un Eros diverso che diverso Epos.

Alla domanda: chi sono costoro, chi sono i rabbini? Cosa risponderebbe un bizantino? Io stesso che scrivo sono bizantino e risponderei... :

Son coloro che non si accostano a chi convincono, che non hanno bisogno di mutarne destino e non di abbandonarlo ma che si compiacciono di compresenza anche.

Ugualmente sulle affinità timbriche di erre ed esse e sulla relazione semantica tra Sem ed Eber, che per caso non fortuito alcune formattazioni elettroniche informatiche attestano con automatismi (che io noto importuni perché con scopi invadenti subculturali), per esempio con la commutazione automatica per elaborazione programmata del termine scritto 'costoro' in 'costoso': tale esempio (non unico o non uno) non è caso ma necessarietà non fatalità telematica: cioè l'uso telematico non informatico (!) non evitabile di una lessicografia di matrice sanscrita e di non comunanza sanscrita.
Da questo riferimento rilevato tale non caso ma trovato anche di eventualità casuale, si deduce pertinenza di parallelismo verbale:

Rabbia, Rabbino | Sabbino, sabbia .

Un filosofema irrazionalistico sul contemporaneo ebraismo è possibile solo in certa misura, per cui fuori dal mondo ebraico esso evidentemente deve usare il Fondamento filosofico, mentre entro il mondo ebraico esso deve, se ne arguisce, utilizzare la Fondazione filosofica.
Lo suggeriscono i granelli di sabbia a chi bizantino o a chi altro greco, ma lo attestano solo per chi del mondo dove la natura non fa civiltà.

Quindi, io suggerirei di avvalsersi comunque della distinzione filosofica teutonica tra Acculturazione e Civilizzazione.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Si noti che la diversità da diversità, il 'diversamente, diverso che questo o quello o codesto', essendo il questo o quello o codesto anch'esso per parte propria e relazionabile diverso, diverso da... insomma il 'diverso che diverso' è punto di separazione minima tra le indifferenze della subculturalità e le differenze culturali, essenzialmente: il punto minimo. Ciò va riferito alle comunanze maggiormente possibili senza significanze, che sono nella cultura linguistica europea le ascendenze linguistiche dirette sanscrite, in punto di minima separazione atte a mantenere le distinzione tra elementi subculturali ed elementi culturali anche nel pensiero senza intuizione.
Da ciò emerge la pertinenza della azione filosofica che dal fondo immobile, il 'diverso', può risalire alla superficie mobile, del 'diversamente', ciò evidentemente in stessa frammentazione analogica ed in stessa intuizione logica, in medesimo comunicare tipico della postmodernità, della cosiddetta "società liquida" istituita dalla Rete Internet e dai poteri telematici, anche durante lo irrompere dello spietato veto automatico durante la necessità del venir meno delle corrispondenti difese della attenzione comunicativa.

Si consideri lo sciocco pseudopsicologo od il malevolo antipsicologo alle prese con la impostura della illusione o inganno di sapere lui l'altrui destino del Sé universale oppure Sé individuale (Brahman, Atman nella cultura della India) : se per uno scrivere a penna "a" cammello, su treno, o con uccello che voleva zuffa, od altro di occulto finanche, la trama illusionistica o ingannatoria non ha specchio circoscritto entro cui potrebbe l'onestà studiarne la violenza e stupidità, non così per i casellari dei pixel elettronici ed informatici, dove le ristrettezze non analogiche conducono entro combinazioni-coincidenze mediatiche non indefinite pur se indefinibili e non sterminate i possibili eventuali o chissà reali crimini di presunzione o prepotenza contro la mente altrui ed altrui comunicazioni. E si consideri l'esempio di un "tablet" a cavallo o cammello pure, ed il resto anche.

In ciò la precarietà con l'Assoluto non è del tutto possibile. Questo in ottica post-secolarizzata diventa designificazione ultima, cioè la assenza del rifiuto immorale e dell'invito etico tra Assoluto e relativi. Un indizio importante per le analisi filosofiche.

MAURO PASTORE