martedì 4 gennaio 2005

Matteucci, Giovanni, Filosofia ed estetica del senso.

Pisa, ETS, 2005, pp.223, € 15,00, ISBN 88-467-1329-X

Recensione di Alfonso Ottobre – 04/01/2005

Estetica

Che l’estetica italiana goda di ottima salute e che tale vitalità sia in qualche modo legata alla sua ormai provata capacità di distinguersi dalla cosiddetta filosofia dell’arte, è la prima delle considerazioni suscitate dalla lettura di questo bel libro di Giovanni Matteucci, “Filosofia ed estetica del senso”. Una conferma del fatto che l’estetica italiana sembra mostrare il suo lato più convincente e combattivo proprio grazie a quei filosofi che, come Matteucci, ne sanno cogliere e sviluppare la sua natura di “filosofia non speciale”, per citare il grande Emilio Garroni da poco scomparso, mostrando felicemente la sua naturale inclinazione verso le questioni del senso e dell’esperienza, la sua vocazione a muoversi trasversalmente, e con profitto, tra problemi e temi ontologici, epistemologici e di teoria del significato.
Certo l’arte e le sue opere incombono; e anche in questo volume finiscono col tornare sulla scena. Ma è proprio in questi casi che il lettore ha la rara opportunità di capire perché questo accada e come possa nascere quello stretto rapporto, che comunque esiste, tra arte ed estetica.

Per esplicita ammissione del suo autore, il volume ha una struttura deliberatamente armonica: è diviso in tre “percorsi”, ciascuno dei quali è introdotto da una “Nota” che sintetizza argomenti e obiettivi dei singoli contributi. Ognuna di queste tre parti è a sua volta articolata in tre capitoli.  
La chiarezza strutturale del libro consente al lettore di farsi immediatamente un’idea di quali siano le questioni trattate, nonché di sapere, almeno parzialmente, attraverso il pensiero di quali filosofi tali questioni verranno poste in discussione (dico parzialmente, perché ad esempio Wittgenstein sebbene non citato nei titoli principali, è spesso chiamato in causa). Qui è possibile trovare le prime sorprese: accanto infatti ad autori solitamente al centro dell’attenzione, come Kant (a cui è dedicato il capitolo di chiusura del libro), Gadamer o Arnheim, troviamo autori decisamente più trascurati, come Plessner, Lipps o Konig. Si badi bene: qui non c’è alcuna concessione al gusto per l’antiquariato storico-filosofico fine a se stesso: i filosofi che sfilano nel libro sono chiamati ad offrire un contributo concreto al dipanarsi della discussione condotta da Matteucci. Basterebbe citare, a mero titolo di esempio, il primo capitolo della seconda parte, nominalmente dedicato al pensiero di Helmut Plessner ma che, come lascia immediatamente intendere il titolo, “Sensibilità e sensatezza”, ci conduce direttamente al centro dei temi filosofici trattati nel volume.
Non è comunque possibile dare in questa sede un resoconto esaustivo di un libro tanto ricco, variegato e complesso. Questa però è un’opera che nasce da un nucleo di intenzioni teoriche ben preciso, come si spiega nella presentazione; ritengo perciò che analizzare più da vicino la prima parte del libro, quella dedicata ai “percorsi teorici”, sia il modo migliore per enuclearne concisamente i contenuti principali.

I “percorsi teorici” si aprono con “Elementi”, saggio scritto appositamente per questo volume, che svolge, tra le altre cose, la funzione di “esporre i termini essenziali che definiscono il problema e l’approccio al problema intorno a cui ruota la ricerca” (p. 13). Il problema a cui si fa riferimento è quello del “senso”, in quanto mostra “un cruciale connotato estetico una volta che lo si svincoli dal paradigma della referenzialità” (p. 15). Che vi sia uno stretto rapporto tra problema del senso e riflessione estetica non è certo scoperta di oggi, e di ciò Matteucci è ben consapevole; di che natura sia, tuttavia, il connotato estetico del senso e come (o addirittura se) se ne possa parlare è questione tutt’altro che chiarita, ed è proprio su questo fondamentale aspetto del problema che l’autore concentra la sua attenzione.
L’analisi di Matteucci parte da una critica serrata al referenzialismo e alle dottrine ad esso in qualche modo collegate, come ad esempio quella dei dati sensoriali. Tali modelli teorici vengono facilmente messi in crisi da quelle proposizioni che non esprimono asserzioni o descrizioni (ad es. “questa rosa sembra rossa”), frasi cioè in cui si dà senso anche in assenza di referenzialità, situazioni in cui non si esprime “incertezza”, come il referenzialismo ci costringerebbe a pensare, bensì una condizione percettiva che “ ha tutt’altra base che la funzione semiotica dei dati sensoriali, perché la sembianza ha qui piena e autonoma consistenza come modalità pregnante della relazione esperienziale in cui la cosa è concretamente presente” (p. 21). Per illustrare meglio il suo punto di vista, Matteucci sottolinea opportunamente le differenze tra una “grammatica dell’essente”, interesse predominante di molta filosofia moderna, e una “grammatica del sembiante”, l’unica che ci può rivelare, in quanto estranea agli schemi semiotico-referenziali, la “peculiare pregnanza e sensatezza dell’aisthesis”, permettendoci di capire che “il sembrare non è un sintomo dell’essere ma un modo specifico della presenza” (p. 22).
L’apparire sensoriale possiede quindi forza e validità a prescindere dalle determinatezze concettuali proprie della grammatica dell’essente. Forse il richiamo da parte di Matteucci ad Austin chiarisce solo in parte tale fatto: dire, come fa Austin alla fine del quarto capitolo di Sense and Sensibilia, che il modo in cui le cose paiono sia un fatto che riguarda il mondo e che se dico che la benzina assomiglia all’acqua rivelo un fatto sulla benzina e non su me stesso, semplifica in modo eccessivo la questione della response-dependence implicata in questi casi (basti pensare al caso in cui dicessi: la benzina non assomiglia all’acqua. Con ogni probabilità rivelerei qualcosa di non irrilevante su me stesso…) Tuttavia non è questo il punto cruciale: assai più importante è il fatto che, attraverso la “dinamica di campo del sembiante”, noi siamo comunque in grado di recuperare quelle “caratteristiche qualitative che la grammatica dell’essente tende invece a espungere dall’analisi” (p. 24).
La questione è assai complessa, anche perché la dinamica di campo del sembiante evidenzia il modo in cui qualcosa diviene esperienza, sottolineandone i tratti che “pertengono alla sua operatività”; ma tale operatività del modale tende a sbiadire “una volta che lo si trasformi in contenuto” (p. 24). Esistono tuttavia dei fenomeni in grado di illuminare anche questi aspetti sfuggenti della riflessione filosofica, come ad esempio la percezione delle immagini pluristabili. Le immagini del tipo della celebre anatra-coniglio infatti, sono esemplari di casi in cui “l’operatività percettiva espressa dal come è l’elemento cruciale nella costituzione di questa esperienza…il “come” necessario a esprimere la visione dell’immagine pluristabile, è un eclatante vettore dell’operatività del sembiante. Esso segnala che l’esperienza in atto è assorbita nella relazione della sembianza, determinando un decisivo arretramento della funzione referenziale” (pp. 24-25). Vi è dunque un importo di senso che prescinde da qualsiasi funzione referenziale; nel vedere-come noi non conosciamo propriamente un’anatra-coniglio, se non nell’operatività del sembrare: “anziché un contenuto tematizzabile il visto-come è perciò la modalità operativa…è solo operando che esibisco il senso di queste immagini, determinandolo esteticamente” (p. 27).
Seguendo questa linea di pensiero, Matteucci ci mostra come le caratteristiche suggerite dall’analisi delle immagini pluristabili, lungi dall’essere confinate in fenomeni eccezionali, possano condurci “nel cuore della percezione”: “Il problema  consiste nel cogliere la performatività estetica nella sua autonomia anche in quanto coefficiente con la funzione della referenzialità” (p. 29). Ed è a questo punto che l’arte può aiutarci a “mettere a fuoco le peculiarità del sembiante in quanto tale” (p. 29). Le considerazioni di Borges che Matteucci commenta in poche ma dense pagine, sono un’eccellente dimostrazione di come e perché arte (in questo caso, poesia) e riflessione estetica siano comunque destinate ad interagire: “nel momento in cui esibisce un contenuto, il verso lo rende disponibile come esperienza, come qualcosa da sapere percependolo nella sua intima sensatezza, talvolta anche prima di definirlo come contenuto designato. L’orizzonte di questo sapere diviene allora la reciprocità tra sensibilità e sensatezza” (p. 30). Più in generale, è il gesto artistico ad assumere un connotato estetico pregnante: “come i percetti pluristabili esso non viene colto di per sé ma nel suo far percepire, nella sua operatività performativa” (p. 33). Ed è solo grazie a tali presupposti che l’affermazione che “l’arte appare eminentemente un fare” (p. 33) assume finalmente un rilievo teorico che va ben al di là di una semplice constatazione.

Nel secondo percorso teorico, intitolato “Qualità”, Matteucci affronta il tema delle proprietà, o qualità, estetiche. Come era lecito attendersi, l’autore si confronta qui con questioni e argomenti  di matrice analitica, mostrando come sia possibile fecondare con idee di provenienza differente quella tradizione di studi, ancora oggi considerata “esotica”. Come è noto, la questione delle qualità estetiche rappresenta un caso evidente di come temi percettivi, ontologici ed epistemici possano sovrapporsi, a volte in modo naturale, altre invece per semplice confusione concettuale. Matteucci muove proprio da tale presa di coscienza: i pregiudizi di fondo dei partecipanti al dibattito (i.e. la dipendenza dell’estetico dal sensoriale, lo statuto relazionale, e quindi l’assimilazione alle proprietà secondarie, delle qualità estetiche) comportano l’inevitabile conseguenza che “l’estetica analitica realista trasforma la questione dello statuto delle qualità estetiche nella questione delle condizioni che consentono di ritenere valido (truth conditions) il discorso su una qualità estetica, come se realista fosse qualifica esclusivamente epistemologica” (p. 49). Il “salto di livello” qui suggerito è tutt’altro che irrilevante: esso tramuta un problema percettivo, di “modalità di rapporto con la realtà”, in un problema conoscitivo. “Dalla domanda ‘come si colgono le qualità estetiche?’ si passa alla domanda ‘qual è il contenuto di verità delle qualità estetiche?” (p. 49).
Per chi conosce la storia dell’estetica analitica e la sua forte connotazione metacritica, il salto di livello qui descritto non è certo sorprendente. Gli esiti comunque sono quelli descritti da Matteucci: in quanto indifferente al compito di svincolare il percepire dall’attività “specifica della determinazione epistemica” (p. 53), l’estetica analitica finisce spesso con il rimanere prigioniera di questioni che ruotano attorno al problema (vedi la sopravvenienza estetica o il dibattito sul realismo e sulla natura dei giudizi estetici) senza però scalfirne il nucleo più profondo. Matteucci, a conclusione del suo excursus, indica brevemente una via d’uscita promettente; un percorso che inizi col riconoscere lo statuto percettivo, “pienamente aisthetico”, delle qualità estetiche, e che, senza cadere nel fenomenismo o nel rappresentazionalismo, conduca a considerare le qualità come funzioni di “modalità specifiche (non di contenuti determinati) della percezione” (p. 54). In tal modo le qualità estetiche non definiscono un insieme determinato di sostantivi o attributi, bensì si propongono come indici “in grado di modalizzare attributi (e forse sostantivi) di varia specie e di genere differente” (p. 46). Ed è proprio in questo loro essere funzioni di quella modalità che affonda le sue radici nella “dimensione originariamente espressiva dell’esperienza”, che la qualità estetiche ci consentono di afferrare quei “tratti che ci si fanno incontro nel volto intimo del mondo” (p. 55).

Dopo avere, nei capitoli precedenti, distinto con molta cura la dimensione estetica dall’attività di determinazione categoriale o concettuale, Matteucci, nell’ultimo percorso intitolato “Giudizio”, affronta il problema dell’intreccio tra aisthesis e noesis, cercando di chiarire come e perché “occorra comunque accreditare un importo conoscitivo all’esteticità”; e dato che “anche in ambito estetico l’aver capito o compreso (…) ha riscontro in un enunciato giudicativo” (p.57), per chiudere il cerchio si rende necessario dire qualcosa a proposito del giudizio estetico.
Con lo scopo di preparare il terreno per un’analisi tutt’altro che semplice, Matteucci introduce il problema per mezzo di una ouverture dedicata alla comprensione musicale. La musica può ovviamente aiutarci a chiarire i termini di una ricerca sulla sensatezza in assenza di denotazione o referenzialità esplicita. L’autore però ci mostra anche come comprendere la “significatività” della musica voglia dire non soltanto entrare in rapporto con una dimensione estranea alla referenzialità, ma anche uscire fuori dai consueti schemi dell’ermeneutica, e più in generale,di qualsiasi visione della comprensione come atto successivo interpretante: “la comprensione è aspetto di uno stato dell’esperienza, non effetto di una attività che si rivolge all’esperienza (…) l’esperienza è luogo dell’articolazione, della costituzione di soggettualità e oggettualità (…) Un brano musicale deve essere ascoltato per venir compreso: solo nella sua stessa articolazione il fenomeno vive” (p. 61).
Matteucci si serve qui di alcune note riflessioni wittgensteiniane riguardanti la comprensione e l’interpretazione, riflessioni che mostrano chiaramente come anche per il filosofo austriaco, “la comprensione non sia un vissuto che corre parallelo all’esperienza percettiva (…) essa non può poi considerarsi nemmeno un atto successivo all’esperienza, poiché si capisce mentre si ascolta. Piuttosto, si dovrà riconoscere che la comprensione è implicata nell’esperienza” (p. 63).
Questo tipo di comprensione, che va ben oltre la prestazione cognitiva, schiudendo gli orizzonti di un’esperienza estetica ancorata all’espressività, svela le caratteristiche di una forma di giudizio dotata di una forza peculiare, in quanto continua rispetto all’arco esperienziale (ne rappresenta il segmento ultimo), in grado di riprendere a articolare di nuovo espressivamente il senso estetico istanziato. Vi è in gioco insomma, in questa forma di giudizio, una particolare proprietà che Matteucci propone di chiamare “performatività elocutoria”: “Ciò che funge da predicato estetico è manifestazione abbreviata di questa continuità esperienziale. La svalutazione di tale predicato (…) è funzionale alla considerazione performativa del giudizio estetico in senso elocutorio. In tal caso, la pretesa di validità condivisa del giudizio si giustifica con la possibilità di eseguire di nuovo la medesima esperienza ogni volta da parte di ciascuno” (p. 65).
Sulla scorta di quanto detto, è allora più facile capire perché il giudizio estetico non possa essere considerato come un vero e proprio enunciato predicativo, ma soprattutto è possibile (finalmente) capire una sua caratteristica basilare: e cioè che la sua funzione primaria non è quella di denotare la qualità dell’oggetto esperito, bensì “di concludere l’esperienza estetica, l’arco della percettualizzazione” (p. 67). Ciò non significa che il giudizio estetico esprima esclusivamente una situazione esperienziale “chiusa” nel perimetro della soggettività; la sua forza elocutoria consente agli oggetti della predicazione di divenire paradigmi di “potenziali atti di significazione che si configurano come comportamenti prima che come designazioni, come azioni prima che come denotazioni, in quanto si estrinsecano in un fare (rendere percepibile) piuttosto che in un mero dire” (p. 69). Se di conseguenza il giudizio estetico è pseudo-predicazione, in quanto non concerne l’oggetto, ma “le modalità dell’esperienza”, allora esso “è preservato dal rischio di trasformarsi in definizione essenzialista di che cosa sia opera, arte o bellezza, ossia dalla tentazione di statuire essenze” (p. 72), contribuendo invece a dare “rilievo alla figuralità non atomizzabile dell’esperienza còlta, capita, in una sua modalità” (p. 73).

A conclusione di questa breve e parziale analisi, bisogna ammettere che “Filosofia ed estetica del senso” non è un libro “facile”. Non lo è, come difficilmente può esserlo qualsiasi lavoro che nasca da una lunga e genuina attività di ricerca su certi specifici temi, e non dalla scelta opportunistica di argomenti “alla moda”. Ma dato che gli specifici temi ai quali si fa qui riferimento sono indubitabilmente al centro di ogni seria riflessione estetica (e filosofica in genere), si deve sperare che questo volume divenga presto oggetto di studio e discussione, e non solo nell’ambito della comunità filosofica italiana.

Indice

Presentazione. 
I.PERCORSI TEORICI
Nota
Ia. Elementi
Ib. Qualità
Ic. Giudizio
II. PERCORSI TEMATICI
Nota
IIa. Sensibilità e sensatezza: Plessner
IIb. Media e Sensibilia:Arnheim
IIc. Effetto e performatività: König 
III.PERCORSI CRITICI
Nota
IIIa. L’istanza critica nella fenomenologia di Hans Lipps
IIIb. Per la critica dell’ontologia del senso di Gadamer

IIIc. Sulla filosofia critica dei giudizi estetici di Kant

L’autore

Giovanni Matteucci insegna Estetica contemporanea all’Università di Bologna. Ha pubblicato numerosi saggi e i seguenti volumi: Anatomie diltheyane (1994), Immagini della vita (1995), Per una fenomenologia critica dell’estetico (1998), Dilthey: Das Ästhetische als Relation (2004). Oltre all’edizione italiana di opere di Dilthey (Estetica e poetica, 1995) e di Cassirer (Tre studi sulla “forma formans”, 2003), ha curato raccolte di saggi su Hegel (Hegel: fenomenologia, logica, sistema, 1995), Vico (Studi sul “De antiquissima Italorum Sapientia” di Vico, 2002), Gadamer (Gadamer: bilanci e prospettive, 2004 – con Michele Gardini), e sull’estetica analitica (Elementi di estetica analitica, in corso di stampa).

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