Padova, Il Poligrafo (Meaning & Mind, Studi di filosofia analitica), 2004, pp. 212, € 18,00, ISBN 88-7115-385-5.
Recensione di Julien Murzi - 13/06/2005
Filosofia analitica
Cosa determina l’uso corretto dei nostri concetti e delle nostre espressioni linguistiche? A questa domanda prova a rispondere Elisabetta Lalumera in Concetti e Normatività. Il Paradosso scettico di Kripke e la filosofia analitica della mente. Il libro della Lalumera è probabilmente il primo testo in lingua italiana che, esplicitamente, tratti del problema del significato e del contenuto mentale a partire dalla sfida scettica di Wittgenstein-Kripke. Il libro ha il pregio di esporre, nei suoi tratti essenziali, la dialettica kripkeana e di tentare di rispondere, attraverso l’esame di alcune teorie contemporanee dei concetti, alla sfida scettica lanciata da Kripke. La tesi di Lalumera è che i nostri concetti tengono traccia di una realtà articolata in generi naturali perlopiù indipendenti dalla nostra attività di categorizzazione concettuale. Il libro sostiene e difende quindi una concezione naturalista del contenuto mentale, all’interno di una cornice metafisica realista. Esso si articola in cinque capitoli. Il primo capitolo è dedicato all’esposizione degli argomenti di Kripke e alla discussione del requisito di normatività che essi porrebbero su qualsiasi teoria del significato o del contenuto mentale; il secondo difende un approccio realista al problema del significato e del contenuto mentale; il terzo e il quarto sono dedicati, rispettivamente, all’esposizione e alla critica di due recenti ed influenti teorie dei concetti ad opera, rispettivamente, di C. Peacocke e J. Fodor; nel quinto ed ultimo capitolo l’autrice delinea, a partire dai lavori di D. Lewis e R. G. Millikan, una teoria realista delle proprietà e del contenuto concettuale.
L’argomento principale del libro Kripke è familiare. Per quanto di ciascuna delle nostre espressioni linguistiche abbiamo fatto uso un numero finito di volte, gli usi potenziali delle parole della nostra lingua sono in linea di principio infiniti. Nessun fatto della nostra vita mentale e comportamentale, tuttavia, determina in anticipo la correttezza degli usi linguistici futuri. Ne segue, secondo Kripke, che ciascun nuovo uso è un salto nel buio.
L’argomento fa uso di tre assunzioni: (a) il genere di fatti che possono essere citati per rispondere alla sfida scettica non deve essere né semantico né intenzionale (Condizione di non-circolarità); (b) i fatti in questione dovrebbero riguardare i parlanti, guidandoli nell’applicazione dell’espressione ai nuovi casi; (c) i fatti in questione dovrebbero essere tali da giustificare la correttezza dei nostri usi “più”. Lalumera accoglie il primo requisito e respinge gli altri due. La richiesta di una giustificazione che riguardi il parlante implica l’adozione – senza argomento – di un’epistemologia internalista. Ma una simile mossa non è metafisicamente neutrale, e va pertanto scartata.
Il risultato principale dell’esame che Lalumera fa dell’argomento scettico di Kripke è tuttavia un altro. Nel libro di Kripke è stato individuato, dalla maggior parte dei suoi commentatori, un argomento anti-naturalistico. L’argomento c’è, osserva Lalumera, ma non si tratta di un argomento a priori. La questione sorge nel contesto dell’esame che Kripke fa dell’ipotesi di dare una soluzione disposizionale del Paradosso scettico. Ciò che conta quando vogliamo definire la corretta estensione del segno “più”, sostiene Kripke contro il disposizionalista, non è come usiamo l’espressione “più”, ma come dovremmo usarla. Ne seguirebbe, secondo Kripke, che i fatti semantici, se mai ve ne sono, sono irriducibilmente normativi. Quest’ultimo argomento, sostiene Lalumera seguendo Fodor e Horwich, non è valido. Esistono molti casi, infatti, di condizionali con premesse descrittive e conseguenze normative come, ad esempio, “Chi uccide deve essere punito”. Tutto ciò che Kripke può dire, quindi, è che fino a prova contraria non sono stati trovati fatti semantici in grado di determinare in anticipo la correttezza degli usi futuri. Non è escluso, tuttavia, che ciò possa essere fatto.
L’autrice si sofferma poi brevemente sulla questione dei portatori di verità. Ella sostiene, d’accordo con Peacocke, che non sembrano esserci ragioni per non adottare la tesi della priorità del pensiero sul linguaggio. Lalumera confronta quindi il suo approccio realista al problema del contenuto mentale con altri approcci di tipo antirealista. Il suo obiettivo non è tanto trovare un argomento a favore del realismo o contro l’antirealismo. Piuttosto, l’autrice tenta di mostrare (a) come il supposto problema del realismo – il problema dell’errore collettivo – possa essere affrontato e risolto, seppure con argomenti a posteriori e (b) come anche gli argomenti antirealisti vadano incontro a serie obiezioni. Ne segue che il realismo “si accredita, come minimo, come un’ipotesi al pari delle altre” (p. 95).
Lalumera esamina quindi le teorie realiste dei concetti di Peacocke e Fodor. La teoria definizionale di Peacocke non risolverebbe il Problema della scelta – il problema di determinare quali tra gli infiniti possibili sono i referenti dei nostri concetti, né soddisferebbe il requisito della normatività di base. Non sarebbe in grado, cioè, di discriminare le applicazioni corrette dalle applicazioni scorrette dei nostri concetti. La teoria causale della dipendenza asimmetrica di Fodor, d’altra parte, non permette, secondo Lalumera, una caratterizzazione non circolare delle proprietà cui si dovrebbero riferire i nostri concetti. Non soddisferebbe, cioè, la condizione di non-circolarità.
Lalumera elenca quindi una lista di desiderata sulle entità del riferimento, prima di esporre, nell’ultimo capitolo, la sua soluzione al problema scettico posto da Kripke. Essi sono quattro: (a) i referenti dei nostri concetti “devono essere passibili di individuazione non-circolare rispetto ai concetti che li rappresentano” (p. 168); (b) solo le entità appartenenti a un piccolo sottoinsieme degli infiniti referenti possibili dei nostri concetti devono poter essere elette al ruolo di referenti; (c) almeno alcuni dei referenti dei nostri concetti debbono avere potere causale; (d) una buona teoria dei concetti dovrà aver un’ adeguata portata esplicativa, dando conto se non di tutto, di buona parte del repertorio concettuale umano.
La prima condizione, sostiene Lalumera nell’ultimo capitolo del libro, può essere soddisfatta adottando una concezione essenzialista à la Kripke-Putnam della realtà. Le proprietà essenziali esistono, anche se non sempre è possibile specificare quali esse siano. Esse, tuttavia, non soddisfano il requisito della portata esplicativa. A ciò si può rimediare, propone Lalumera, adottando la prospettiva teleologica di R. G. Millikan, secondo cui “i concetti sono sistemi di naturali la cui funzione propria è quella di tenere traccia e accumulare informazioni sui generi naturali” (p. 183). Il criterio di genere naturale proposto da Millikan è il seguente: “Una classe di cose è un genere reale se sostiene l’induzione, cioè se è possibile imparare da un incontro cognitivo con uno degli individui che vi appartengono che cosa aspettarsi da un incontro successivo con quello stesso individuo, o con un altro” (p. 184). La teoria di Millikan soddisfa, secondo Lalumera, tutti e quattro i requisiti esposti in precedenza. In particolare, permette di rispondere allo scettico kripkeano. Ci sono, seguendo D. Lewis, proprietà migliori e proprietà peggiori. Le proprietà migliori sono in grado di sostenere generalizzazioni induttive non banali, le proprietà peggiori no. La proposta di Lalumera concede molto allo scettico. Non si dimostra che i nostri concetti non potrebbero in linea di principio riferirsi alle entità spurie di cui parla Wttgenstein-Kripke. Cionondimeno, è possibile mostrare, in base a considerazioni a posteriori, che non tutte queste entità sono eleggibili a referenti dei nostri concetti.
A una simile soluzione si potrebbe forse replicare che, di fatto, si deriva un concetto semantico – la correttezza – dalla nozione di successo predittivo. Non c’è tuttavia spazio, in questa sede, per sviluppare una simile obiezione.
In conclusione, il libro della Lalumera è molto ben scritto. Le argomentazioni sono rigorose e dettagliate. La sua lettura è caldamente raccomandata a chiunque si interessi di filosofia del linguaggio e di metafisica. Manca, forse, un indice analitico dei temi trattati. Si tratta, però, di un limite ben piccolo.
Indice
Introduzione
Il requisito di normatività
Normatività e realismo
Concetti e definizioni
Concetti e rappresentazioni
Concetti e generi naturali
Bibliografia
Fodor, A Theory of Content and Other Essays, Cambridge (Mass.), MIT Press 1990
Horwich, P., Meaning, Oxford, OUP 1998
Kripke, S., Wittgenstein on Rules and Private Language, Oxford, Blackwell 1982
Lewis, D., On the Plurality of Worlds, Oxford, Blackwell 1986
Millikan, R. G., On Clear and Confuses Ideas. An Essay on Substance Concepts, Cambridge, CUP 2000
Peacocke, C., A Study on Concepts, Cambridge (Mass.), MIT Press 1992
L'autrice
Elisabetta Lalumera ha conceguito il dottorato di ricerca in filosofia del linguaggio presso l’Università del Piemonte Orientale ‘Amedeo Avogadro’. Svolge attività di ricerca presso il dipartimento di Discipline della comunicazione dell’Università di Bologna. Si occupa di teorie dei concetti in filosofia della mente, epistemologia e scienze cognitive. È autrice di articoli pubblicati su riviste specializzate e volumi collettanei in Italia e all’estero.
Links
Un sito web molto completo, interamente dedicato a Wittgenstein on Rules and Private Language: http://krypton.mnsu.edu/~witt/
La entry della Stanford Encyclopedia of Philosophy dedicata al tema del Linguaggio privato: http://plato.stanford.edu/entries/private-language/
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