lunedì 12 settembre 2005

Costa, Pietro, Cittadinanza.

Roma-Bari, Laterza (Biblioteca Universale), 2005, pp. 162, € 10,00, ISBN 88-420-7587-6.

Recensione di Giovanni Damele – 12/09/2005

Filosofia del diritto

Come testimonia la radice etimologica del termine (civitas), la cittadinanza affonda le proprie radici nell’appartenenza a una città, la polis greca e la Roma repubblicana, intesa come istituzione pubblica fondamentale. Per quanto il concetto di cittadinanza del mondo antico sia distante non solo da quello medievale, imperniato sulla solidarietà delle corporazioni, ma anche da quello moderno formatosi con la rivoluzione francese, esso ha avuto grande influenza nell’ambito della cultura politica occidentale. In particolare, sono state fondamentali la concezione del “cittadino” come colui che partecipa “alle funzioni di giudice e alle cariche”, secondo la definizione data da Aristotele nel libro terzo della Politica, destinata ad avere una forte influenza su tutta la cultura politica occidentale, e l’idea, propria della cittadinanza romana, che allo status di cittadinanza fossero inerenti dei diritti. Nel diritto romano, infatti, la cittadinanza si caratterizzava anzitutto come una forma di tutela giuridica, della quale lo straniero (peregrinus) era del tutto privo, che assicurava, di fronte ai magistrati e ai funzionari, il riconoscimento di una serie di diritti e di garanzie. Uno status, di tradizione repubblicana ma ereditato dall’impero, testimoniato dai celebri passi degli Atti degli Apostoli nei quali Paolo di Tarso rivendica di fronte al magistrato la propria dignità di “civis romanus”.

È comunque con la Rivoluzione francese che “nasce” la cittadinanza moderna, nel senso in cui la intendiamo ancora oggi, ridefinita alla luce di altri concetti come quelli di Stato, libertà, diritti, eguaglianza e nazione. La parola stessa cittadino (citoyen) divenne il simbolo dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Il nuovo rapporto di cittadinanza che si creò non era più, come in epoca medievale, quello tra il cittadino e la città, ma quello tra il cittadino e lo Stato nazionale, completando una traiettoria che aveva avuto inizio con l’affermazione dell’assolutismo. Jean Bodin aveva infatti già ricondotto, nei Six livres de la république (1576), la cittadinanza al rapporto di sudditanza diretta nei confronti del sovrano, pur senza abolire del tutto il ruolo delle “appartenenze” alle piccole patrie cittadine. La “nazione”, composta dall’insieme dei sudditi sottoposti al monarca, con la rivoluzione si trasformò così nel corpo sovrano formato dai cittadini, delineato da Emmanuel-Joseph Sieyès nel suo pamphlet rivoluzionario Che cos’è il Terzo Stato?, nel quale ai “privilegiati” che, pretendendo di sottrarsi all’eguale sottomissione alla legge, costituivano un “corpo estraneo”, era contrapposta la “nazione”, identificata con il Terzo stato. Il Terzo stato è tutto, diceva Sieyès, perché “comprende in sé tutto quel che occorre per formare una nazione completa”, per questo, agli Stati generali, sono contrapposti “venti milioni di cittadini” contro “duecentomila individui” privilegiati. I “cittadini” erano, perciò, sia il soggetto collettivo che muoveva il processo rivoluzionario sia l’oggetto della “dichiarazione dei diritti” che di quel processo era l’evento centrale.

Già nella sezione seconda della costituzione del 1791, dedicata alle “assemblee primarie” e alla “nomina degli elettori” dell’ “Assemblea nazionale legislativa”, sorgeva tuttavia una delle questioni centrali della cittadinanza: la questione del censo. Contro le esclusioni in base al censo e allo “stato di domesticità, cioè di lavoratore salariato” dallo status di “cittadino attivo”, Robespierre pronunciò il celebre discorso del 20 aprile 1791, passato alla storia come il discorso del decreto “sul marco d’argento”, riprendendo la concezione rousseauiana della volontà generale per affermare il diritto di piena cittadinanza di tutti gli uomini “nati e domiciliati” in Francia. Già nel giugno 1790, del resto, Marat aveva redatto e pubblicato su «L'ami du peuple», una supplica in nome di “18 milioni di sfortunati”, nella quale alla contrapposizione tra poveri, esclusi dalla cittadinanza attiva, e ricchi si sovrapponeva la contrapposizione fra il popolo e un governo considerato troppo moderato, fra gli “amici” e i “nemici” della Rivoluzione.

D’altra parte, la Rivoluzione non riuscì a dare adeguata risposta neanche al problema dell’estensione dei diritti di cittadinanza alle donne, benché le prime voci favorevoli ad essa si levassero dalle file rivoluzionarie. A Parigi, Olympe de Gouges, collegando, come in seguito faranno anche le suffragiste americane, le rivendicazioni per l’emancipazione giuridica femminile a quelle per l’emancipazione dei neri (condotte da circoli rivoluzionari come la “Société des amis des noirs”), presentò alla Convenzione una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, contenente la richiesta di estendere alle cittadine il diritto di voto. Negli stessi decenni in Inghilterra, Mary Wollstonecraft pubblicò la Rivendicazione dei diritti della donna, nella quale prendeva posizione a favore dell’equiparazione giuridica tra i due sessi e contro i modelli educativi in epoca illuminista, che riservavano ai soli maschi l’educazione “razionale”, relegando le donne in una condizione di dipendenza non solo giuridica. Com'è noto, queste voci rimasero sostanzialmente inascoltate, tanto che le donne non raggiunsero una reale parità giuridica, rimanendo in una situazione di sostanziale dipendenza in seguito legittimata dal codice civile napoleonico, che sancì l’incapacità politica delle donne. Nonostante non siano mancate già nei primi decenni dell’Ottocento critiche nei confronti di un sistema giuridico penalizzante per le donne, si pensi alle presa di posizione di Charles Fourier, fu soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo che la lotta per i diritti e contro la discriminazione politica, giuridica e sociale delle donne acquistò vigore, soprattutto in ambito anglosassone, richiamandosi al fondamentale principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Condotta da gruppi di donne raccolti intorno a redazioni di giornali femministi, come l’ «Englishwoman’s Journal», fondato a Londra, nel 1859, la rivendicazione per una piena cittadinanza venne condivisa da John Stuart Mill, che presentò nel 1866 una prima petizione per il diritto di voto alle donne e scrisse nel 1869 il saggio The Subjection of  Women (La servitù della donna). Nonostante ciò, e nonostante qualche parziale successo soprattutto nell’ambito dell’emancipazione giuridica, le donne ottennero il diritto di voto nei principali paesi occidentali soltanto a partire dai primi decenni del XX secolo. In Italia solo dopo la seconda guerra mondiale.

D'altro canto, nel corso dell’Ottocento, due sono state le principali “questioni”, accomunate nell’opposizione all’”individualismo” della tradizione illuministica e rivoluzionaria, alla luce delle quali è stato rimodellato il discorso sulla cittadinanza: la “questione sociale” e la “questione nazionale”. La prima, originata dalla rivoluzione industriale, ha avuto il suo fulcro nella ricerca della risoluzione dei problemi della disuguaglianza e del conflitto sociale e nell’estensione dei diritti di cittadinanza attiva alle classi subalterne. La seconda, che faceva essenzialmente riferimento ai tentativi, soprattutto tedeschi e italiani, di raggiungere l’unità politica della nazione, ha dato origine a nuove concezioni della cittadinanza anch’esse alternative al “modello francese” e focalizzate sull’appartenenza, su basi naturali e culturali (come quelle di unità etnica, linguistica o religiosa) all’entità collettiva della nazione. Soprattutto a causa della centralità assunta nel XIX secolo dalla “questione nazionale”, si è così giunti a una graduale identificazione tra nazionalità e cittadinanza, che ha spostato il perno del discorso sulla cittadinanza dai diritti soggettivi all’appartenenza collettiva. A quest’ultima è stata attribuita infatti un’importanza sempre maggiore, testimoniata dall’enfatizzazione dell’”impegno patriottico” come compito essenziale del cittadino. E proprio in polemica con l’identificazione della nazione con una comunità etnica, Ernest Renan, nella celebre conferenza pronunciata alla Sorbona l’11 marzo 1882, riprendeva la concezione volontaristica, di ascendenza rivoluzionaria, della cittadinanza, con l'intento di togliere importanza ai dati oggettivi della lingua, della religione e della razza, che “dividono” e contrappongono una nazione alle altre, per attribuirne alla scelta volontaria e consensuale di una collettività “costruita da sentimento dei sacrifici compiuti” e confermata attraverso un “plebiscito quotidiano”. Ma sarà proprio il problema dell'identificazione tra razza e cittadinanza una delle questioni fondamentali, e più tragiche, del XX secolo, durante il quale il concetto verrà declinato in chiave totalitaria, privandolo gradualmente dello status di garanzia posta a salvaguardia dei diritti individuali.

Costa riprende, compendiandola in una più agile pubblicazione, la storia del concetto già diffusamente indagata nelle sue pubblicazioni precedenti, giungendo agli ultimi sviluppi: dalla cittadinanza costituzionale alla cittadinanza europea.

Indice

Introduzione.
1. Il concetto di ‘cittadinanza’
2. Il momento della città
3. La cittadinanza come sudditanza
4. Il soggetto-di-diritti e il paradigma giusnaturalistico
5. La cittadinanza rivoluzionaria
6. Modelli ottocenteschi: l’ordine degli individui
7. Modelli ottocenteschi: lo Stato-nazione
8. Modelli ottocenteschi: la società solidale
9. La lotta per i diritti
10. La lotta contro i diritti
11. La cittadinanza totalitaria
12. Dalla ‘cittadinanza costituzionale’ alla ‘cittadinanza europea’

L'autore

Pietro Costa si è laureato in Giurisprudenza nell'Università di Firenze e ha insegnato Storia del diritto nelle Università di Macerata e Salerno. Storico del pensiero giuridico-politico, attualmente è ordinario di Storia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza di Firenze. Fa parte della redazione della rivista "Quaderni fiorentini per la storia della cultura giuridica moderna". Dopo essersi occupato della cultura giuridica medievale e della teoria dello Stato e del diritto nell'età moderna e contemporanea, ha concentrato le sue ricerche soprattutto sulla storia dell'idea di cittadinanza, pubblicando tra il 1999 e 2000, in quattro volumi, Civitas. Storia della cittandinanza in Europa (Laterza). È autore, tra l'altro, di Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana, (Milano, Giuffrè, 1986), La cittadinanza: un tentativo di ricostruzione 'archeologica', (in D. Zolo, La cittadinanza. Apppartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994) e Alle origini dei diritti sociali: Arbeitender Staat e tradizione solidaristica, (in G.Gozzi, a cura di, Democrazia, diritti, costituzione. I fondamenti costituzionali delle democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna, 1997).

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