venerdì 16 settembre 2005

Marassi, Massimo, Metamorfosi della storia. Momus e Alberti.

Milano, Mimesis (collana “Morfologie”), 2004, pp. 157, € 14,00, ISBN 88-8483-207-1.

Nota di Piero Venturelli – 16/09/2005

Filosofia teoretica (filosofia della storia), Storia della filosofia (Rinascimento)

Il Rinascimento nella storiografia tradizionale
A lungo la storiografia ha creduto di poter ravvisare nel Rinascimento, specie nella sua prima fase, una monolitica età di fede nella ragione, di coraggiose e talvolta fierissime aspettative dell’uomo nella propria capacità di conoscere il mondo e di conquistarlo. In anni recenti sono venute alla luce ricostruzioni assai più composite e chiaroscurali, ma è pur vero che la dimensione prevalente – e forse più suggestiva – di questa importantissima stagione storico-culturale rimane irrefutabilmente quella “titanica” e “volontaristica”. E, in effetti, uno dei grandi obiettivi dell’uomo del tempo consiste nello scoprire i principi razionali che governano il mondo, con la ferma intenzione di padroneggiarlo: ecco, allora, quel diffuso confidare nella piena autonomia della ragione, quello spiccato ottimismo operoso, quella fiducia pressoché incrollabile nell’onnipotenza plasmatrice dell’intelletto e quei proclami intorno alla supremazia della vita attiva e alla centralità dei valori civili.
Non sono pochi gli autori vissuti nel XV secolo a considerare la ragione l’unico strumento in grado di favorire il progressivo addomesticamento degli istinti selvaggi dell’uomo e, dunque, di arginare violenza, miseria, malcostume e aspirazioni tiranniche. Scopi prioritari – e tutti ritenuti alla portata delle costituzionali capacità umane – diventano così l’instaurazione della legalità e di forme di convivenza più coerenti e “razionali” entro abitati prosperi, funzionali, sicuri, ordinati e belli. Ciò giustifica il non occasionale ricorso a dettagliati disegni di “città ideali”, rispondenti a una precisa ratio mathematica, ove ideale non è affatto sinonimo di utopico o di velleitario: ai teorizzatori di città ideali preme innanzitutto fondare le proprie considerazioni sull’indagine approfondita dell’uomo e della natura, nonché sullo studio rigoroso della tradizione; sullo sfondo riposa la piena accettazione di quella dimensione temporale e di quelle potenzialità di riforma insite nell’uomo che saranno fermamente condannate in molti scritti utopici dell’Età Moderna. Di conseguenza, le città ideali risultano progettate da uomini per la vita concreta e storica di società umane, e si mira a costruirle gradualmente in un futuro possibile.
Il Rinascimento nella storiografia odierna e la figura di Leon Battista Alberti
Come si è dianzi accennato, in risposta alle interpretazioni vulgate del Rinascimento, troppo “lineari” e talvolta semplicistiche, soprattutto negli ultimi decenni la storiografia è pervenuta a una serie di decisi ripensamenti critici e ha mutato in profondità la fisionomia di alcuni grandi personaggi consegnata dalla tradizione, arrivando perfino a mettere in dubbio che svariati intelletti dell’epoca confidassero veramente nell’illimitata capacità umana di sapere e di fruire delle cose naturali. Ormai è giudizio acquisito che nel Quattrocento non siano sconosciuti tanto un vero e proprio nichilismo “moderno” quanto chiare persistenze medioevali; ma quello che più interessa – e sorprende – è che le opere del tempo documentano l’esistenza di impostazioni, valori e atteggiamenti diversi, anche del tutto opposti fra di loro, nella medesima figura di “uomo di lettere”.
È in particolare nell’animo di Leon Battista Alberti che questo travaglio risulta così lacerante ed estremo da lasciare sconcertati gli interpreti: mentre negli scritti più conosciuti fa sue e approfondisce tesi specificamente “umanistiche”, altrove non esita a deridere la presunzione antropocentrica dei mortali. In molte pagine delle Intercenales, del Theogenius e del Momus, l’autore viene a dubitare dell’onnipotenza della ragione umana, finendo sovente per reputarla nemica giurata dell’equilibrio e della bellezza naturali. È, quest’ultimo, un Alberti disincantato, talora sarcastico e furioso, o anche atro nichilista, che affianca, screzia e problematizza il suo versante più noto, quello “ottimistico”, caratterizzato dalla conversazione colta e distesa, dalla pedagogia “laica” e dalla “razionalissima” legislazione d’arte. “Personaggio davvero poliedrico, incontenibile, praticamente senza precedenti nella storia della cultura e delle idee”, interlocutore “sempre piacevole, pacato, serenamente solare, paterno, ricco di buon senso”, Alberti “introietta tuttavia a sorpresa, tutte le più cupe componenti d’inquietudine dell’uomo Moderno: ed eccolo notturno, malinconico, pessimista, scettico, ironico, quando non addirittura cinicamente corrosivo” (Dezzi Bardeschi 2000: 9).
L’Alberti “umbratile” e pessimista
Se – come si è visto – gli ultimi studi hanno consentito di mettere in maggior risalto l’ambivalenza del Rinascimento, l’indagine accurata del pensiero e degli scritti albertiani – diversi dei quali riscoperti solo di recente (cfr. Garin 1964) – ha provocato una revisione radicale delle interpretazioni critiche. Malgrado, per certi aspetti, il nostro autore si dimostri ben inserito nel contesto sociale e culturale del tempo, il giudizio sulla sua singolarissima opera è ormai unanime: “Solitaria ed eccezionale” (Martelli 1980: 119). In alcuni suoi testi è presente un tutt’altro che flebile senso dell’incipiente crisi dell’Umanesimo; più volte si deridono le concezioni antropocentriche della creatura: l’uomo, in realtà, sarebbe ben lungi dal rappresentare veramente la misura e il fine dell’universo, quindi non potrebbe in alcun modo ambire a essere l’autonomo artefice del proprio destino. Non di rado Alberti si compiace nel cogliere in fallo la ragione e nello sbugiardarne la baldanza, giungendo persino a ribaltare la canonica posizione umanistico-rinascimentale e accusando la facoltà razionale di costituire il principale elemento perturbatore dell’ordine naturale. Un pessimismo di frequente cosmico, quello albertiano, che non esita a censurare tutte le costruzioni filosofiche, tacciate di inconsistenza e sterilità, e a giudicare boriosi quanto grotteschi i discorsi dei sedicenti saggi.
Negli scritti meno “riposati” di Alberti, la disillusione talora fa capolino, tal altra trionfa, un senso smagato della vita lede l’ordito tipicamente umanistico che contraddistingue molte delle sue opere più conosciute. La creatura è dichiarata impotente dinanzi alla vanità delle cose; a volte si ritiene che l’esercizio della ragione faccia perdere di vista i limiti delle umane possibilità e costringa i mortali a un rapporto inautentico con la natura, le cose e i propri simili.
Sorprendente è, quindi, la molteplicità di Alberti: le tendenze “umbratili” del suo spirito caratterizzano una parte per nulla marginale della produzione letteraria, e di tanto in tanto arrivano al punto di confutare clamorosamente la fondatezza di qualunque progettualità morale e politica. Il ricorso alle caustiche armi dell’ironia e dell’umorismo consente all’autore di mettere alla berlina le sue stesse mire didascaliche, affatto evidenti altrove; all’apologia della vita attiva e delle arti egli giunge a contrapporre le attrattive e le delizie dell’esistenza ritirata o – addirittura – dell’accattonaggio (cfr., in particolare, Garin 1975).   
Umorismo e filosofia nel Momus
Il volume di Massimo Marassi focalizza lo sguardo sul Momus, testo allegorico che “tocca spesso corde profonde” (Garin 1961: 97) e che è senza dubbio l’opera più complessa, inquietante ed enigmatica che Alberti abbia scritto, se non già “una delle più strane opere narrative di tutti i tempi” (Grayson 1987: 461). La ricca e acuta indagine dello studioso comprova tutto ciò e ha inoltre il merito sia di sottoporre all’attenzione degli specialisti di Alberti temi e punti di vista finora trascurati sia di offrire contributi significativi allo studio della metafora e della filosofia della storia.
Nel Momus, scritto intorno al 1447, è possibile riscontrare in forma quintessenziale il versante “notturno” e nichilista di Alberti, che qui rovescia parodicamente l’etica stoica e sottopone ogni cosa al giogo del Fato (cfr. Bacchelli-D’Ascia 2003: in particolare xliv e lxxi): il cosmo è rappresentato come un autentico campo di battaglia dove incontrano la morte tutte le illusioni e vengono smascherati l’impotenza della ragione e il perpetuo disordine del reale; incompreso e vulnerabile, l’uomo assiste al tragico scorno delle proprie iniziative, abbandonato al suo funesto destino senza poter contare su credibili prospettive di riscatto, se non quella – dagli esiti, però, molto parziali – di dotarsi di mille personae, da indossare secondo le circostanze, e quella – estrema e paradossale – di far propria l’erraria disciplina.
A fronte delle varie concezioni che in quegli anni salutano nell’uomo il miracolo dell’universo e il libero creatore di sé stesso, nel formidabile theatrum mundi del Momus, al contrario, viene impietosamente esibita la costituzionale debolezza dell’individuo e l’inemendabile tragicità dell’esistenza. Risulta impossibile distinguere il cielo dalla terra; la tirannia del Fato e la volubilità della Fortuna precipitano l’intero universo nella più assoluta desolazione, costringendo l’individuo a mascherarsi per attenuare quell’angoscia e quella inadeguatezza a cui solo la morte è in grado di porre termine.
Autorevoli studi recenti (cfr. in primis Cardini 1993) mettono in rilievo come, nel Momus, Alberti ambisca a formulare, in chiave umoristica e disincantata, un giudizio complessivo sul suo tempo, e più in generale sulla vicenda umana nella storia. Elevatosi al di sopra della contingenza e con uno strumento formidabile a disposizione, il risus, egli sembra intenzionato a impegnarsi in una dolorosa ma salutare opera di smascheramento delle ipocrisie di cui si ammanterebbero gli uomini di tutti i tempi per accettarsi e farsi accettare dalla comunità di appartenenza. Alberti va sostituendo a ogni approccio confortante, improntato a vacuo e astratto idealismo, uno sguardo lucido che giammai anela ad avanzare rimedi decisivi da opporre alla tragicità dell’esistenza, ma che la osserva dal di dentro con disgusto e pena. Amaro eppure necessario, questo riso nella sofferenza è rivolto a denudare la realtà, nella più piena e “irresponsabile” libertà d’azione concessagli da Alberti. E le allegorie che egli sapientemente introduce, concernendo tout court la condizione dell’uomo, rivelano il notevole spessore filosofico di questo disorientante romanzo umoristico.
Sostanza e figura, realtà e apparenza
Mentre la prima parte dell’opera di Marassi è specificamente incentrata sui testi albertiani, la seconda raccoglie innumerevoli spunti emersi dalla lettura del Momus con l’obiettivo di prendere in esame le questioni della struttura metamorfica della realtà e della validità del sapere metaforico, e nella certezza che riflettere sulla storia non significhi attenersi “obbligatoriamente alle disposizioni di settori scientifici diversi, quando la posta in gioco non è più unicamente lo statuto di una disciplina, bensì la comprensione delle res gestae in cui si vive e opera. Alberti, con il suo ingegno multiforme, fu uno dei grandi testimoni di questa sofferta consapevolezza, spinta ai limiti dell’impossibile, eppure sempre credibile” (p. 11).
Interrogandosi sul ruolo che la figura esercita rispetto alla determinazione dell’idea di storia, Marassi ha modo di affrontare, nel corso della sua indagine, alcuni intricati nodi tematici e concettuali. Innanzitutto, ritiene che “la narrazione metaforica delle vicende di Momo rappresenti lo stratagemma retorico che consente ad Alberti di esprimere in una forma composta, letterariamente perfetta, una realtà che è invece oscura, pervasa dall’ombra del dolore e del male” (p. 27). In secondo luogo, è sua convinzione che in questo singolarissimo romanzo allegorico si aspiri a dire qualcosa di nuovo, resinauditae, a dispetto dell’esplicito accoglimento del motto terenziano nihil dictum quin prius dictum, fatto proprio da Alberti anche nello scritto giovanile De commodis litterarum atque incommodis.
Lo studioso sottolinea che il Momus “si regge su un’ontologia dell’apparire che diffonde i suoi effetti in tutti gli ambiti ed è riconoscibile come concezione fisica del mondo, come dottrina morale e politica” (p. 70). In questa opera, infatti, l’ironia del discorso riposa “sull’assottigliarsi della distanza tra la realtà delle gesta descritte e le apparenze via via assunte dai personaggi. La storia come favola di Momo si regge proprio nella sua pretesa di far coincidere totalmente la sua identità con ognuna delle metamorfosi rappresentate, sul presupposto che ogni volta la sostanza del personaggio e il racconto che ne viene redatto possano integralmente trapassare nella forma assunta in quel momento” (p. 86).
Quando è in gioco la rappresentazione della continuità del tempo che costituisce la storia, questa coincidenza fra realtà e apparenza risalta ancora di più, e implica l’intersezione fra di loro dei motivi ideali, degli approcci e dei valori qualificanti dei due corpora che compongono l’intera produzione albertiana: “Il continuo si rivela come reale nell’apparenza dell’istante”, perché “è solo nell’apparire, che quindi non esclude l’illusione, il simulacro e la finzione, che si manifesta ogni sostanza e derivatamente il principio d’identità che logicamente la vorrebbe fermare nel tempo. In contrasto con il comprensibile desiderio di ogni soggetto di poter durare immutabile nel tempo, di sottrarsi alla consumazione degli istanti, la figura – nella sproporzione rispetto all’infinito che la delimita – rammenta incessantemente la mutevolezza e la fugacità” (ibid.). Secondo l’Alberti del Momus, pertanto, si può attingere la sostanza unicamente grazie alla forma principe dell’impermanenza, in quanto non esiste un’identità invariabile nella realtà che l’uomo sia in grado esprimere con i caratteri propri dell’eternità; ogni sua rappresentazione è costretta a passare attraverso la figura, deve subire un’accidentale concrezione in immagine.
Nella favola allegorica, lo strapotere della Fortuna fa sì che il tempo muti di continuo e sia definibile come apparente manifestarsi della Necessità; in questo modo, la trama del racconto resta dominata dalla coscienza di non poter rappresentare l’ideale se non attraverso la figura e le sue mutevoli apparenze. Come rileva Marassi, proprio “perché abituato a pensare in termini nel complesso visivi, Alberti è convinto che l’apparenza esteriore dell’architettura e della pittura rappresenti non la realtà ma la natura teorica della cosa, cosicché risulta naturale accettare la distinzione tra le cose come devono essere e le cose come sono, tra la natura teorica e la realtà, tanto che questo modo di esprimersi diviene una forma mentis che ritiene assoluti i rapporti di proporzionalità trascritti dalla perspectiva, in cui l’apparire rappresenta il reale” (pp. 86-87).
Poesia, filosofia, storia
Nel Momus, i caratteri più specifici e “rari” rinvenibili nelle creature vengono a incarnare quasi segni del divino e l’uomo sembra in grado di dare espressione adeguata a queste singolarità soltanto “narrandole” attraverso la storia. In un mondo di cui l’esperienza testimonia l’ineliminabile instabilità, Alberti reputa necessario non disgiungere poesia, filosofia e storia; superando le distinzioni canoniche fissate dalla Poetica aristotelica, costruisce poeticamente la narrazione storica, “perché solo così può valere universalmente come la filosofia e servire a ben guidare la condotta e la ragione; per questo motivo gli eventi sono raccontati e resi comprensibili, esposti con grande equilibrio, fondendo gli aspetti letterari, filosofici e cognitivi, senza i quali la storia sarebbe risultata una semplice favola” (p. 93).
Ma, al medesimo tempo, Alberti testimonia un’ambivalenza nei confronti della storia: “La trama degli eventi narrati cancella infatti ogni traccia profetica, provvidenziale e finalistica tipica della christianitas antica e medievale e dall’altra evidenzia tuttavia l’importanza della narrazione nel salvaguardare la memoria degli accadimenti” (p. 76). Ed è nelle pagine più fantasiose e immaginarie del Momus che emerge l’insegnamento di uomini e dèi: “In quanto rappresentazioni ideali di passioni e temperamenti”, essi “fanno la ‘propria’ storia” e contribuiscono così a “eliminare ogni concezione eteronoma della storia e con questa anche l’influsso di un Dio provvidente, con le relative idee di finalità, svolgimento e razionalità” (p. 78).
In questa prospettiva, allora, qual è il ruolo della Fortuna? Essa si dimostra un fattore intrinseco del racconto: “Gli stessi eventi storici possono apparire leggibili tramite questa idea di Fortuna unicamente ritornando speculativamente sul loro accadere, interpretabili come piegati e informati dalla Fortuna solo in seconda battuta, ad opera esclusivamente della riflessione, e non direttamente riconducibili a una comune causa efficiente o finale del loro divenire” (ibid.). In tal modo, risultano superati sia l’insegnamento scolastico che l’idea tradizionale della storia come fonte di esperienza.
Accanto a tutto ciò, Marassi richiama l’attenzione sul fatto che Alberti non pare interessato a prendere partito né per il filone greco né per quello latino della narrazione storica, in quanto “non desidera individuare il rinvenimento degli universali nella filosofia o nella storia, non si propone il conseguimento di alcun fine morale” (pp. 92-93). Onde, nel Momus, la sapiente combinazione “a mosaico” di quei due quadri di riferimento generali sembra rendere possibile una conciliazione tra fedeltà agli antichi (imitatio) e sviluppo di cultura nuova (inventio).
Liberazione all’interno del tragico?
Su questo terreno, il libro di Marassi intende “verificare quanto i contrasti della violenta parodia del Momus siano la testimonianza di un singolare modo di fare ‘esperienza della storia’ che riprende i concetti cardine di ogni narrazione storica: dalla contrapposizione epocale virtù-fortuna alla nozione di tempo, dall’armonia come ideale all’occasione che domina ogni esperienza degli eventi, dal desiderio umano di far persistere le proprie tracce all’odissea dello spirito tra le tortuosità della memoria e dell’oblio” (pp. 26-27). Dunque, se nel romanzo allegorico gli eventi sono sempre uniti a simboli e il racconto prende la forma di un “geroglifico di segni destinati a un’interpretazione infinita”, la “filosofia della storia che ne deriva si rivela solo come questa inesauribile e faticosa arte combinatoria di un alfabeto interminabile giocato su una scacchiera progettata da altri, l’unica però che l’uomo possa esercitare con i materiali e i frammenti di cui dispone” (p. 96).
Esaminate la configurazione del racconto e le rocambolesche disavventure occorse al dio del biasimo, lo studioso ritiene di dover attribuire importanza nodale al contenuto delle tabellae, il “testamento” di Momo letto da Giove alla fine del romanzo, giacché sembrano rivolte a descrivere la struttura del divenire del nuovo mondo, illuminando il genere umano sulla via capace di condurre alla liberazione all’interno del tragico. A parere di Marassi, la duplicità del percorso di Momo mette in risalto “la necessaria esperienza di liberazione a cui affida se stesso e con il suo testamento l’intera umanità. Un’impossibile liberazione dalla tragedia e al suo posto una liberazione che deve compiersi all’interno del tragico: questi contrasti non componibili sono il segno di una radicale tragicità” (p. 66). Sennonché, proprio mentre progetta un mondo nuovo, Momo rimane paradossalmente imprigionato in quello vecchio: con la sua disgrazia finale, egli viene a esemplificare la tendenza di tutte le cose all’annientamento. A un tempo autore e vittima di un destino eterno, secondo Marassi come già per altri interpreti (cfr. Boschetto 1993: 46-50 e Martelli 1998: 107-109), l’eccentrica divinità minore sembra per certi aspetti assumere le sembianze di Prometeo e di Cristo, anch’esse figure redentrici e condannate. E non è da tacere la dimostrazione di fierezza offerta da Momo: nonostante il dominio indiscusso e universale del Fato, la radicalità del male e l’assenza di autentici misteri da svelare, continua coraggiosamente a vivere e patire, non disdegnando di apprendere grazie all’esperienza e accettando che le proprie intenzioni siano messe via via alla “prova”.

Indice

Introduzione
MOMO O DELL’ESPERIENZA DELLA STORIA
L’armonia della costruzione e le arguzie del racconto
L’eredità della dottrina politica sulla virtù e sulla fortuna
La condotta dei singoli e l’identità di Momo
La storia e il teatro della vita
L’esperienza della storia
METAMORFOSI E METAFORA
Il frammento e l’intero
La metaforica storica
La verità metaforica
L’essenza del nichilismo e il primato del linguaggio
“Achille è un leone”: convinzione, sapere o fondazione?
La metafora assoluta
La storia e la sua narrazione
Indice dei nomi

Bibliografia

BACCHELLI-D’ASCIA 2003: F. Bacchelli, L. D’Ascia, “‘Delusione’ e ‘invenzione’ nelle ‘Intercenali’ di Leon Battista Alberti”, intr. a L.B. Alberti, Intercenales, Bologna 2003, pp. XXIII-XCIX.
BOSCHETTO 1993: L. Boschetto, “Ricerche sul Theogenius e sul Momus di Leon Battista Alberti”, «Rinascimento», vol. 33, 1993, pp. 3-52.
CARDINI 1993: R. Cardini, “Alberti o della nascita dell’umorismo moderno. I”, «Schede umanistiche», n.s., 1993, n. 1, pp. 31-85.
DEZZI BARDESCHI 2000: M. Dezzi Bardeschi, “Le belle maschere di Battista”, La fatica del costruire. Tempo e materia nel pensiero di Leon Battista Alberti, Milano 2000, pp. 9-10.
GARIN 1961: E. Garin, “Interpretazioni del Rinascimento”, in Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari 1961², pp. 93-98.
GARIN 1964: E. Garin, “Venticinque intercenali inedite e sconosciute di Leon Battista Alberti”, «Belfagor», 1964, n. 4, pp. 377-389.
GARIN 1975: E. Garin, “Studi su Leon Battista Alberti”, in Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari 1975, pp. 133-196.
GRAYSON 1987: C. Grayson, Recensione a L.B. Alberti, Momo o del principe, Genova 1986, «Giornale critico della letteratura italiana», 1987, fasc. 527, pp. 459-463.
MARTELLI 1980: M. Martelli, “I Medici e le Lettere”, in C. Vasoli (a cura di), Idee, istituzioni, scienza ed arti nella Firenze dei Medici, Firenze 1980, pp. 113-140.
MARTELLI 1998: M. Martelli, “Minima in Momo libello adnotanda”, «Albertiana», vol. 1, 1998, pp. 105-119 (la seconda parte dell’art. è nel vol. 2, 1999, pp. 21-36).

L'autore

Massimo Marassi insegna Filosofia della storia presso l’Università Cattolica di Milano. Autore di diversi saggi e articoli, ha scritto Ermeneutica della differenza. Saggio su Heidegger (Milano 1990) ed Ermeneutica (Milano 1994). Ha curato e tradotto J.B. Lotz, Esperienza trascendentale (Milano 1993) e F.D.E. Schleiermacher, Ermeneutica (Milano 1996). Sua è la curatela di due libri di E. Grassi: Viaggio ed errare e Retorica come filosofia (entrambi Napoli 1999).

Links

Vita di Alberti e cenni sulle opere (in italiano): http://www.cronologia.it/storia/tabello/corr10.htm
Videofruizione di alcuni testi albertiani (in italiano): http://www.liberliber.it/biblioteca/a/alberti#alto
Bibliografia recente su Alberti, notizie su pubblicazioni e convegni a lui dedicati, indirizzi elettronici di studiosi albertiani, links tematici (in francese): http://ourworld.compuserve.com/homepages/mpaoli
Pagine della “Fondazione Centro Studi Leon Battista Alberti”, con sede a Mantova (in italiano): http://www.fondazioneleonbattistaalberti.it/

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