Recensione di Gualtiero Tacchini – 07/11/2005
Teologia
Franco Ferrario, con integrazione dell’autore stesso, raccoglie ventiquattro tra articoli e microsaggi di Eberhard Jungel), scritti nell’arco di quarant’anni (il primo è stato pubblicato nel 1964, il più recente nel 2004). Si tratta di scritti “minori” che hanno affiancato le opere “maggiori”, condividendone le problematiche fondamentali, provenienti da conferenze, corsi accademici, collaborazioni a riviste e altre occasioni. In tanta varietà ed eterogeneità tematica è impossibile tentare un riassunto dell’opera; mi limiterò dunque a toccare i punti principali.
Notevole emerge l’interesse dell’autore sul rapporto fra terologia e filosofia, soprattutto nelle loro inevitabili differenze, dal momento che la teologia cristiana deve avere come punto di riferimento l’evento Cristo e non i dettami della razionalità umana. Questo problema è il tema specifico di Dio. Interessante di per sé, dove si mette in rilievo l’impasse della teologia naturale tradizionale che pretende di sottoporre l’evento della rivelazione a una sorta di giustificazione sulla base di principi razionali estranei e anteriori ad esso: “E il fraintendimento di questa realtà consiste nel capovolgere la rivendicazione di validità universale di questo evento unico altamente singolare in una affermazione di carattere generale, all’interno della quale l’evento unico verrà poi considerato come caso particolare di un principio di carattere più ampio” (p. 109). Quindi la teologia sedicente naturale finisce paradossalmente col tradire la natura della riflessione sul dato della fede: “Qual è la natura del rapporto tra Dio e gli esseri umani? Che cosa è naturale nella relazione di Dio alle persone? Nient’altro che la parola di Dio […] La teologia della parola di Dio è dunque, rispetto alla cosiddetta teologia naturale, pur sempre la teologia più naturale” (p. 111).
A questo proposito è interessante La morte del Dio vivente, che esprime fin dal titolo, trasparente e inequivocabile, che la questione della morte di Dio per il cristiano non può in alcun modo essere ricondotta alle coordinate e alle prospettive del discorso filosofico: se per il filosofo la morte di Dio è l’evento più importante degli ultimi duecento anni ed è, con Nietzsche, un atto umano, per il teologo cristiano essa risale molto più indietro nel tempo, in un legame ineludibile con l’evento della crocifissione. È dunque sul cristocentrismo che la teologia fonda il suo metodo operativo, non necessariamente coincidente, anzi talvolta contrastante con quello filosofico.
Ciò è palese ne L’antropocentrismo come problema fondamentale dell’ermeneutica moderna, dove si prende in esame la polemica contro l’uso del linguaggio antropomorfico del discorso su Dio e il totale rifiuto proposto da Spinoza e dal moderno metodo storico-critico dell’esegesi biblica che da lui ha origine. Alla base di tutto questo c’è l’implicito primato della ragione umana, alla luce della quale anche la verità che si presenta come rivelata deve essere giudicata: si tratta dunque di un discorso valido per il cosiddetto “Dio dei filosofi” ma non per il Dio di Gesù Cristo. “In breve: il metodo storico-critico di interpretazione della Scrittura è originariamente un metodo al servizio di un interesse permanente nei confronti di un Dio non storico” (p. 234). Sulla scia di un famoso aforisma di Kierkegaard, “si parla con tanto fervore contro gli antropomorfismi e non si pensa che la nascita di Cristo è il più grande e significativo di tutti” (p. 235), Jungel sostiene la legittimità del parlare di Dio intermini antropomorfici: “Se nei testi biblici viene al linguaggio il fatto che Dio viene al mondo e se la storia della venuta al mondo di Dio raggiunge il suo scopo, nell’idea del Nuovo Testamento, nella venuta al mondo dell’essere umano Gesù e nella sua storia in questo mondo, allora la caratteristica antropomorfa del parlare umano di Dio non può essere oggettivamente inadeguata” (p. 236). Il teologo prosegue mostrando anche l’inevitabilità del discorso antropomorfico, sulla base di indicazioni di Kant che, dopo aver rifiutato l’antropomorfismo dogmatico, accetta come ermeneuticamente legittimo l’antropomorfismo simbolico che può parlare di Dio nel senso di una conoscenza per analogia proportionalitatis. Infine si avvia a dichiarare che l’antropomorfismo non perviene esclusivamente al linguaggio religioso, in quanto “il linguaggio, comunque si esprime, esprime sempre implicitamente l’essere umano. In questo senso l’idea secondo cui l’antropomorfismo esplicito sarebbe una forma particolarmente rozza di linguaggio figurato che deriva dalla tradizione, e perciò non proprio, non coglie l’essenza del linguaggio stesso” (p. 239).
Il cristocentrismo non distingue la teologia cristiana solo dalla filosofia ma anche dalle altre teologie, come si vede ne L’atto originario di Dio come autolimitazione creativa, tratto dal corso del 1984 presso l’università di Tubinga e inteso come contributo alla discussione circa “il concetto di Dio dopo Auschwitz” con Hans Jonas. Jungel come Jonas, per affrontare il problema del male nel mondo, parte dalla creazione intesa come autolimitazione di Dio, “l’atto dell’iniziare originario è compreso come atto creatore di Dio soltanto quando viene inteso come autolimitazione creativa […]. Il creatore ha ora al suo fianco l’altro da lui voluto” (pp. 243-245) e “allora egli è limitato da questo altro al suo fianco […] non soltanto la creatura è limitata dal suo Creatore, ma anche - sebbene in un senso del tutto diverso – il Creatore dalla sua creatura […]. Se la creatura è l’atto voluto da Dio, allora Dio vuole essere limitato dalla sua creatura in un senso positivo” (pp. 245-246). È necessaria dunque una correzione del tradizionale concetto di illimitatezza di Dio che ci presenta la metafisica, soprattutto alla luce del mistero trinitario: “Il mistero di quell’amore, che è il Dio uno e trino […] consiste nell’essere senza contraddizione […] autoreferenziale e al tempo stesso dimentico di sé” (p. 246). È a questo punto che le posizioni di Jungel e Jonas divergono in modo significativo. Il teologo ebreo, dopo aver detto “non perché non voleva, ma perché non poteva, Dio non è intervenuto ad Auschwitz. Ma egli non poteva intervenire perché nell’atto della creazione dal nulla si era limitato, anzi si era spogliato della sua potenza” (p. 249), conclude affermando che “dopo che Dio si era dato completamente al mondo in divenire, Dio non ha più nulla da dare: ora è l’essere umano che deve dare a Dio” (p. 250). Jungel invece dichiara che la teologia cristiana “riconosce Dio solo sulla base della rivelazione: sul fondamento del suo venire-al-mondo dell’uomo Gesù e della rivelazione che in esso si compie” (ibid.) e che è “proprio il compito della teologia cristiana, cioè pensare insieme Dio e il Crocifisso, che ci ha costretti a problematizzare radicalmente sia la concezione metafisica dell’onnipotenza di Dio sia l’assioma metafisico dell’apatia. Se si deve parlare teologicamente dell’onnipotenza di Dio, lo si può fare soltanto comprendendola come l’onnipotenza del Creatore che soffre per la sua creatura” (p.251). Alla fine l’autore confessa i limiti della riflessione teologica riguardo a questo problema: “Ma anche quando cerchiamo di pensare Dio stesso come il Dio che soffre il male e i mali del mondo, e che governa così, potremo chiamare l’origine del male e attualità dei mali soltanto come un mistero oscuro. Esso è – come ogni sofferenza – incomprensibile e non può essere spiegato dalla teologia” (pp. 253-254). La teologia può (e deve) soltanto “distinguere tra Dio stesso e una delle sue opere – appunto il concorrere con il male nascente nel mondo – in modo tale da non comprendere Dio stesso come deus absconditus, bensì la sua opera come opus dei absconditum, e con ciòl’incomprensibilità di quest’ultima (p. 254).
Ne Il mondo come possibilità e come realtà si cerca soprattutto di liberare la riflessione teologica dai retaggi e dalle griglie del pensiero metafisico e ontologico della tradizione. Viene contestata la priorità ontologica, tipica del pensiero greco e in particolare di Aristotele, della realtà sulla possibilità, intesa fondamentalmente come necessità di definire la possibilità solo a partire dalla realtà. Questa concezione ha dominato in modo incontrastato la storia del pensiero occidentale e nelle sue categorie sono state espresse e interpretate anche la predicazione del Regno e la dottrina della giustificazione, talora addirittura nei termini di una priorità della distinzione tra reale e possibile anche nei confronti di Dio stesso. Oggi è compito ineludibile della teologia, alla luce di una corretta interpretazione dell’escatologia cristiana e della creatio ex nichelo, sostituire alla distinzione reale vs possibile quella possibile vs impossibile e affermare in modo radicale la priorità di Dio e della sua parola. Questa è “parola della Croce. A partire da essa bisognerà dire che Dio è colui che rende possibile il possibile e impossibile l’impossibile; che distingue tera possibile e impossibile e che proprio per questo fa essere reale il mondo; e che in quanto tale egli è, al di là della differenza tra possibilità e realtà, ambedue le cose, oppure, in altri termini, che egli è e che il suo essere è in divenire” (p. 92). Da qui il mondo deve comprendere “che il suo essere accade in quanto storia e che questa storia viene costituita non mediante la distinzione tra reale e non-ancora-reale, ma attraverso la distinzione tra possibile e impossibile, o, appunto, mediante la parola di Dio (p. 93). Dunque “il mondo è creazione, in quanto con la distinzione tra possibile e impossibile la parola di Dio distingue l’essere dal nulla” (ibid).
Indice
Prefazione
“Scienza teologica e fede” alla luce della povertà di Gesù
Sulla morte del Dio vivente. Un manifesto
La Parola di Gesù e Gesù come Parola di Dio. Un contributo ermeneutica al problema cristologico
Il mondo come possibilità e come realtà. Sull’approccio ontologico della dottrina di giustificazione
Che cosa è lo “specifico cristiano”?
Dio. Interessante di per sé. Appello per una teologia più naturale.
L’essere umano che corrisponde a Dio. Osservazioni sull’essere umano come immagine di Dio in quanto figura fondamentale di un’antropologia teologica.
Diritto alla vita. Diritto alla morte. Notazioni teologiche.
La morte come mistero della vita.
Limiti dell’essere-umano
La mia teologia – in breve
Verità senza valore. L’esperienza cristiana della verità nella controversia contro la “tirannia dei valori”
L’antropomorfismo come problema fondamentale dell’ermeneutica moderna
L’atto originario di Dio come autolimitazione creativa. Un contributo alla discussione con Hans Jonas circa il “concetto di Dio dopo Auschwitz”
Il sacrificio di Gesù come sacramentum et exemplum
Esiste una particolare affinità tra democrazia e fede cristiana?
“Anche il bello deve morire”. La bellezza alla luce della verità. Osservazioni teologiche sulla relazione estetica
Cosa vuol dire pregare?
La verità del mito e la necessità della demitizzazione
“I miei giorni sono nelle tue mani” (Salmo 31,15). Sulla dignità della vita umana limitata
La percezione dell’altro nella prospettiva della fede cristiana
Tesi sul ministero della chiesa da un punto di vista evangelico
Che cosa significa dire: Dio è amore?
Esultanza eucaristica. In cammino verso la comunione nella cena del Signore
Bibliografia
Fonti
L'autore
Eberhard Jungel è nato nel 1934 a Magdeburgo e insegna Teologia sistematica e Filosofia della religione a Tubinga. Tra le sue opere, tradotte in italiano, ricordiamo: Paolo e Gesù. Alle origini della cristologia (Brescia 1978), L’Essere di Dio è nel divenire. Due studi sulla teologia di Karl Barth (Casale Monferrato 1986), Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa tra teismo e ateismo (Brescia 1982), Il vangelo della giustificazione del peccatore, come centro della fede cristiana. Uno studio teologico in prospettiva ecumenica (Brescia 2000).
5 commenti:
Il recensore assume ampia prospettiva ma che poi non conclude, perché illustra del pensiero dell'Autore Eberhard Junghel (Jünghel) riferimento a necessità di rappresentazione antropomorfica ed a necessità di consapevolezza storica, ma non illustra parimenti che esse nella considerazione storica di stesso Autore evidenziano bisogno di individuare-identificare linguaggi mitici per impedirne costituirsi in miti stessi.
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MAURO PASTORE
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Nel pensiero filosofico contemporaneo della Riforma i racconti biblico-evangelici non sono più recepiti quali descrizioni di singolo umano evento né di molteplici accadimenti di umanità perché la Esegesi biblica (ad opera eminente di R. Bultmann) ha evidenziato che essi recando significato solo a prescindervi serbano senso solo ad esularne: questo significa che nessuno v'era a far miracoli, ma eran combinazioni impreviste a farne; significa che nessuno credeva mirando figura di uomo, altrimenti non avrebbe potuto intender di Dio la Unità che né mascolinità neppure femminilità posson simboleggiare direttamente; significa pure che predicatore e suoi presenti non ottenevano ispirazione dalla predicazione ma da quello che non accadeva poi e da necessarie altre riflessioni anche non solo postume ma che nessun lascito accadeva da tali riflessioni neppure da predicazioni bensì era la successione di uguali ispirazioni, nonostante mancanza di effetti delle prime, che dava senso storico inaudito a religiosità; e che non questa novità era positiva, ma il poterne continuare, che però non era opportunità eludibile neppure occasione ineludibile; dunque la storia cristiana iniziando a procedere non per tramandamenti ma per reiterazioni non ripetizioni!
Junghel notava che stessa tradizione biblica cristiana si era costituita quale rivelatrice di un perenne riaccadimento di ispirazioni non continuazioni, anteponendo parola ad immagine senza postporre immagine a parola nelle interpretazioni bibliche, perché diversamente si ricadeva (e si ricade) in ricostruzioni mitiche insensate.
Non si tratta dunque di immaginare uomini in croce ma si tratta di capire il senso di un racconto, non di riferirsi ad oggetti di crocifissi, ma di intender metafora di Eternità e Crucialità; in tale riconduzione ad astrazione significante Junghel rifiutava figurazione biblicamente omologa, perché questa restava religiosamente non significante e storicamente riferibile ad eventi neppure direttamente politici (romani) per nulla sacri né sacralizzabili peraltro, differentemente da quanto popolarmente ritenuto, in realtà non cruenti e con scopo di risparmiar pena di morte; tutto ciò difatti non conducendo a nessun modello ideale cui riferirsi per intendere la Eternità quasi nulla nel tempo e solidale coi limiti ed eventi tragici e drammatici della temporalità.
L'assunzione-non-illustrazione del recensore non evita il ripresentarsi delle figurazioni profane ed insensate, invece la illustrazione teologica formulata da Junghel presenta iconologia sacra, che appunto non nella umanità crocifissa si manifesta ma con Simbolo della Croce.
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MAURO PASTORE
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Invece che evitare nella recensione illustrazione completa di concetti dando adito a figurazioni intruse di cose e non fatti, sarebbe stato del tutto necessario dare esplicitazione ad ambienti di provenienza, appartenenza, destinazione della azione filosofica teologica di Junghel: culture entro cui religione monoteista e pensiero naturale non sono utili o tanto utili da unire assieme, solo da mostrare eventualmente uniti; per le quali il Cristianesimo quale religione naturale era inopportuno d'altronde neanche conoscibile (forse ancora adesso) e per le quali il filoellenismo culturale politico era ed è solo indirettamente utile.
Nel Cristianesimo greco la religiosità naturale coincide con culturalità ed allora non sono a questo necessarie spiegazioni indirette sulla natura della Rivelazione; tanto che di stessi casi affrontati diligentemente dalla remota (integralmente teutone) cultura e filosofia teologica di Junghel, nella medioevale Bisanzio se ne aboliva stesso accadere con veti, divieti, garantiti da antitetiche, direttamente iconoclastiche normalità, ovvero dirette inerenze a norme che nelle circostanze estreme consistevano nel controuso degli stessi feticci adoperati dai trasgressori; sicché i crocifissi erano sottratti ai millantatori che se ostinati a confondere con espressioni di non-pensiero tormentosità ed eternità allora erano minacciati di percosse non contusioni tramite stessi crocifissi oppure con queste percossi non contusi se minacce non bastavano, o solo con croci esposte a crocifissi se casi meno estremi. Era questa 'normalità' bizantina (in alcune scuole italiane ancora conosciuta durante ore di lezioni di religione, ma in pratica più da alunni che da professori o solamente da alunni) parte della volontà di distruzione delle false immagini di false religioni, volontà di stessi difensori della iconografia teologica a Bisanzio; radicalmente altra ma non diversa dalla iconografia che discende dalla ultima teologia riformata tedesca.
MAURO PASTORE
In mio messaggio precedente:
'allora erano minacciati di percosse non contusioni tramite stessi crocifissi oppure con queste percossi non contusi se minacce non bastavano'
sta per:
allora erano minacciati di percosse non contusioni tramite stessi crocifissi oppure con queste medesime cose percossi non contusi se minacce non bastavano
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Allego intero testo corretto e migliorato:
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Invece che evitare nella recensione illustrazione completa di concetti dando adito a figurazioni intruse di cose e non fatti, sarebbe stato del tutto necessario dare esplicitazione ad ambienti di provenienza, appartenenza, destinazione della azione filosofica teologica di Junghel: culture entro cui religione monoteista e pensiero naturale non sono utili o tanto utili da unire assieme, solo da mostrare eventualmente uniti; per le quali il Cristianesimo quale religione naturale era inopportuno d'altronde neanche conoscibile (forse ancora adesso) e per le quali il filoellenismo culturale politico era ed è solo indirettamente utile.
Nel Cristianesimo greco la religiosità naturale coincide con culturalità ed allora non sono a questo necessarie spiegazioni indirette sulla natura della Rivelazione; tanto che di stessi casi affrontati diligentemente dalla remota (integralmente teutone) cultura e filosofia teologica di Junghel, nella medioevale Bisanzio se ne aboliva stesso accadere con veti, divieti, garantiti da antitetiche, direttamente iconoclastiche normalità, ovvero dirette inerenze a norme che nelle circostanze estreme consistevano nel controuso degli stessi feticci adoperati dai trasgressori; sicché i crocifissi erano sottratti ai millantatori che se ostinati a confondere con espressioni di non-pensiero tormentosità ed eternità allora erano minacciati di percosse non contusioni tramite stessi crocifissi oppure percossi soltanto non contusi con crocifissi stessi se minacce non bastavano, in casi meno estremi bastando ugualmente solo stesse croci degli stessi trasgressori e con maggior agio dunque insistenza dei difensori dalle trasgressioni. Era questa 'normalità' bizantina (in alcune scuole italiane ancora conosciuta durante ore di lezioni di religione, ma in pratica più da alunni che da professori o solamente da alunni) parte della volontà di distruzione delle false immagini di false religioni, volontà di stessi difensori della iconografia teologica a Bisanzio; radicalmente altra ma non diversa dalla iconografia che discende dalla ultima teologia riformata tedesca.
MAURO PASTORE
Sono spiacente per inconveniente di scrittura; ho scritto e scrivo mentre da attorno purtroppo si danno tedi di vario genere e tipo e negativi allo stare in tal luogo stesso, dati, direttamente o indirettamente, da parte di chi estraneo ed ostile, anche abitualmente, ad esso ed anche a miei messaggi.
MAURO PASTORE
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