martedì 10 gennaio 2006

Kant, Immanuel, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, a cura di Filippo Gonnelli.

Roma-Bari, Laterza (Classici della filosofia con testo a fronte), 2005, pp. 361, € 14,00, ISBN 88-420-7762-3.

Recensione di Gianluca Verrucci - 10/01/2006

Storia della filosofia (moderna), Filosofia del diritto, Filosofia teoretica (metafisica)

I Primi principi metafisici della dottrina del diritto (1797) costituiscono la prima parte del sistema della filosofia pratica kantiana noto con il termine di Metafisica dei costumi, cui seguono i Primi principi metafisici della dottrina della virtù. Il titolo, come compare in questa edizione, rende finalmente giustizia della lettera del testo kantiano: si tratta, infatti, di primi principi e non, genericamente, di principi soltanto. La distinzione non è di poco conto, poiché, se il concetto di diritto è concetto puro ma metafisico in quanto si applica all’esperienza, non è possibile esibirne il sistema completo senza perdersi nell’infinita molteplicità dei casi empirici particolari. Si rende pertanto necessario fornire unicamente i primi principi più generali e a priori, metafisici nel senso precisato dalla seconda Critica, riservandosi qua e là divagazioni nell’empirico puramente esemplificative senza alcuna pretesa di esaustività.
Nelle introduzioni, rispettivamente alla più ampia Metafisica dei costumi e alla Dottrina del diritto, Kant intende delimitare il concetto di diritto rispetto all’etica e fissarne le condizioni di possibilità. Argomentando nella prima direzione Kant si avvale di una psicologia morale assai stratificata e complessa. Definita la facoltà di appetire o desiderare in generale come capacità di essere, mediante le proprie rappresentazioni, causa degli oggetti di quelle rappresentazioni medesime, si risale per successive scomposizioni fino alla nozione di arbitrio (Willkür). L’arbitrio è la facoltà umana di fare e non fare a piacimento quando ciò sia legato alla capacità effettiva di produrre l’oggetto desiderato mediante l’azione (diversamente si dovrebbe parlare di mero desiderio). La distinzione rispetto alla volontà (Wille) sta nella considerazione o meno di motivi in vista dell’azione. Quando il motivo dell’azione è interno al soggetto e proprio della ragione, possiamo parlare di volontà, cioè della suprema facoltà pratica, laddove l’arbitrio è qualificato dalla capacità di fare rispetto all’azione indipendentemente dai motivi che il soggetto può assumere. L’arbitrio determinato dalla ragione pura, cioè a prescindere dalle inclinazioni sensibili, si dice libero arbitrio. La delimitazione della volontà, o ragione pratica, rispetto all’arbitrio consente a Kant di porre in evidenza la specificità dell’etica rispetto al diritto, ossia della legislazione etica rispetto a quella semplicemente giuridica. Mentre la prima fa dell’azione un dovere e del dovere un movente della volontà, tanto che per poter parlare di eticità si deve sempre partire dall’idea del dovere, la seconda ammette altri moventi per le azioni, tra i quali, oltre all’inclinazione e repulsione, anche l’idea di una coazione esterna che unita alla legalità delle azioni, cioè del semplice accordo con le leggi, fondi il diritto in senso stretto. In etica l’uomo è costretto dall’idea del dovere che la ragione assume come massima dell’azione, nell’ambito del diritto vi sono sì doveri ma esterni, poiché non si esige che l’idea di dovere sia motivo determinante soggettivo dell’arbitrio. Così circostanziati i relativi ambiti di applicazione dell’etica e del diritto, nella seconda introduzione Kant procede con il mostrare le condizioni di possibilità dell’idea stessa del diritto al fine di produrne un concetto adeguato. Il concetto del diritto si fonda sul reciproco influsso esercitato dagli arbitri e si applica al rapporto esterno di una persona con l’altra. Il rapporto tra persone che agiscono liberamente si qualifica come reciproca limitazione possibile. Ora, il diritto postula di agire esternamente in modo tale che il libero uso dell’arbitrio di ciascuno possa coesistere con la libertà di ogni altro. Questa legge universale del diritto non prescrive a ciascuno la massima dell’azione, cioè non è, come si è visto, una legge etica, esibisce invece le condizioni della libertà di azione esterna di ciascuno ed ammette che fra queste condizioni vi sia la possibilità di una coazione reciproca che legittimamente costringa limitando la libertà di ciascuno in vista della libertà di tutti. In altre parole, il concetto di diritto autorizza solo quella libertà d’azione che si accordi con quella degli altri secondo una legge universale e, nel contempo, autorizza la costrizione esterna di chi fa uso della propria libertà in modo da rendere impossibile quella altrui. La definizione del concetto di diritto appena formulata implica che della libertà si dia una concezione negativa in termini di non-dipendenza dall’azione esterna di altri. Questa libertà è innata e ciascuno ha diritto di farne uso a piacimento in quanto appartenente all’umanità.
Alla parte introduttiva seguono le trattazioni del diritto privato e del diritto pubblico. Il diritto privato disciplina il possesso, l’acquisto e il contratto. A differenza del diritto innato, quello privato è acquisito e con la sua trattazione ci si addentra nell’ambito del diritto in senso proprio che segue ad atti giuridici, poiché l’obbligazione, che qui diviene giuridica, ha luogo tra soggetti ed esprime una coazione che non è più rivolta soltanto a se stessi com’era ancora nel diritto innato (che considerava un dovere verso se stessi fare esecizio della propria libertà). La ricerca kantiana, anche qui, è volta ad indagare le condizioni di possibilità del possesso, da cui seguono poi l’acquisto e il contratto, ossia mira a stabilire sotto quali condizioni è possibile parlare di un Mio e Tuo esterni. Il Mio giuridico è tutto ciò di cui sono in possesso. L’uso di qualcosa che è Mio da parte di altri e senza il mio consenso è una lesione del mio diritto a quel possesso. Ora, per Kant, si deve in primo luogo distinguere due sensi del concetto di possesso. Il primo è la detenzione. Tenere in mano una mela la rende mia poiché di fatto in mio possesso, ma solo fino a che qualcuno non la strappa dalle mie mani. La mela è mia, in questo senso, solo empiricamente, e perché divenga Mia in senso anche giuridico, a prescindere dalla posizione occupata rispetto al mio corpo nello spazio e nel tempo o rispetto ad ogni effettiva possibilità di agguantarla da parte mia o d’altri (e dunque Mia sempre e dovunque), deve potersi pensare una nozione di possesso senza detenzione, concetto che Kant individua nell’idea di possesso intelligibile o razionale. Intanto si può parlare di possesso senza detenzione in quanto non vi è nulla di esterno che non possa diventare oggetto del mio arbitrio, per il quale abbia cioè fisicamente la capacità di usarne anche se non immediatamente sotto la mia potestà. Postulato in questo modo che ogni possibile oggetto dell’arbitrio è anche un Mio e Tuo esterno oggettivamente possibile, Kant procede a mostrare la possibilità della suddetta proposizione giuridica a priori concernente il possesso intelligibile. Qui, come già nella seconda critica, una dimostrazione vera e propria non c’è in quanto la sola definizione del possesso razionale basta ad accertare la sua possibilità come fondata sulla ragione, per cui non è possibile rintracciare nulla che venga in soccorso dall’intuizione trattandosi appunto di un concetto a priori. Se è dovere giuridico agire verso gli altri in modo che ciò che è usabile possa essere anche il Suo di ognuno, ne consegue che la condizione del suddetto postulato sia altrettanto possibile. La condizione della normatività del dovere giuridico, ossia la nozione di possesso intelligibile, viene qui dedotta come fatto della ragione, non essendovi sul terreno della libertà la possibilità di una deduzione teoretico-conoscitiva. Quanto poi alla realtà pratica del medesimo concetto, ossia la sua applicazione a concreti oggetti d’esperienza, Kant precisa che questa può essere pensata solo mediante il concetto dell’avere in generale senza alcun riferimento all’intuizione. La possibilità dell’avere è fondata sullo stato civile, cioè sull’esistenza di un potere legislativo pubblico. Qui la lettura del Contratto sociale di Rousseau si fa particolarmente evidente. Perché sia possibile che qualcosa divenga Mio in senso giuridico, vi deve essere una rinuncia da parte di tutti gli altri al suo uso contro il mio consenso. Vi deve essere, in altre parole, una volontà collettiva che costringa ognuno a rispettare la legislazione giuridica esterna, e questa volontà si identifica con lo stato civile (o stato di diritto). Nel semplice stato di natura il possesso rimane provvisorio in quanto fondato sul diritto innato alla detenzione. Entrando in uno stato civile quel diritto viene riconosciuto dalla volontà comune e diviene finalmente giuridico in senso perentorio. La trattazione delle restanti sezioni del diritto privato, di cui offro qui solo la partizione interna, verte sul concetto di acquisto esterno di cose (diritto reale), di atti dell’arbitrio (diritto personale) e di persone che si acquistano come fossero cose (diritto personale di specie reale, cioè i rapporti giuridici interni alla società domestica). I due ultimi paragrafi della sezione preparano il passaggio all’esposizione del diritto pubblico attraverso la menzione del postulato del diritto pubblico che prescrive ad ognuno come dovere il passaggio dallo stato naturale allo stato civile nel quale ciascuno è garantito dalla violenza operata dagli altri a suo danno.
Il diritto pubblico comprende tre trattazioni: il diritto dello Stato, il diritto dei popoli e il diritto cosmopolitico. Il diritto dello Stato, la parte più cospicua della trattazione kantiana del diritto pubblico, oltre a fornire la definizione dello Stato come moltitudine di uomini che stanno in un rapporto di reciproco influsso e pertanto necessitano di uno stato giuridico sotto una volontà che li unifichi, tocca alcuni temi tradizionali della riflessione politica, fra cui la questione della sovranità e della rappresentanza. Kant ripropone la classica tripartizione dei poteri, legislativo esecutivo e giudiziario, ma apportando una modificazione sostanziale a livello di principio cioè introducendo una dislocazione gerarchica che regola le modalità d’esercizio del potere stesso e individua le condizioni di possibilità dell’esercizio pubblico di una coazione legittima. I tre poteri, nella visione kantiana, non sono fra loro in rapporto di conflitto permanente, al quale si porrebbe rimedio con l’idea dell’equilibrio, come accade in Montesquieu, piuttosto stanno fra loro in rapporto di coordinazione e subordinazione.  La sovranità si identifica con la volontà unificata del popolo che, in quanto volontà di tutti, non può recare danno ad alcuno e da cui discende la dignità stessa dell’esecutivo ad essa subordinato in qualità di mero rappresentante che esercita una funzione di delega. L’esecutivo, che Kant identifica con il reggente, ha il compito di applicare la legge ai casi che volta per volta si presentano, è cioè un potere che agisce arbitrariamente. Di qui la necessità di arginarlo, anzi di fondare la possibilità del suo legittimo funzionamento subordinandolo alla volontà sovrana del popolo. In altre parole, dal punto di vista soggettivo, chiunque entri in un stato giuridico rinuncia ad esercitare il diritto naturale alla violenza sugli altri per riappropriarsi di quello stesso diritto, ma modificato sotto la condizione di una legge universale e di un governante fornito di potere coattivo che la applica a tutti i casi particolari. Nemmeno il potere giudiziario, ossia quello che esercita il giudice quando commina la pena, è indipendente dalla volontà sovrana del popolo, infatti non è il giudice che giudica bensì la giuria popolare, il giudice si limita ad applicare la legge al caso singolo. Quanto al diritto dei popoli, discende dalla considerazione della limitatezza dell’orbe terrestre, per cui i popoli stanno in rapporto di reciproco influsso e dunque sono costretti ad entrare in uno stato giuridico che trovi realizzazione in un congresso permanente di stati al fine di assicurare la pace universale. Il diritto cosmopolitico, a volte confuso con il precedente, non trova qui una più organica trattazione di quella già offerta in altri scritti. Kant ne ribadisce semplicemente la necessità in quanto ciascuno ha il diritto di commerciare e visitare ogni territorio della Terra, e condanna il colonialismo poiché violerebbe il diritto che ciascun popolo ha al possesso del suolo che abita.
La fondazione kantiana del diritto e della convivenza civile merita di essere oggetto ancora oggi delle nostre attenzioni per più di un motivo. Anzitutto la ripresa di alcuni aspetti di fondo del pensiero kantiano da parte di Jonh Rawls, forse uno dei massimi filosofi politici contemporanei, attesta la grande vitalità delle idee del filosofo di Königsberg. E poi, le recenti difficoltà incontrate dalla Carta costituzionale della nuova Europa, fanno pensare ad una più generale crisi della rappresentanza e alla  parallela urgenza di rimeditare in profondità i fondamenti della convivenza civile. Per queste ed altre sfide dell’oggi Kant continua ad essere un maestro ed una guida sulla via del pensiero.

Indice

Introduzione di Filippo Gonnelli
Cronologia della vita e delle opere di Kant
Nota al testo e alla traduzione
Primi principi metafisici della dottrina del diritto
Note
Indice dei nomi citati da Kant
Indice dei “Primi principi metafisici della dottrina del diritto”

L'autore

Immanuel Kant, uno dei massimi filosofi moderni, nasce a Konigsberg nel 1724 dove muore nel 1804. Insegna in diverse Università prussiane e con la sua dottrina influenza in maniera decisiva pensatori come Fichte, Hegel e Schelling, oltre a Schopenhauer e a tanti altri fino ad oggi (dai neokantiani a Rawls). Tra le sue opere si debbono ricordare le tre critiche, Critica della Ragione Pura (1781, 1787), Critica della Ragione Pratica (1788) e Critica del Giudizio (1790). Per il pensiero politico, oltre all’opera presentata, nominiamo Idee per una storia univerale dal punto di vista cosmopolitico (1784), Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo? (1784), Sopra il detto comune: questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica (1793) e Per la pace perpetua (1795).

Links

http://users.unimi.it/~it_kant/ “Immaneul Kant in Italia” raccoglie dati e informazioni relativi alla figura e all'opera di Kant con ricca bibliografia (a cura del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Milano)

Nessun commento: