domenica 19 marzo 2006

Loretoni, Anna, Teorie della pace. Teorie della guerra.

Pisa, Ets, 2005, pp. 193, € 12,00, ISBN 88-467-1291-9.

Recensione di Gennaro De Falco - 19/03/2006

Filosofia politica, Filosofia del diritto

Diviso in quattro capitoli, il testo di Anna Loretoni ruota intorno ai temi della pace e della guerra che ieri come oggi fanno discutere ed attirano l’attenzione di studiosi e gente comune. 
I moderni mezzi di comunicazione hanno infatti efficacemente sensibilizzato l’opinione pubblica sul problema della pace come garanzia di prosperità e crescita economica per il mondo intero: ciò nonostante gli ultimi anni hanno visto il succedersi di sanguinose guerre, non ultima la seconda guerra in Iraq. 
Di certo il testo offre interessanti spunti di riflessione e il riferimento ad autori come Clausewitz, Kant, Grozio e alle loro costruzioni teoriche viene efficacemente contestualizzato nella dimensione globale che ovviamente si fonda su basi del tutto diverse da quelle che ispirarono gli autori citati: basti pensare al controverso, e non ancora risolto, problema sull’attuale situazione degli Stati nazione oggi e sulla perdita parziale della loro sovranità (p. 143). 
Il primo capitolo affronta le teorie di Carl von Clausewitz: la sua dottrina, come riferisce l’autrice, poggia sulla solida tradizione realista risalente a Tucidide, il quale, convinto del continuo ripetersi della storia come concretizzazione delle passioni umane, sosteneva che anche le guerre, per tale ragione, ne facessero parte (p. 16), e a Hobbes, il quale, analizzando la ripetitività del contesto internazionale nella sua dimensione anarchica, vedeva in essa mancanza di progresso e la possibilità di continue guerre per il dominio sull’altro (pp. 19-20). 
Vi è però nell’autore prussiano, a differenza di Hobbes, una diversa visione della guerra: se per quest’ultimo essa rappresentava sempre un momento di rottura dei rapporti internazionali (p. 22), per il primo costituiva, al contrario, un momento di socialità sotto altre forme e presupponeva il consolidamento degli Stati nazionali e di un certo ordine sociale al loro interno; in una tale visione, al popolo non restava altro che combattere se è chiamato alle armi (pp. 28-29). 
Non si fatica a paragonare certi Stati contemporanei a quelli descritti da Clausewitz: un determinato ordine interno ed una esasperata identità nazionale in contrapposizione a ciò che è “altro”, sono una miscela efficace per veicolare guerre mascherandole sotto nobili ideali. 
Un altro punto di connessione con l’odierna realtà, che Anna Loretoni ci permette di scoprire, concerne il ruolo che Clausewitz assegnava alla politica nell’indirizzare la guerra verso fini pratici, distribuendone e misurandone le risorse (p. 47), così che pare di grande efficacia l’immagine della “formula trinitaria” (p. 48) composta appunto dalla politica, che è l’apice, dalla forza fisica e dall’elemento della fortuna. 
Alla visione realista segue, nel secondo capitolo, l’analisi del modello pacifista di cui uno dei maggiori esponenti resta Immanuel Kant, fautore di quello che Norberto Bobbio definì pacifismo istituzionale (p. 63). 
La dottrina kantiana criticava i principi realisti dell’autonomia della politica e della totale ed incondizionata corrispondenza dell’azione ad essa. Secondo la prospettiva kantiana è la morale a indicare l’insieme delle regole alle quali anche la politica deve conformarsi (p. 69). 
Nel suo scritto del 1795 sulla pace perpetua il filosofo attuava una distinzione tra articoli preliminari e definitivi (pp. 71-72): i primi costituivano una serie di regole tendenti ad eliminare, o perlomeno ridurre, la possibilità, per un qualsiasi Stato, di ricorrere ad azioni di guerra - tra questi attualissimo è il principio di autodeterminazione dei popoli, inteso come impossibilità di intromettersi con la violenza nel governo di un altro Stato - e la cui applicazione non può essere rinviata per alcun motivo: i secondi definivano, invece, una serie di regole che, pur fondamentali, possono essere applicate successivamente, in attesa di circostanze migliori. 
Ciò che rende ancora più interessante la teoria del filosofo, che - come sottolinea Loretoni – era consapevole della fragilità di parte della sua dottrina, è la necessità di creare una federazione di popoli capace di superare i particolarismi e gli interessi nazionali, di costruire un dialogo costante grazie al quale la pace è mantenuta per il timore del ricorso alle armi (p. 90). 
L’autrice prosegue la sua analisi nel terzo capitolo discutendo una teoria che può essere considerata una via di mezzo tra le due precedenti: secondo tale prospettiva, gli Stati, pur intatti nella loro sovranità, sviluppano una dimensione internazionale sotto forma di accordi, dai quali nascono istituzioni internazionali le cui regole sono rispettate dagli aderenti: ciò, lungi dal costituire un governo sovranazionale, è di certo indice di una certa giuridicità del sistema internazionale. 
Come scrive l’autrice, l’origine di questa terza via risale alla teoria groziana che poggiava sulla necessità di ogni singolo Stato di intessere rapporti con altri Stati. 
Se per Grozio la dimensione internazionale doveva essere dominata dalle regole, allo stesso modo la guerra doveva seguire lo spirito della legge, in quanto espressione della volontà politica degli Stati: la violenza indiscriminata dell’atto bellico nella tradizione realista segna il passo alla visione di una guerra regolamentata. 
Questo è un altro degli argomenti di cui tanto si discute nella letteratura scientifica contemporanea: accanto a chi, come Ulrich Beck, sostiene che ormai è più corretto parlare di guerre postnazionali, in quanto esse sono combattute in nome della morale civilizzatrice dei diritti umani – e sotto questo profilo la guerra nei Balcani del 1999 è stato un chiaro esempio –, vi è ancora chi, come Michael Walzer, benché parli di atto bellico limitato nel tempo, nello spazio e nell’uso dei mezzi (p. 112), riceve le critiche della Loretoni perché la sua visione pecca ancora della “opzione statista”(p. 122). 
La guerra umanitaria pare sempre più conquistarsi il titolo di guerra giusta: solo un intervento armato sembrerebbe in grado di riportare ordine e pace in certe parti del mondo dominate da sanguinosi e ripetuti conflitti etnici (p. 128). 
Dunque una delle incontrovertibili modifiche nella dottrina della guerra è che essa, oggi, appare combattuta unicamente per ragioni che attengono alla morale ed alla giustizia: il rischio, soprattutto quando la guerra umanitaria si scopre essere un mero tentativo senza che sia raggiunto il suo scopo, è che essa diventi una semplice regola di stile per concretizzare ciò che aprioristicamente è stato deciso. E tale impostazione rende attuale la tesi di Clausewitz sulla guerra come continuazione della politica sotto un’altra forma. 
Si giunge addirittura al paradosso – e questo lo si può probabilmente verificare in ciò che sta succedendo in Iraq – che un altro nobile ideale, quello dell’esportazione della democrazia, può trasformarsi in un’aberrazione, o secondo quanto affermato da Umberto Allegretti: “in una colossale soppressione dei diritti umani di [intere e incolpevoli] popolazioni”. 
Il contesto della globalizzazione – discusso nel quarto capitolo – ha cambiato le carte in tavola. L’autrice mostra un certo convincimento nell’asserire la trasformazione del concetto di sovranità e del superamento dei confini nazionali (pp. 137-138); partendo dall’analisi dell’esperienza dell’Unione Europea, un nuovo modello, quello neoregionale, sembra profilarsi come via di mezzo tra la sopravvivenza dello Stato moderno, ancora custode di una parte del suo potere, e l’esistenza di poteri e forze sovranazionali e intergovernative, le più adatte a gestire le crisi e le guerre odierne (pp. 147-148). 
Dunque l’Unione Europea non è quella dimensione internazionale anarchica a cui si riferiva Hobbes. Resta però il fatto, come sottolinea l’autrice, che uno dei poteri più forti della sovranità statale, quello di dichiarare guerra, rimane saldo nelle mani dei singoli Stati membri, potendo gli organi comunitari solo deliberare in materia di missioni di peace-keeping, ecc. (p. 154). 
Il termine opportunamente scelto per dare un nome a questo compromesso tra anarchia e gerarchia internazionale è “potenza civile” (p. 158) e pare espressione ben adatta all’Unione Europea, se la si intende come un insieme di Stati che si impegnano per una politica comune multilaterale affidando poteri ad organi sovranazionali. 
Fermo restando che quella comunitaria è ancora un’ esperienza in divenire, sarebbe stato interessante un ulteriore approfondimento su un'altra linea di visione dell’attuale contesto internazionale, nel quale probabilmente la visione realista è quella che prevale: pur vera la trasformazione delle guerre in atti violenti intrisi almeno formalmente di ideali, pur vera l’unione di più Stati che delegano poteri ad organi che scavalcano le singole istituzioni nazionali, le aggregazioni neoregionali potrebbero essere intese come macro Stati dove l’equilibrio e la pace sono garantiti dal potere che essi detengono. Un potere che, pur non essendo più militare ma prevalentemente economico, grazie alla globalizzazione dei mercati e alla velocità con cui i capitali si muovono in ogni parte del mondo, per dirla con Bauman, “tanto da tenersi sempre un passo avanti rispetto a qualsiasi entità politica”, resta tale e asseconda quelle passioni umane di cui già parlava il grande Tucidide e che Salvatore Quasimodo, all’indomani del secondo conflitto mondiale, rappresentò nei suoi versi: “Sei ancora quello della pietra e della fionda,/uomo del mio tempo […].”.

Indice

Introduzione 
Ringraziamenti 
Capitolo I 
La tradizione del realismo politico 
Capitolo II 
Il modello pacifista 
Federalismo e superamento della sovranità 
Capitolo III 
La società degli Stati 
Capitolo IV 
Nuove geometrie degli spazi politici

L'autore

Anna Loretoni è ricercatrice di Filosofia politica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e docente nell’Università per Stranieri di Perugia e nell’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni: Pace e Progresso in Kant, Esi, Napoli, 1996.

Links

Articolo di Georg Meggle: http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/en/index.htm?surveys/wlgo/meggle.htm

6 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Sostegno monarchico, autocrazia imperiale, etnarchia territoriale della entità politica prussiana si avvicendarono in certa distinzione e solo il primo per Germania e mondo teutonico ed il secondo per intera Europa, infine il terzo per tutta la Mitteleuropa; ed in questi eventi politici e degli accadimenti originari non filosofici la filosofia espresse etica di pace universale e morale particolare della guerra, affinché si potesse evitare che le nuove condizioni di fatto di guerra prevaricassero ogni saggezza ed impedissero ogni difesa. Kant fu soltanto interprete della esigenza del blocco amministrativo-militare fatta valere dall'improvvisa manifestazione di potere degli Organi di Stato prussiani e dell'intervento prussiano in politica, che aveva anche scopo di definire valori di convivenza ed impedirne trasgressioni. Questi valori erano di ascendenza non matrice illuminista ed erano concordi con i principi umanitari illuministi ma non ne discendevano perché in realtà si basavano sul riconoscimento di ovvietà delle necessità della vita e dunque si rapportavano a medesimi problemi con la forza di giudizi di rifiuto, per i quali stesso riconoscimento di valori era assurto a facoltà politica riconosciuta, perché le leggi in Europa non solo erano garanzie ma pure modalità e quindi non si era potuto evitare di ammettere una crisi e di accoglierne i risolutori diretti che stessa crisi potevano per tale denunciare esternamente a Stato per Stato, secondo affermazione di estraneità ad Esso e di collaborazione necessaria a Stato. Definitasi quale prassi, la Condizione dettata dalla Prussia fu poi continuata in parimenti accolta Statualità Parallela, questa secondo insindacabilità poiché sancita da altrui situazioni legislative e unicità di azione essendo tale Condizione un necessario e determinante esito politico, teutonico poi non soltanto teutonico. La determinazione era Determinazione in senso di assoluto ordine, perché gli scopi della Prussia diventavano i giudizi di necessità future delle entità statali non prussiane in diretto od indiretto rapporto con le affermazioni prussiane, in pratica descrizioni di fatti e denunce di accadimenti e indicazione di rimedi. Ma tutto ciò non era per avvicendamento ma per coesistenza quindi relazione; come quando un lume spento in un magazzino di una nave fa notare meglio i rumori e si deve provvedere a stabilizzare la merce, ugualmente le Autorità prussiane non davano comandi ma obblighi senza comando e le Autorità in relazione ne risultavano comandati da propri ordinamenti e per mutato rapporto con Altro, ovvero la Prussia! Per questo l'apice di tale potere fu la Cancelleria, di fatto poi un Impero Militare-Burocratico ma del tutto alieno dalla burocrazia positiva asburgica e pure dalle compagini militari napoleoilniche od antinapoleoniche perché basato non sugli scontri di guerra ma sugli incontri per la opposizione bellica; e questa non era in armi ma in stesso messaggio, il quale notificava cosa impensata dal nemico e lo informava di suo dovere nei suoi stessi confronti! Il resto era azione del nemico già sconfitto che non va confusa per azione prussiana. La parallelità prussiana era garantita da difese passive, anche elmi o scudi ma in ultima istanza intervenuti silenzi o finanche assenze. Quando non esclusivo, cioè in sua fase di mezzo, tale potere non consentiva al potere aggiunto del detentore della azione prussiana uso di armi bensì solo 'mostra' o notizia. ...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

... Dunque l'universalismo pacifista prussiano rappresentava un divario oltre che un valore cui la ideologia marziale della Prussia imponeva di colmarne secondo propri mezzi ma il colmarne era del tutto anche motivatone e guidato da stesso divario manifestato. Praticamente ciò significava che finanche un regnante raggiunto dai comunicati della Cancelleria prussiana non era semplicemente un informato ma un coinvolto e per tramite decisivo di stesso suo regno, tanto che a far di modo suo sarebbe stato impedito nella sua stessa reggenza; e d'altronde ciò accadeva per coesistenza di alterità non comunanza, perché i provvedimenti prussiani erano suscitati dalla ovvietà e necessarietà di una nuova convivenza anche politica; quel che ne era il restante e comune era il 'vivere soltanto in relazione'. Perciò non era possibile a nobile rifiutarsi senza obliare proprie conoscenze o ad imperatori restare senza perdere capacità di manifestare qualcosa a qualcuno; ciò era per alterità ma in relazione e dapprima non etnologicamente ma pure solo psicologicamente, perché rapportarsi con Ufficiale prussiano non era una formalità ma un incontro non catalogabile cui seguivano forme necessarie e non refutabili di proprie reazioni indipendenti, a cominciare da intuizione della presenza di Ufficiale, a terminare con sentimento della sua assenza, secondo reazione umana di comprensione umana; perché la vera guerra prussiana era attraverso soverchiante facoltà di persuasione. La fase dei duplici ruoli occasiona molte illusioni storiche per indistinzioni che non sono accettabili opinabilità ma sono non individuazioni; cioè bisogna assolutamente capire qiale fosse il 'nucleo di potere' della politica prussiana.
In ultima fase, etnica, tale politica si chiuse ad esterno e poi multietnicamente trasformandosi lasciò in eredità le cosiddettale "zone non franche ma prussiane", dove cioè le mutate relazioni tra Stati Europei non consentivano imprevedibilità burocratica di rapporti negativi, ovvero dove non si trovava occasione perché la vita e la politica dovessero affidarsi ai 'provvisori mezzi e di negativa circostanza'; in pratica in tali zone realmente non solo idealmente non c'era la occasione della violenza dello scontro e non c'era scontro armato o solo anche violento che potesse ricevere giudiziario non dissenso e neppure magistrale assenso; ma questa realizzazione era stata complicatissima e realizzata infine senza relazioni ad Esterno ed eliminando finanche antiecologiche coincidenze (per esempio che giustificassero uso disinfettante di asettici scoppi) !
La 'continuazione sotto altra forma', di cui dava definizione e forniva — in quanto si trattava di descriver saggezza bellica già in atto e non temerarietà — pubblicistica filosofica Carl von Clausewitz, era ed è soltanto riferibile alla opposizione degli incontri e può ricever unica interpretazione, sia giudiziariamente o sia non giudiziariamente, sia storica che astorica, di: creazione di non violenta necessità alternativa talché la politica possa essere aggressiva senza essere lesiva.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In primo precedente messaggio 'napoleoilniche' sta per: napoleoniche.
In secondo precedente messaggio 'qiale' sta per: quale.

In secondo precedente messaggio 'ma questa realizzazione era stata complicatissima e realizzata infine' sta per:

ma questa realizzazione era stata complicatissima e ciò che fu realizzato infine lo fu [...]

Reinvierò entrambi messaggi con correzioni incluse.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

+
Sostegno monarchico, autocrazia imperiale, etnarchia territoriale della entità politica prussiana si avvicendarono in certa distinzione e solo il primo per Germania e mondo teutonico ed il secondo per intera Europa, infine il terzo per tutta la Mitteleuropa; ed in questi eventi politici e degli accadimenti originari non filosofici la filosofia espresse etica di pace universale e morale particolare della guerra, affinché si potesse evitare che le nuove condizioni di fatto di guerra prevaricassero ogni saggezza ed impedissero ogni difesa. Kant fu soltanto interprete della esigenza del blocco amministrativo-militare fatta valere dall'improvvisa manifestazione di potere degli Organi di Stato prussiani e dell'intervento prussiano in politica, che aveva anche scopo di definire valori di convivenza ed impedirne trasgressioni. Questi valori erano di ascendenza non matrice illuminista ed erano concordi con i principi umanitari illuministi ma non ne discendevano perché in realtà si basavano sul riconoscimento di ovvietà delle necessità della vita e dunque si rapportavano a medesimi problemi con la forza di giudizi di rifiuto, per i quali stesso riconoscimento di valori era assurto a facoltà politica riconosciuta, perché le leggi in Europa non solo erano garanzie ma pure modalità e quindi non si era potuto evitare di ammettere una crisi e di accoglierne i risolutori diretti che stessa crisi potevano per tale denunciare esternamente a Stato per Stato, secondo affermazione di estraneità ad Esso e di collaborazione necessaria a Stato. Definitasi quale prassi, la Condizione dettata dalla Prussia fu poi continuata in parimenti accolta Statualità Parallela, questa secondo insindacabilità poiché sancita da altrui situazioni legislative e unicità di azione essendo tale Condizione un necessario e determinante esito politico, teutonico poi non soltanto teutonico. La determinazione era Determinazione in senso di assoluto ordine, perché gli scopi della Prussia diventavano i giudizi di necessità future delle entità statali non prussiane in diretto od indiretto rapporto con le affermazioni prussiane, in pratica descrizioni di fatti e denunce di accadimenti e indicazione di rimedi. Ma tutto ciò non era per avvicendamento ma per coesistenza quindi relazione; come quando un lume spento in un magazzino di una nave fa notare meglio i rumori e si deve provvedere a stabilizzare la merce, ugualmente le Autorità prussiane non davano comandi ma obblighi senza comando e le Autorità in relazione ne risultavano comandati da propri ordinamenti e per mutato rapporto con Altro, ovvero la Prussia! Per questo l'apice di tale potere fu la Cancelleria, di fatto poi un Impero Militare-Burocratico ma del tutto alieno dalla burocrazia positiva asburgica e pure dalle compagini militari napoleoniche od antinapoleoniche perché basato non sugli scontri di guerra ma sugli incontri per la opposizione bellica; e questa non era in armi ma in stesso messaggio, il quale notificava cosa impensata dal nemico e lo informava di suo dovere nei suoi stessi confronti! Il resto era azione del nemico già sconfitto che non va confusa per azione prussiana. La parallelità prussiana era garantita da difese passive, anche elmi o scudi ma in ultima istanza intervenuti silenzi o finanche assenze. Quando non esclusivo, cioè in sua fase di mezzo, tale potere non consentiva al potere aggiunto del detentore della azione prussiana uso di armi bensì solo 'mostra' o notizia. ...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

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... Dunque l'universalismo pacifista prussiano rappresentava un divario oltre che un valore cui la ideologia marziale della Prussia imponeva di colmarne secondo propri mezzi ma il colmarne era del tutto anche motivatone e guidato da stesso divario manifestato. Praticamente ciò significava che finanche un regnante raggiunto dai comunicati della Cancelleria prussiana non era semplicemente un informato ma un coinvolto e per tramite decisivo di stesso suo regno, tanto che a far di modo suo sarebbe stato impedito nella sua stessa reggenza; e d'altronde ciò accadeva per coesistenza di alterità non comunanza, perché i provvedimenti prussiani erano suscitati dalla ovvietà e necessarietà di una nuova convivenza anche politica; quel che ne era il restante e comune era il 'vivere soltanto in relazione'. Perciò non era possibile a nobile rifiutarsi senza obliare proprie conoscenze o ad imperatori restare senza perdere capacità di manifestare qualcosa a qualcuno; ciò era per alterità ma in relazione e dapprima non etnologicamente ma pure solo psicologicamente, perché rapportarsi con Ufficiale prussiano non era una formalità ma un incontro non catalogabile cui seguivano forme necessarie e non refutabili di proprie reazioni indipendenti, a cominciare da intuizione della presenza di Ufficiale, a terminare con sentimento della sua assenza, secondo reazione umana di comprensione umana; perché la vera guerra prussiana era attraverso soverchiante facoltà di persuasione. La fase dei duplici ruoli occasiona molte illusioni storiche per indistinzioni che non sono accettabili opinabilità ma sono non individuazioni; cioè bisogna assolutamente capire quale fosse il 'nucleo di potere' della politica prussiana.
In ultima fase, etnica, tale politica si chiuse ad esterno e poi multietnicamente trasformandosi lasciò in eredità le cosiddettale "zone non franche ma prussiane", dove cioè le mutate relazioni tra Stati Europei non consentivano imprevedibilità burocratica di rapporti negativi, ovvero dove non si trovava occasione perché la vita e la politica dovessero affidarsi ai 'provvisori mezzi e di negativa circostanza'; in pratica in tali zone realmente non solo idealmente non c'era la occasione della violenza dello scontro e non c'era scontro armato o solo anche violento che potesse ricevere giudiziario non dissenso e neppure magistrale assenso; ma questa realizzazione era stata complicatissima e ciò che fu realizzato infine lo fu senza relazioni ad Esterno ed eliminando finanche antiecologiche coincidenze (per esempio che giustificassero uso disinfettante di asettici scoppi)!
La 'continuazione sotto altra forma', di cui dava definizione e forniva — in quanto si trattava di descriver saggezza bellica già in atto e non temerarietà — pubblicistica filosofica Carl von Clausewitz, era ed è soltanto riferibile alla opposizione degli incontri e può ricever unica interpretazione, sia giudiziariamente o sia non giudiziariamente, sia storica che astorica, di: creazione di non violenta necessità alternativa talché la politica possa essere aggressiva senza essere lesiva.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Sono spiacente per inconvenienti di scrittura, dovuti a non possibile impegno maggiore da parte mia e a causa di tedi e minacce che anche ad altre attenzioni mi hanno costretto e in forza di condizioni non ordinarie del supporto per scrittura, queste anche dipendenti da noie arrecatemi ed assieme ad altre.
Internet non è una libreria e allora basti definitività di invii e intuibilità.

MAURO PASTORE