domenica 19 marzo 2006

Marianelli Massimiliano, La metafora ritrovata. Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil.

Roma, Città Nuova, 2004, pp. 314, € 25,00, ISBN 88-311-3355-1.

Recensione di Paolo Farina - 19/03/2006

Teologia, Ontologia, Simbolo

“Forse presso diversi popoli (India, Egitto, Cina, Grecia) ci sono state Scritture sacre rivelate allo stesso titolo delle Scritture giudaico-cristiane. E forse alcuni dei testi giunti fino a noi ne sono frammenti o echi […]. L’estrema importanza attuale di questo problema deriva dall’urgenza di porre rimedio al divorzio tra la civiltà profana e la spiritualità nei paesi cristiani, divorzio che esiste da venti secoli e si fa sempre più grave. La nostra civiltà non deve niente a Israele, e ben poco al cristianesimo; essa deve quasi tutto all’antichità precristiana […]. Finché questa antichità e il cristianesimo resteranno impermeabili l’una all’altro, lo saranno allo stesso modo la nostra vita profana e la nostra vita spirituale […]. La mitologia greca è piena di profezie”.
Così Simone Weil in una lettera inviata ad un religioso – padre Couterier – poco tempo prima della sua morte. Si tratta di un documento che riepiloga, in trentacinque punti, gli ostacoli che la mantengono sulla soglia della Chiesa Cattolica, atteggiamento nel quale persevera sino alla fine, sino al battesimo ricevuto in segreto, in ospedale, dall’amica Simone Deitz.
Nel pieno della crisi che travaglia l’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, Simone Weil ritiene che lo smarrimento che pervade il mondo occidentale sia dovuto al divorzio tra civiltà antica, in particolar modo greca, e cultura moderna o post-moderna, ovvero tra civiltà “pagane” e mondo cristiano, tra vita “profana” e “verità religiosa”. Ecco come ella chiude la già citata lettera: “Questi problemi sono oggi di una importanza capitale, urgente e pratica. Dal momento che tutta la vita profana dei nostri paesi proviene direttamente dalle civiltà ‘pagane’, finché sussisterà l’illusione di una frattura tra il cosiddetto paganesimo e il cristianesimo, quest’ultimo non sarà incarnato, non impregnerà l’intera vita profana come deve, resterà da essa separato e di conseguenza inattivo. Come cambierebbe la nostra vita se si vedesse che la geometria greca e la fede cristiana sono scaturite dalla stessa fonte!”.
Consapevole di simili provocazioni, il testo di Massimiliano Marianelli si muove nella convinzione che miti e simboli, così come li interpreta Simone Weil, abbiano molto da dire e da dare all’ontologia e alla teologia. L’intera evoluzione esistenziale, filosofica, politica, culturale e, infine, mistica e teologica di Weil sta proprio a testimoniare la sua certezza che le tradizioni religiose e quelle “profane” da cui abbiamo ereditato i miti si incontrano in realtà nella indicazione di una sacralità originaria del cosmo. Nell’ottica weiliana, la spiritualità di un popolo, il suo grado di civiltà, il livello di maturazione stessa dell’umanità si esprimono interamente attraverso un linguaggio simbolico. Il trascendente è per Weil il fondamento di ogni verità. Non è possibile attingervi, in qualsivoglia campo dell’azione umana, a prescindere da un incontro con la Verità fatta carne, Gesù Cristo, che è verità rivelata, via a Dio, via di ogni uomo, a prescindere dalla sua tradizione religiosa e dalla sua formazione culturale.
Di qui la necessità di scandagliare il mistero da molteplici livelli di lettura, atteggiamento che spinge Simone Weil, a mo’ di persona assetata nel deserto, alla ricerca della verità presente in ogni religione, unica “acqua” capace di dissetarla.
La filosofia cede, dunque, il passo alla teologia, una teologia che riflette sulle “molteplici incarnazioni” di Gesù, che hanno in qualche modo preceduto e preparato quella avvenuta a Betlemme di Giudea. Gesù Cristo è la “metafora reale”, chiave ermeneutica in cui il linguaggio simbolico trova il suo ultimo inveramento, la mediazione compiuta, la metaxy, tra l’eterno e la storia, Dio e l’uomo, le molteplici tradizioni religiose e quella in lui rivelata.
Marianelli dimostra peraltro come Simone Weil sia “cresciuta in un mondo di miti” (p. 17), al punto da aver sempre “[…] ritenuto che miti e tradizioni popolari, queste ultime più antiche dei primi e quindi ancor più degne di considerazione, celassero verità eterne nei confronti delle quali è necessario orientare lo sguardo” (p. 30).
Lo studio di Marianelli si articola, dunque, in due parti. Nella prima, Il mito e le figure, l’autore scandaglia, lasciandosi guidare dalle provocazioni di Weil, i “tesori di spiritualità” (p. 33) del passato, privilegiando alcune figure dell’universo mitologico – Antigone, Oreste, Elettra, Demetra e Core - che appartengono al patrimonio della tragedia greca e che rivestono un ruolo del tutto particolare nella speculazione weiliana.
Esito di questa prima sezione è il tentativo, rigorosamente seguito, di andare oltre una classificazione dei miti in Simone Weil, recuperando l’interpretazione della Little, secondo la quale è presente in Weil una vera e propria “filosofia della salvezza”. A tal riguardo, scrive Marianelli: “Sebbene l’espressione filosofia della salvezza non sia del tutto appropriata, tuttavia essa può presentarsi come utile categoria interpretativa attraverso la quale leggere la riflessione filosofica della Weil per tentare di coglierne alcuni momenti importanti” (p. 131). Una categoria utile, ma, in definitiva, non esaustiva, considerato che Marianelli propone una serie di “categorie trinitarie”, a suo avviso presenti non solo negli scritti teologici della maturità, ma anche in quelli filosofici redatti sotto l’influenza di Alain e di ispirazione platonica. Già qui Weil “[…] si preoccupa di mostrare come il vero, il bello ed il bene, riferendosi specialmente al rapporto tra il bello e il bene, non siano momenti separati, ma co-implicantesi. Le tre dimensioni del reale […] sono considerate in riferimento a realtà soprannaturali: le figure della Trinità” (pp. 138-139).
Nella seconda parte del suo lavoro, Linguaggio mitico e ontologia, Marianelli si propone il compito, non semplice, di elaborare una teoria del mito, in un pensiero magmatico come quello di Weil, che, da un lato, incontra nella contraddizione la sua precipua chiave interpretativa, dall’altro, la principale insidia per chi intenda farsi suo esegeta.
Marianelli, opportunamente, riconosce che in Weil spesso il potere del linguaggio sperimenta il suo limite e cede, in una sorta di teologia apofantica, al “non-linguaggio” della matematica e della poesia, sino a contemplare il “silenzio originario” del Verbo. L’autore ha il merito di evidenziare con chiarezza il circolo ermeneutico che intercorre tra silenzio e parola, tra simbolico e disvelamento dell’essere: Cristo è il Verbo, Cristo è il silenzio di Dio sulla croce. Tra i due estremi è il tentativo del linguaggio di dispiegare il mistero dell’amore di Dio per l’uomo, anche a fronte della domanda delle domande: perché il male, se Dio è buono? Osserva Marianelli: “Il Silenzio divino è […] l’originale soluzione weiliana al problema della Teodicea ed esso, frequentemente assunto come argomento da chi vuole negare l’esistenza di Dio, diviene nel linguaggio della Weil una prova inconfutabile della sua esistenza e del suo Amore” (pp. 184-185).
Si tratta di una “prova” accessibile a chi, con umiltà, rinuncia a leggere e quindi a conoscere ovvero a “possedere” una conoscenza. In questo abbandono della pretesa di sapere, in questa contemplazione del “mistero”, l’intelligenza si apre al linguaggio dei miti, della poesia, delle immagini. La scelta di tale immagini può essere più o meno felice. Solo nella seconda ipotesi esse possono racchiudere un mistero. Conclude Marianelli: “Misteri sono propriamente quei «problemi insolubili» che il filosofo deve «contemplare», senza sperare di risolverli, ponendosi in condizione di attesa. In tale disposizione, il soprannaturale può manifestarsi attraverso simboli” (pp. 286-287).
Scrive Piero Coda nella Premessa a Marianelli: “Che la testimonianza di pensiero ardita e interpellante di Simone Weil abbia di per sé a che fare con la teologia è un dato ormai acquisito. […] Questo fatto giustifica la collocazione al presente saggio, frutto della rigorosa e appassionata ricerca di Massimiliano Marianelli, nella collana «Teologia» dell’Editrice Città Nuova. Esso, infatti, pur caratterizzandosi per una movenza originariamente filosofica, non è affatto prigioniera di un’astratta e improduttiva separazione tra filosofia e teologia, ma, fedele all’intenzionalità più autentica e feconda della Weil, ne mostra l’articolazione in atto, e precisamente a partire dalla ricordata centralità del simbolico” (p. 5).

Indice

Premessa (di P. Coda) 
Prefazione (di A. Pieretti) 
Sigle 
Introduzione: «Cresciuta in un mondo di miti» 
IL MITO E LE SUE FIGURE 
Tesori di spiritualità 
Miti ed esperienza mistica 
Le Intuizioni precristiani 
La verità in frammenti 
I tre figli di Noè o le origini della civiltà mediterranea 
Il radicamento 
Figure dell’universo mitologico 
Antigone 
Malheur e decretazione 
Malheur e maledizione 
Oreste ed Elettra 
2.1 Antigone ed Elettra 
2.2 Attesa e non lettura 
2.3 Il dolore nei greci 
2.4 La bilancia a bracci diseguali 
Demetra e Core 
3.1 Le origini misteriche 
3.2 Narciso e chicco di melagrana 
3.3 “Patetico dell’uomo” e “drammatico di Dio” 
Il significato dei miti: una classificazione oltre la struttura 
Per una classificazione dei miti 
L’interpretazione della Little: una filosofia della salvezza 
Categorie” trinitarie 
LINGUAGGIO MITICO E ONTOLOGIA 
Linguaggio e miti 
L’originarietà del linguaggio 
Il linguaggio e il suo potere 
L’origine trascendente 
Linguaggio e non linguaggio 
La matematica 
La poesia 
2. Il mondo del mito 
2.1 Il mito e la cultura umanistica 
2.2 Il fondamento dei miti 
2.3 Il segno: tra idolo e mito 
2.4 La rete dei nessi analogici 
2.5 Letture e non letture 
2.6 Dall’analogia al simbolo «par la convenance» 
2.7 Il simbolico 
2.8 La “metafora reale” e il Cristo 
2.9 I simboli e il consenso 
2.10 Il mito tra struttura linguistica e disvelamento dell’essere 
3. Il linguaggio dei miti 
La verità dei miti 
Bibliografia 
Indice dei nomi

L'autore

Massimiliano Marianelli è laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Perugia, nel 2003 dottore di ricerca con una tesi dal titolo: Il linguaggio dei miti in Simone Weil, attualmente collabora con la cattedra di Storia della filosofia dell’Università di Perugia. Si occupa principalmente di questioni di filosofia del linguaggio, soprattutto in riferimento all’arte contemporanea, e sull’argomento ha pubblicato numerosi articoli. 

Links

Sito dell’arcidiocesi di Madrid: http://www.archimadrid.es/

9 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Senza la stessa rigorosità di altri pensatori dalle altre vicende, penso in particolare a S. Kierkegaard, Simon Weil meditava varietà di miti e di storie etniche, mossa dalla intuizione di doversi ritrovare della realtà precristiana non il politeismo né esoterismo ma cultura del sacro libera e felice onde poter continuare a trarre vita dalla cultura; ed in tal scopo ella si incontrò coi dogmi cristiani, che accettò ovviamente nei significati perenni dunque non accogliendone formulazioni ma solo interpretandone relativisticamente. Eppure mancò ad ella fede o senso di estraneità, per questo restò la sua riflessione elaborata ed affannosa; tanto che il monismo religioso psicologico delle tragedie greche non le era diretto tramite per salvare cultura, passato, appartenenze diverse né poteva esser superato in altra ulteriore alternativa sintesi direttamente teologica, essendo i presupposti cristiani di Weil eminentemente culturali non del tutto religiosi. Anche per questo ella si era volta a studio della Iliade, poema rimastogli appunto soltanto materia di studio; e l'ingenuo continuo suo ricercare nella storia greca-ellena, di fatto non intesa in sua particolarità e non totalità, con intento dunque vano di trovarvi indicazioni o controindicazioni per un suo e diverso sionismo, la impegnò in un confronto etnico-culturale, religioso e politico, extrafilosofico e polemico, fino a condurla attraverso non oltre le circostanze tragiche della seconda guerra mondiale ed a morte prematura.
Ritengo assai utile notare della ricerca mistica e culturale di S. Weil la impotenza sociale e la estraneità a sua restante vicenda realmente filosofica.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Spiego meglio mio commento precedente con specificazioni, per chi volesse meglio intendere.

In alcuni passi del suo Diario, Simon Weil si rapporta al mondo delle Saghe della Europa Settentrionale tentandone una interpretazione esclusivamente culturale ma senza poterne concludere con reali intuizioni, perché incontrandovi riferimenti incrociati coi testi omerici a sua volta li poteva intendere solo per esterna relazione. Restò la Weil indirettamente legata alla cultura degli orientalismi giudaici e direttamente appartenente alla cultura religiosa dell'ebraismo, pur essendo ella fuoriuscita dalla religiosità e culture ebraiche. Nonostante le sue citazioni siano apprezzabili trasgressioni ai taciti non-detti imposti da certo accademismo inetto a stabilire tra scienze e filosofie e poesie un equilibrio realmente culturale e non sordidamente subculturale, esse tuttavia sono neutralizzate da mancate conoscenze e mancate informazioni sulla sapienza omerica: Simon Weil non sapeva identificarne praticamente una, il suo Diario se ne mostra orfano ma recandone nozione purtroppo frammentata, attraverso cui non si può pervenire ad alcunché di extralinguistico né che abbia funzione semiotica oltre che mediato valore semantico.
Nel tentativo di instaurare una comunicazione tra diverse culture originarie, Weil restò irretita dalle allusioni storiche fino al punto da caderne negli antichi inganni, originali senza dubbio ma non originarii. La attrazione fatale ed esiziale ne testimonia un interesse reale ma non realizzato dalla Weil, che difatti si imbatteva nel nome della divinità nordica e germanica Thor e non potendo distinguere succedersi di apparenze e realtà del mondo della Iliade attraverso i segni della sua manifestazione terminava il suo percorso intellettuale limitandosi ad identificare mitografie, ma smarrendone la mitologia e limitandosi a descriver storia di tradizioni e restando fuori da storie tradizionali. Sicuramente questa limitazione corrispondeva ai riferimenti intellettuali del grecismo quale esisteva in accademie ed università tedesche del suo tempo, ma così diventava esso tramite per la perdita dei retaggi ellenici e modo per lasciare gli studi dei grecisti in Germania "lettera morta". Tale evenienza esistendo in Germania già da molto prima, era stata negli effetti principali già scongiurata dai viaggi nel Meridione di Italia di Goethe, Nietzsche ed altri; e dunque certi appunti di Diario di Simon Weil ne sono involontaria non determinante alternativa, tranne che non se ne utilizzi in ambienti ove lo sradicamento culturale non abbia fatto già immani e quasi definitive distruzioni; in tal caso i tramiti per la superficie assumendo valore di scoperta o riscoperta... Ma resta tale possibilità limitata ad ambienti diversi da quelli di originaria eredità, perché quivi potendosi trovar retaggi non solo scritti e non eminentemente civili. In tali ambienti, gli appunti di S. Weil, di diversa appartenenza etnica e culturale, potrebbero invece servire da rivelatori della altrui, della medesima Weil, estraneità culturale e civile al mondo dei guerrieri del Nord, della Iliade e della Edda; ma questa utilità è ipotetica, stante il fatto che i retaggi originari proprio in ambienti originari sono complicati o disponibili solo dopo impresa extraintellettuale e stante la straniera o forestiera etnofobia largamenente diffusa che li usa per invadere gli altrui codici culturali-linguistici; ed a ciò si aggiungano gli eventuali cattivi casi e le difficoltà impreviste della vita! Insomma bisogna porre estrema attenzione a non sottovalutare i rischi di altrui incomprensioni nel verificare possibile uso di appunti quali alcuni di Simon Weil su Thor e Troia, sulla mitografia nordica e sulla Iliade.
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :...

Si nota da parte di Weil anche non partecipazione con gli esiti degli studi archeologici tedeschi delle rovine di Troia, scoperte ufficialmente e identificate per la prima volta da H. Schliemann (a me però risultò che in precedenza vi si fosse già recato J. J. Winckelmann e ne avesse intuito realtà storica pur senza stabilirne con studi specifici).
Nel tentativo di evitarne mitizzazioni, la Weil se ne imbatte in antiche e non riconoscendole per tali ne riporta le coincidenze linguistiche e glottologiche esponendo a contraddizioni o sviamenti. Questa vicenda intellettuale le pregiudicò le possibili difese sociali e biologiche dagli scontri di guerra ed aggressioni, perché attardatasi ella in giochi linguistici che non riconosceva del tutto per tali non ne intendeva sùbito ed appieno le imitazioni compiute dal falso ecologismo né i tentativi di imitazione attuati dal nazismo e non riusciva a trovar forza e riparo maggiori per uscire ella indenne e con lunga vita disponibile dai travagli della seconda guerra mondiale e della persecuzione nazista e nazifascista...
Dunque la forza di Thor era solo simboleggiata nella umanità che durante il finire della civiltà troiana si era da questa formata; ed il mondo della Iliade era rappresentato per rovescio, inverso, per avverso anche, dai segni della civiltà e cultura di Troia, sia quelli riportati da Omero che ritrovati dagli archeologi tedeschi tra le misteriose rovine identificate ma non veramente conosciute da essi. Ad illuder molti era la scarsa cultura sul Medioevo teutonico poi tedesco; i destini divergenti di parte della eredità del Sacro Romano Impero, le civiltà parallele ma dalle comuni origini non più dirette per il mondo della Germania moderna e la realtà non cumunicabile di alcune di tali comunanze, in Germania dai retaggi particolari od anche solo locali oltreché indiretti: infatti restando solo alla cultura sveva della Germania comprensibilità del passato reale della civiltà troiana però non delle vicende iliache, queste disponibili alla civiltà e culture, teutoniche e non teutoni, svevo-aragonesi, di cui retaggio proprio e diretto solo nella attuale Italia e maggiormente in Meridione ed in particolare in Puglia od in luoghi, italiani-meridionali, storicamente legati alla cultura del cosiddetto Oriente di Italia. Eppure nonostante tutto tali comprensioni restano mediate dalle esperienze, politiche, culturali, civili, della romanità stessa; e dunque non più di poco potendosene ottenere per inoltrarsi a reali decifrazioni ed interpretazioni della Edda e non trovandosi in esse reale presupposto conoscitivo per avere idea e riferimento della .
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :...

[ Riporto mia frase intera che in messaggio precedente è rimasta monca a causa di caratteri non accettati dal sistema telematico:]

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Eppure nonostante tutto tali comprensioni restano mediate dalle esperienze, politiche, culturali, civili, della romanità stessa; e dunque non più di poco potendosene ottenere per inoltrarsi a reali decifrazioni ed interpretazioni della Edda e non trovandosi in esse reale presupposto conoscitivo per avere idea e riferimento della 'sapienza omerica'.
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :...

Codesta 'sapienza omerica' termina e non include le altre vicende immediatamente successive alla fine di Troia ed a questa connesse. Tali vicende furono conosciute e narrate da Giovanni Boccaccio che ne diede archetipi letterari per i futuri poemi, italici quindi italiani, di epica cavalleresca; opere che traggono ispirazione storica-culturale dalle misteriose vicende britanniche medioevali di Re Artù e che recano argomenti storici dalle vicende belliche che impegnarono Carlo Magno, guerre in certo senso in parte ancora antiche non solo medioevali. Esse sono inerenti le illusioni che accaddero poi che Troia cadde e fu distrutta e riguardano anche i disinganni e i non inganni che dall'Evo Antico e durante l'Evo di Mezzo avevano consentito conoscenza di storia e realizzazione di storia; dunque la fondazione della nuova città di Troia voluta dalla istituzione imperiale romana in Italia, il suo destino medioevale di oscurità e rischi fino alla impresa diplomatica di Federico II di Svevia, che fu massima Autorità della politica occidentale (anche in virtù dei peripli vichinghi e normanni tra Islanda, Groenlandia e Canada, Europa Settentrionale e Meridionale, di cui Federico era a parte anche per origini familiari materne) nonché a capo di stesso Sacro Romano Impero. Si può affermare che la vera città di Troia sia proprio quest'altra "nuova", attualmente cittadina nella Regione amministrativa della Puglia, un tempo sede di accordi diplomatici tra intero Occidente politico ed intero Oriente politico (senza escludere neanche i coloni gerosolimitani né gli indiani americani non nativi), di cui Garante occidentale Federico II ed orientale il Khan dei Mongoli. Tutto questo mondo parendo sola ufficialità e sola tradizione non lo era e non lo resta; ma resta circondato da illusioni ed inganni, che vigono a causa di contrasti civili, violenze culturali, divergenze politiche ed antipolitica. E l'altro antico era pur esso tra inganni ed illusioni, ma mortali e fatali fino ad oggi ed anche per un futuro; sicché senza il nuovo, questo sarebbe stato non più autenticamente noto o non più davvero notabile, solo rammemorabile e solo dai diretti discendenti e successori ma senza più comunicabilità alcuna ad alcuno.
La testimonianza e vicenda biografica di Simon Weil ne rappresenta l'esito, relativo non assoluto, di assenza di comunicabilità; perché relativamente questa accadde e vastamente ed accade e largamente e non senza drammi e non senza tragedie.
... La Antica Troia era un sistema di antri che parendo una città non lo era veramente ed era succeduta all'ultima città, propriamente detta Ilio ma questo essendone secondo nome mentre il primo non era graficamente rappresentabile dalla lingua omerica e solo in apparenza corrispondente alla dizione 'Troia'. La ultima città, detta tale postumamente, era l'ultima di molte altre in non continuità ma in completa successione, le cui scansioni temporali solo per pochi studiosi moderni sono state concepibili ma che ora stanno diventando appena disponibili a causa di riapplicazione delle misurazioni apportate dai paleontologi. Ma tali misurazioni sono solo periodi incogniti, cifrari non numerologie; eppure nell'allargarsi dei propri spettri e raggi di azione potrebbero dar a chi in error maggiore idea della verità. Nei suoi numerosissimi cicli cittadini, le città si succedevano in diretta continuità coi soli ultimi tempi che oggi sono tramandati dalle testimonianze monumentali della India, queste anche più remote, anzi remotissime e ciò però noto agli storici e studiosi indiani ed anche secondo moderni sistemi paleontologici ma non comunicabile se non a pochissimi o a nessuno in Occidente prima d'ora.
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :...

La civiltà detta di Troia era una civiltà orientale di confine, in suo ultimissimo periodo, "come un soffio" per la sua Tradizione, ospitando in codesto evo stessa civiltà greca ed in ultimissimo non solo tale civiltà ma anche altro del suo mondo; e con ciò si riferiva pure alla vitalità ancora selvaggia ed ingenua di alcuni greci ivi residenti; ed invece della principessa greca detta Elena, per cui alcuni ignoti troiani furono accusati da molti greci di rapimento o reticenza, era già tal "soffio" estinto, di Ilio invero restando nulla che fosse città, solo una rocca che rassegnava non segnava il passato cittadino, 'iliaco', perché il restante, degli antri, ex edifici, mutati da eventi naturali o di vita non umana, non ne lasciava capire consistenza di fortezza costruita da umani e tal restata, ma solo fin in ultimo quasi solamente, con le combinazioni dopo le coincidenze che impedivano vista allo sguardo. Una rocca non poteva essere una città ma a quasi tutti i troiani diversamente apparendo dentro e da dentro a fuori e fuori da dentro; e la lingua italiana che distingue sottilmente tra rocca e roccia, rocche e rocce, si formò da altra sapienza, federiciana e medioevale, poiché gli antichi latini non avevano sottigliezza di distinzioni perché non era mai accaduto evento tanto strano ad umanità e solo i modi silenziosi di comunicare a disposizione dei greci potevano far capire qualcosa a chi ben volentieri ne voleva. La rocca aveva appellativo di Pergamo, ma pur questo era antico, vecchio, di quando le sole coincidenze impedivano di percepire la natura non cittadina della ultimissima Troia e le parole potevano raccontare ancora senza un ritmo musicale o canto; poi, non più.
Non per maledizione, per necessità, non si poteva dirne; ma quando i romani ne vollero potere repubblicano, anche a custodire ritmi e canti, nuove coincidenze, anche di iniziale umana ostilità stavolta, diedero nuove parvenze; ma le combinazioni nulla potettero, sembrando solo e non essendo altrimenti ai tempi di Federico II ed anche poi; e ciò significa che non accaduto, non accadendo l'Oblio, restando impedita assoluta dimenticanza, la Rimembranza parendo ad alcuni Ricordanza e questa parendo ad alcuni Rimembranza, si generano altre illusioni, altri inganni: di assenti umanità, di assenti poteri; di presenze comuni in realtà non comuni, di assenze singolari in realtà non singolari; e lo stesso Diario di Simon Weil lungi dal poterne ovviare, non aggiunge esso veramente una mediazione anzi sussiste esso stesso quale chimerica entità laddove son citati i passati troiani; e tale chimerica entità serve a chi munito già di conoscenze per saper di illusi o serve per fuggir chimere a chi deve fuggirne, non per indottrinarsi né per venire a sapere.
(... E riferire della Antica Troia, cosa che ho fatto io con questi miei scritti convatenati, non è il dirne. Infatti indicar con discorsi e parole non sempre è e non sempre può essere descrivere qualcosa.)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :...

Riporto mia frase corretta di mio messaggio precedente:


(... E riferire della Antica Troia, cosa che ho fatto io con questi miei scritti concatenati, non è il dirne. Infatti indicar con discorsi e parole non sempre è e non sempre può essere descrivere qualcosa.)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Le relazioni tra miti ed allegorie, ritualismi e fede, quali erano state consegnate alla cultura filosofica dal platonismo, annoveravano il mito quale introduzione a psicologia filosofica; all'inverso nella filosofia esistenzialista il mito serve a mostrare i limiti dell'uso filosofico della psicologia; e tutto ciò fa parte di una vicenda dominata dal pensiero della assoluta Unità, insomma si tratta di monoteismo, areligioso o religioso. In tal senso i commentari di S. Kierkegaard alle Lezioni di Schelling rappresentano nuovo inizio per la filosofia. In essi non si trova sola descrizione di quanto insegnava Schelling, se ne trova inclusa ricezione di Kierkegaard stesso e suoi interrogativi e sue note a margine, che iconoclasticamente rovesciano le usuali prospettive culturali e filosofiche, trasformando la lettura filosofica del mito nel racconto ed analisi della interezza del senso intuito in stesso vivere che frammentandosi manifesta la molteplicità del pensiero della natura vivente la quale in tal guisa si fa remota dal naturale intelletto e per contrasto non per contraddizione mostra di quella interezza la superiore significanza della lettura stessa siffatta rispetto all'oggetto stesso di lettura.
Nel Diario di stesso Kierkegaard se ne trova ripresa con definizione separata e risolutiva del soggetto, cui si accede tramite comsapevole interpretazione del mito ma che traspare dalle meditazioni sulle storie delle genti, delle nazioni, delle stirpi; ciò è reso nel Diario dalla menzione degli Eponimi cui si basano linguaggi e culture nazionali e secondo stessa adesione al darsi della Ragione non al farsi delle ragioni cioè senza esclusione della decisione ultima ed obbligata di vivere singolarmente nella coscienza dell'Assoluto e non di affollarsi inconsciamente agli assoluti che dell'Assoluto sono astrazioni non vitali.

Tanta intellettuale consequenzialità non si trova nelle analoghe riflessioni di Simon Weil.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Siccome in ultimo messaggio ho trovato parola da correggere ('comsapevole'), reinvio testo corretto:

Le relazioni tra miti ed allegorie, ritualismi e fede, quali erano state consegnate alla cultura filosofica dal platonismo, annoveravano il mito quale introduzione a psicologia filosofica; all'inverso nella filosofia esistenzialista il mito serve a mostrare i limiti dell'uso filosofico della psicologia; e tutto ciò fa parte di una vicenda dominata dal pensiero della assoluta Unità, insomma si tratta di monoteismo, areligioso o religioso. In tal senso i commentari di S. Kierkegaard alle Lezioni di Schelling rappresentano nuovo inizio per la filosofia. In essi non si trova sola descrizione di quanto insegnava Schelling, se ne trova inclusa ricezione di Kierkegaard stesso e suoi interrogativi e sue note a margine, che iconoclasticamente rovesciano le usuali prospettive culturali e filosofiche, trasformando la lettura filosofica del mito nel racconto ed analisi della interezza del senso intuito in stesso vivere che frammentandosi manifesta la molteplicità del pensiero della natura vivente la quale in tal guisa si fa remota dal naturale intelletto e per contrasto non per contraddizione mostra di quella interezza la superiore significanza della lettura stessa siffatta rispetto all'oggetto stesso di lettura.
Nel Diario di stesso Kierkegaard se ne trova ripresa con definizione separata e risolutiva del soggetto, cui si accede tramite consapevole interpretazione del mito ma che traspare dalle meditazioni sulle storie delle genti, delle nazioni, delle stirpi; ciò è reso nel Diario dalla menzione degli Eponimi cui si basano linguaggi e culture nazionali e secondo stessa adesione al darsi della Ragione non al farsi delle ragioni cioè senza esclusione della decisione ultima ed obbligata di vivere singolarmente nella coscienza dell'Assoluto e non di affollarsi inconsciamente agli assoluti che dell'Assoluto sono astrazioni non vitali.

Tanta intellettuale consequenzialità non si trova nelle analoghe riflessioni di Simon Weil.

MAURO PASTORE