sabato 29 aprile 2006

La Torre, Massimo, La crisi del Novecento. Giuristi e filosofi nel crepuscolo di Weimar.

Bari, Dedalo, 2006, pp. 303, € 16,00, ISBN 9788822053565.

Recensione di Antonino Scalone – 29/04/2006

Filosofia del diritto, Filosofia politica

Il punto di partenza del volume di Massimo La Torre è la convinzione della crucialità e dell’esemplarità della vicenda weimariana, intesa come “uno dei momenti più interessanti e drammatici della storia dell’Europa moderna” (p. 6). In quel breve torno di anni vengono al pettine problemi ed esplodono tensioni già ampiamente presenti nell’ultimo scorcio dell’Ottocento: “Molto della ‘giovinezza’ del secolo ventesimo affonda invero le sue radici nel romantico diciannovesimo. È quest’ultimo che forgia le armi culturali e ideologiche che si faranno macchine d’acciaio e ordigni di fuoco nel secolo successivo” (p. 9). Si spiega così perché il primo autore a cui La Torre rivolge l’attenzione sia Georg Jellinek, cioè un giurista che opera a cavaliere fra i due secoli e le cui opere più importanti appartengono agli ultimi decenni del XIX. Il suo pensiero si segnala fra l’altro per la precoce comprensione dei pericoli insiti nel plebiscitarismo (già in un saggio del 1898, Das Recht der Minoritäten) e di quelli insiti nello sviluppo di un approccio irrazionalistico alla scienza del diritto, diametralmente opposto al “modello neutrale, wertfrei, di scienza giuridica inaugurato dalla linea Gerber-Laband e di cui Jellinek è il più raffinato teorizzatore” (p. 46). Egli inoltre si mostra in grado di cogliere e tematizzare i primi segni della “crisi dei parlamenti e più in generale dello Stato liberale” (p. 44).
Il primo autore autenticamente weimariano cui La Torre dedica la propria attenzione è Hermann Heller, giurista, avvocato, militante socialdemocratico. Egli prende decisamente posizione contro la concezione del diritto di Kelsen, criticandone la spersonalizzazione e la desostanzializzazione: a suo giudizio una concezione “puramente” giuridica del diritto non è in grado di coglierne la sostanza e la specificità. Ad essa oppone una concezione forte della sovranità (cioè di quel concetto che in uno studio del 1920, intitolato appunto Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Kelsen aveva preteso di superare) intesa come decisione personale. Lungi dall’accettare la riduzione kelseniana dello Stato al diritto, Heller concepisce il secondo – scrive La Torre - come “risultato del ‘monopolio della violenza’, vale a dire di un potere sovrano”. Il diritto appare dunque “intimamente collegato alla figura dello Stato” (p. 103). Se “l’imperativismo di Heller” appare debitore nei confronti del decisionismo schmittiano e dunque di una “concezione hobbesiana del potere politico” (p. 104), per nulla hobbesiani sono i suoi concetti di comunità e morale che invece “assumono nell’ottica teorica del nostro autore caratteristiche squisitamente aristoteliche: è una certa ‘città’ a dare senso alla vita degli individui, ed è ancora essa a predeterminare le loro scelte politiche e morali” (ibid.). Proprio a questa concezione materiale e, per così dire, contenutistica, dell’unità politica vanno ricondotti la sua ripulsa dell’internazionalismo e il tentativo di coniugare ideologia socialista e nazione: per Heller, scrive La Torre, “è il capitalista il ‘senza patria’; il proletario invece è inserito in una collettività originaria che dà senso alle sue sofferenze e alla sua lotta. Si tratta allora di contrapporre all’Internazionale del capitale la nazione operaia” (p. 66). Si capisce come su queste basi Heller, ad onta della sua militanza socialdemocratica., nutra grande interesse per il fascismo, al quale dedica un saggio specifico, frutto di un suo viaggio in Italia. Certo, pur rimanendo “positivamente sorpreso da un certo ordine che regna nel paese” (p. 70), è e resta antifascista, ma la sua critica nei confronti del regime italiano non deriva dal suo carattere dittatoriale (“Non è tanto la limitazione delle libertà e dei diritti individuali a costituire un problema per il Nostro”, p. 70), quanto piuttosto dal fatto che per lui “il fascismo non riesce a esprimere un’autentica mitologia politica, un vero e proprio corpo di idee e principi, una Weltanschauung epocale” (p. 71).
Un altro autore weimariano preso in esame è Rudolf Smend, famoso soprattutto per aver pubblicato nel 1928 un libro che all’epoca ebbe vasta risonanza: Costituzione e diritto costituzionale. Tale opera si presenta innanzitutto come una critica nei confronti della concezione kelseniana del diritto, naturalmente a cagione dei suoi caratteri di formalità e pretesa vuotezza; d’altronde, e con motivazioni sostanzialmente convergenti, la critica a Kelsen appare un luogo comune di una parte consistente della giuspubblicistica weimariana, a prescindere dall’orientamento politico: oltre a Heller e a Smend, sarà sufficiente ricordare a questo proposito Gerhard Leibholz e, naturalmente, Carl Schmitt, ma si potrebbero citare ancora Kaufmann, Lenz, Larenz, Horneffer ecc. Cuore della riflessione smendiana è la nozione di integrazione. “Lo Stato, scrive Smend, esiste solo perché e in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale” (Smend, Costituzione e diritto costituzionale (1928), Milano 1988, p. 76). A sua volta, l’integrazione, nella sua vivente complessità, presenta tre diverse accezioni, potendo essere personale, funzionale e materiale. L’integrazione personale ha a che fare con la figura del capo, medio essenziale perché possa darsi un’unità politica: “Non vi è vita spirituale – scrive Smend – senza ‘leadership’ (Führung) – per lo meno nell’ambito della formazione e normazione di una comune volontà culturale” (p. 83). L’integrazione funzionale riguarda quelle forme e quelle procedure che – analogamente al capo nell’integrazione personale – contribuiscono alla formazione e alla conservazione dell’unità politica. Smend elenca svariati tipi di integrazione funzionale facendo ad esempio “menzione – scrive La Torre – dei ritmi e dei canti usati nell’espletazione di certi lavori manuali, delle forme liturgiche e dei riti delle diverse religioni, delle sfilate militari e degli esercizi ginnici” (p. 149). Sul piano strettamente politico, l’integrazione funzionale può essere contrattualistica o legata alla Herrschaft. La prima è quella dei regimi parlamentari e riguarda la “lotta costituzionalmente prevista di tipo parlamentare o plebiscitario” (Smend, p. 97). Va tuttavia sottolineato che Smend qui non fa riferimento tanto alla razionalità di tali procedure, alla loro capacità di produrre leggi orientate al bene comune, quanto piuttosto al fatto che esse “integrano, cioè creano di volta in volta, per parte loro, l’individualità politica del popolo nel suo insieme” (p. 94). Al medesimo fine è orientata la Herrschaft: “L’assoggettamento ad una medesima Herrschaft in tutti i suoi aspetti – scrive Smend – significa anche e soprattutto, accanto alla comunità di valori da ciò condizionata, la comunità di esperienze vissute relativa a queste funzioni formali della comunità” (p. 98). L’integrazione materiale, infine, rivela appieno l’inclinazione smendiana per una concezione sostanzialistica e comunitaria della forma politica. Integrazione materiale, infatti, nota La Torre, “significa qui integrazione rispetto a certi fini, o meglio, integrazione a certi valori” (p. 155). In questo quadro, si comprende come per Smend la costituzione in senso ampio, ovvero “l’ordinamento materiale governato dal fine dell’«integrazione»” (p. 181), abbia la meglio sulla mera costituzione formale e come gli stessi diritti individuali fondamentali non siano fini a se stessi, ma, piuttosto, “il loro fine sia l’integrazione di una certa comunità statale” (p. 184). Lungi dall’essere “connessi eminentemente allo status della ‘personalità’, qualità ascritta a ogni essere umano, per Smend essi discendono dallo status della ‘cittadinanza’, cioè dalla condizione di membro del polo tedesco” (pp. 184-5).
Il terzo autore weimariano che La Torre analizza è Leonard Nelson. Si tratta di una attenzione assai meritoria, giacché il suo pensiero è poco conosciuto in Italia. Allievo di Fries e dunque di formazione kantiana, Nelson ha in comune con Kelsen perlomeno la convinzione che il diritto sia dover essere, anche se in un’accezione non assimilabile al formalismo del giurista praghese. Il principio generalissimo che a suo avviso permette di definire il diritto, ovvero “il principio per cui le norme legislative e consuetudinarie devono essere considerate giuridiche” viene individuato da Nelson in Die Rechtswissenschaft ohne Recht (1917) “nell’accordo tacito o espresso dei consociati” (p. 236). Qualche anno dopo, nel System der philosophischen Rechtslehre und Politik (1924), scrive La Torre, “ogni accenno alla rilevanza dell’accordo scompare ed è il Rechtsgesetz, applicazione allo Stato della società del Sittengesetz, attraverso una serie di formule deduttive, ad essere detto capace di conferire direttamente obbligatorietà alle norme giuridiche positive” (ibid.). In ogni caso, solo il riferimento ad un principio superiore permette di affrancare lo Stato dalla dimensione meramente fattuale della coercizione: “Se si rinuncia al rinvio a un tale ordine giuridico soprastatale – scrive Nelson - allora non ci resta che negare il carattere giuridico dei rapporti di volontà che costituiscono lo Stato e riconoscere il preteso rapporto giuridico come mera relazione di forza” (Nelson, Die Rechtswissenschaft ohne Recht, in Gesammelte Schriften in neun Bänden, Hamburg 1973, vol. IX, p. 166). Fra lo Stato – inteso weberianamente come titolare del monopolio della violenza legittima – e il diritto, inteso come “legge morale sostanziale” (La Torre, p. 249) esiste un rapporto di mezzo e fine ma, “poiché per realizzare l’ideale del diritto il solo mezzo è lo Stato, deduttivamente a suo [di Nelson] avviso deve giungersi all’affermazione dell’ideale dello Stato. Il potere assoluto del sovrano e il suo monopolio della forza subiscono così una sorta di transustanziazione: da requisito di fatto a principio normativo” (p. 250).
Il problema fondamentale del pensiero di Nelson, peraltro giudicato assai “ricco e stimolante” (p. 256) è ravvisato da La Torre nel fatto che, infine, “lo Stato di diritto si fa Stato di giustizia” (ibid.), realizzando in questo modo una sorta di ritorno da Kant a Platone. “Ciò accade soprattutto attraverso la riformulazione della politica come fatto cognitivo, che quindi dovrà essere trattato da chi dispone delle opportune conoscenze” (p. 257). Legittimati a governare sono infatti coloro i quali detengono un sapere adeguato. Certo, tutti secondo Nelson possono rivendicare un pari diritto all’istruzione, ma solo pochi, i Gebildeten, potranno arrivare a possedere quel sapere e quella saggezza atti a cogliere l’“interesse ‘vero’” (p. 256) e potranno pertanto esercitare a buon diritto l’arte del governo. Si tratta – nota La Torre – di un elitismo de facto e non de jure (p. 257) che tuttavia non appare scevro da pericoli, in particolare quello della riproposizione di “un vero e proprio Stato etico, nel quale la regola della condotta risulta del tutto esterna all’autonomia degli individui e persino alla deliberazione politica dei cittadini” (p. 258).
I tre autori presi in esame, al di là delle differenze anche notevoli fra loro, sembrano dunque essere accomunati da un medesimo sforzo: conferire allo Stato e al diritto una dimensione sostanziale che esso sembra aver perduto. Ciò avviene in Heller attraverso il riferimento alla decisione sovrana e alla nazione (e, sul piano disciplinare, attraverso il tentativo di coniugare sociologia e giurisprudenza); in Smend attraverso il ricorso alla nozione di integrazione e al riferimento filosofico al concetto di geschlossener Kreis ereditato da Theodor Litt; in Nelson attraverso l’affermazione di un legame forte fra diritto ed etica.
Ci si può chiedere però se effettivamente uno Stato connotato così pesantemente in senso contenutistico, se un diritto così profondamente determinato dalla relazione con l’altro da sé – la comunità nazionale, i valori, l’etica – siano stati effettivamente in grado di fornire un’indicazione teorica all’altezza dei problemi storici posti dall’epoca weimariana e – sul presupposto dell’esemplarità di quella vicenda – possano rappresentare strumenti efficaci di lettura del nostro presente. E ci si può chiedere altresì se la concezione kelseniana, proprio per quei caratteri che tanto spesso le sono stati rimpoverati – formalità, radicale avversione per ogni metafisica, critica inesausta nei confronti di ogni ipostatizzazione “politica” dell’interesse generale o della persona dello Stato – non abbia titoli migliori per corrispondere a questa esigenza e non serbi ancora al suo interno potenzialità ermeneutiche meritevoli di ulteriore valorizzazione.

Indice

Prologo 
La modernità giuridica: Georg Jellinek 
La sovranità radicale: Hermann Heller 
La comunità integrata: Rudolf Smend 
Platonismo normativo: Leonard Nelson 
Epilogo - Tre modelli: decisionismo, comunitarismo, platonismo 
Indice dei nomi

L'autore

Massimo La Torre è ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Catanzaro. Ha insegnato all’università di Bologna, all’Istituto Universitario di Firenze e in varie università europee. Fra le sue pubblicazioni, La “lotta contro il diritto soggettivo”. Karl Larenz e la dottrina giuridica nazionalsocialista (Milano 1988).

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