domenica 21 maggio 2006

Hersch, Jeanne, Essere e forma.

Trad. it. di R. Guccinelli e S. Tarantino, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 207, € 22,00, ISBN 88-424-9226-4.
[Ed. or.: L’être et la forme, La Baconnnière, Neuchâtel 1946]

Recensione di Gennaro De Falco - 21/05/2006

Storia della filosofia (esistenzialismo), Filosofia teoretica (ontologia), Estetica

La materia: è questa una delle tracce seguite da questo intenso saggio di Jeanne Hersch, la materia che, senza una presa da parte dell’uomo, senza che questi le dia una forma (p. 12), resta un non senso, qualcosa di indeterminato e inutile ai fini umani. Il testo si compone di cinque capitoli dei quali il quarto, sull’arte, è probabilmente il più appassionante e problematico.
Nel primo capitolo l’autrice analizza i vari modi che danno una forma alla materia: conoscenza, contemplazione, azione e creazione artistica. Il presupposto è che “conosciamo l’io in base alla sua funzione, come un organo, una sega i cui denti crescerebbero e si affilerebbero conficcandosi nel tronco” (p. 11). Mettendo in guardia il lettore e invitandolo a riflettere su “quanto la forma sia ben lontana dall’essere inoffensiva” (p. 15), l’autrice si sofferma in particolar modo sulla contemplazione e sul rischio che, almeno superficialmente, essa possa essere considerata come incapace di dare una forma alla materia. In realtà, la contemplazione riesce a dare alla materia una forma che la trascende, in modo da superare la sua sostanza per caricarsi di emozioni e sensazioni che fanno parte dell’uomo in quanto individuo; significativo è l’esempio della finestra che in uno spirito contemplativo può addirittura causare “un’ebbrezza di apertura, di partenza, di altrove, di nostalgia” (p. 18). E non è certo casuale che la contemplazione sia una delle qualità appartenenti all’artista e che, di conseguenza, l’arte rispecchi tali capacità, essendo la sola forma di conoscenza capace di creare: “L’arte è creazione e non soltanto azione” (p. 26). L’arte quindi riesce ad agire sulla realtà creando qualcosa che prima non era esistente, pur già esistendo i singoli elementi di cui viene a comporsi un’opera artistica: il marmo, ad esempio, esiste ancora prima che prenda forma in una statua. Se vi è dunque un’opposizione tra l’io e il non io, tra presa e materia, viene legittimo chiedersi il limite che demarca l’una e l’altra condizione, ovviamente rapportando tale limite alle varie forme di presa sulla materia. La nostra autrice condivide la teoria kantiana per cui il binomio materia-presa non si annulla mai, la struttura dualista potendo variare nel limite tra l’una e l’altra parte sino addirittura a giungere all’inversione, mai però scomparendo (p. 37). Dopo aver dimostrato che anche nell’azione e nell’arte sussistono le stesse difficoltà di definire il limite tra presa e materia, e riscontrando dunque la mancanza di un’evidenza oggettiva, l’autrice giunge alla conclusione che, solo grazie a questa mancanza, la condizione umana mantiene la sua specificità (p. 55) e con essa la sua libertà: “Appena il limite è concepito come fisso, la libertà umana non ha più senso. La libertà è correlata alla mobilità del limite” (p. 56).
Nel secondo capitolo, Jeanne Hersch tenta di dare una definizione precisa della forma, individuando innanzitutto le sue caratteristiche principali nella limitazione e nella determinazione: “Il termine forma ha senso solo quando si applica a un tutto finito, cioè separato da un limite da un’altra cosa” (p. 70). Eppure è questa limitatezza che riesce a rendere un essere parziale un tutto completo: “La forma è ciò che fa di un essere particolare, parziale, limitato, determinato, finto, effimero, un essere uno, e non più un essere tra gli altri” (p. 76). Continuando la sua analisi sulla forma, l’autrice si chiede se essa, oltre a estendersi alla realtà umana, sia applicabile ad altre realtà. La risposta che ci fornisce è netta: secondo le sue considerazioni, la forma è in grado di conferire il “valore di realtà” (p. 91) solo alle azioni e alla vita contingente dell’uomo. A questa affermazione consegue una contrapposizione tra l’uomo e quello che l’autrice, senza però approfondire il concetto, definisce “l’Essere Uno” (p. 90), quest’ultimo solo avendo una visione onnicomprensiva del tutto, l’uomo restando legato alla visione della sua esclusiva realtà e degli aspetti che la compongono.
Nel terzo capitolo viene analizzato ciò che l’autrice definisce “l’incarnazione della forma” (p. 109), e cioè lo spazio. Avvertendo che di esso sono state date varie definizioni, da quella di “mezzo vuoto omogeneo” (p. 116) a quella che smentisce tale teoria in quanto fondata sulla mancanza di differenza tra vuoto dello spazio e ciò che riempie il vuoto, e passando poi ad analizzare le sue convinzioni per cui lo spazio ha una multiformità di significati in relazione a chi lo adopera – e a questo proposito individua cinque tipologie di spazio: trascendentale, pratico, sociale, fisico, matematico (pp. 121-124) –, giunge infine a individuare alcune caratteristiche comuni alle varie modalità di spazio, la prima delle quali è l’esclusività: “Nessun luogo può essere occupato da più di un corpo per volta – e reciprocamente, nessun corpo può occupare al tempo stesso più di un luogo” (p. 125). Lo spazio è quindi il mezzo più radicale in cui si concretizza l’esclusione, e sebbene lo stesso pensiero tenda all’esclusione, in questo caso essa è meno definita di quella operante nello spazio (p. 130).
Nel quarto capitolo viene ancora presa in esame la forma, questa volta in rapporto all’arte, che risulta essere l’unico modo di attualizzazione umana per cui le forme create trovano in sé stesse il loro motivo d’essere. L’autrice è consapevole del fatto che l’arte non può essere il risultato di una formula matematica, essa infatti risulta caratterizzata dalla unicità e dalla singolarità, caratteristiche entrambi che le permettono di elevarsi al di sopra di ogni fenomeno umano e la rendono coerente. Infatti è la coerenza, con tutti gli aspetti a essa legati, che rende tale l’opera d’arte e la differenzia dal trompe-l’oeil: le pagine che affrontano tale differenza (pp.139-152) dimostrano la grande sensibilità dell’autrice nei confronti dell’arte e la sua predisposizione a non ridurre tutto a scienza e a dato positivo, nel contempo ci agevolano anche nel capire come l’uomo può essere il tramite di uno spirito superiore. Ritornando al trompe-l’oeil, con esso si intende una mera riproduzione della realtà del dato sociale e, per questo, non avente vita propria; il capolavoro, al contrario, crea una realtà che si distacca dal dato sociale, una realtà a sé stante il cui equilibrio degli elementi non è dato dalla mera riproduzione di dati esterni, tale fatto giustificando quella che la Hersch definisce “differenza ontologica” (p. 145). In base a tali premesse l’autrice critica il verismo e il patetismo in quanto peccano “per mancanza di creazione, per l’incapacità di trasformare un dato in forma” (p. 155), in ciò forse procedendo con eccessiva semplificazione in quanto non riesce in una distinzione delle varie espressioni d’arte pur all’interno di una stessa corrente letteraria. Non si sottrae Hersch dall’analizzare la poesia e il suo potere evocativo: l’arte poetica usa delle parole che fanno parte del comune linguaggio, eppure riesce a creare in questo modo una realtà unica che si differenzia da ogni dato circostante. Anche qui l’autrice, sostenendo che il poeta è colui che fa, un tessitore, trascura tutta una parte di poesia e letteratura – che va da William Blake a Arthur Rimbaud sino a Jim Morrison – che si fonda sulla teoria del poeta come veggente.
L’ultimo capitolo analizza il rapporto tra forma e realtà alla luce di due filosofie fondamentali, il realismo e l’idealismo - la prima affermando sostanzialmente il valore ontologico del dato puro e il secondo invece negandolo (p. 190) – a cui può aggiungersi la teoria del fenomenista, una teoria di mezzo per cui le due affermazioni “le cose esistono” e “sono l’essere stesso” ricevono riscontro positivo la prima, negativo la seconda. L’autrice tenta qui una reductio ad unum, negando una vera e propria opposizione tra le due teorie, insistendo nuovamente su una differenza ontologica per cui l’idealismo pone il soggetto nel completo isolamento, il realismo lo considera in separabile dal blocco dell’essere in sé.
Il saggio della Hersch offre un quadro completo delle problematiche legate all’esistenza, alle forme attraverso le quali essa si sostanzia e cerca di offrire alcuni spunti che invitano il lettore a spostare la sua riflessione sul mistero di un essere superiore, di una spiritualità che trascende l’esistenza terrena. È chiaro che le sue conclusioni e le teorie delineate sono il risultato di determinate opzioni ideologiche di base che possono o meno essere condivise. La costruzione teorica sull’arte è la dimostrazione di quanto appena detto: benché l’autrice ribadisca alla fine del quarto capitolo che “la forma artistica, in quanto tale, non può essere racchiusa in una formula, e rimane avvolta nel mistero” (p. 181), si evince una sua certa predisposizione a rifiutare certi dogmi letterari. È il caso del poeta come veggente che la nostra autrice dimostra di rifiutare e su cui il grande poeta Arthur Rimbaud, in una famosa lettera del 1871 a Paul Demeny – che sarà poi conosciuta sotto il nome di Lettera del veggente –, scriveva: “Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi”. E nonostante sia un creatore, ciò non toglie, come scrive Gian Piero Bona, che “il poeta, e per estensione l’uomo costruttore, è un essere in perpetua crisi espressiva”, un dato che la Hersch pare trascurare in quanto ci parla di un’arte letteraria che crea forme uniche sempre attingendo ad elementi già esistenti assunti come dati certi ed indiscutibili. È pur vero che la situazione è così complessa e ricca di sfumature che è impensabile affrontarle tutte in un saggio che pone la sua attenzione solo in parte sull’arte e la poesia. È molto efficace l’intervento dell’autrice sul bisogno di assoluto e sovraumano che l’uomo cerca attraverso l’arte, in ciò quasi rivisitando le parole di un altro grande poeta francese, Stéphane Mallarmé, il quale scriveva a proposito dei fiori: “I fiori simboleggiano tutto quel che, sulla terra, è traccia o parcella di un assoluto che a noi manca […] – i fiori sono infatti forma più che esistenza, essenza e quasi a nudo nel niente del mondo sensibile per favorire in noi quella conoscenza dell’essere, che in sé può venir detta la poesia.”

Indice

Introduzione
1. La condizione umana
2. La forma per l’uomo
3. La forma e lo spazio
4. Esigenze dell’arte
5. Forma e “realtà”
Conclusione
Glossario


L'autore

Jeanne Hersch (1910-2001) ha insegnato per vent’anni Filosofia all’Università di Ginevra e ha diretto la Divisione di filosofia dell’Unesco. Tra le sue pubblicazioni: Storia della filosofia come stupore (Bruno Mondadori, Milano 2002); L’illusione della filosofia (Bruno Mondadori, Milano 2005) e il romanzo Primo amore- Temps alternés (Baldini Castaldi Dalai, Milano 2005).

Bibliografia

Bona, Gian Piero, Introduzione a Rimbaud, Arthur, Opere, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1973.
Mallarmé, Stéphane, Versi e prose, Einaudi, Torino 1987.
Rimbaud, Arthur, Opere, Mondadori, Milano 1975.

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