venerdì 2 giugno 2006

Ferry, Jean Marc, L’etica ricostruttiva.

Trad. it. di P. Fontana, Milano, Medusa, 2006, pp. 119, € 15,00, ISBN 88-7698-040-7.
[Ed. or.: L’éthique réconstructive, Cerf, Paris 1996]

Recensione di Raffaela Strina – 02/06/2006

Etica

È possibile risolvere la dialettica di identità–conflitto–riconoscimento che media le nostre relazioni intersoggettive, in modo che la rivendicazione dell’identità non porti alla rottura e al conflitto, ma al riconoscimento reciproco? Questa è la questione fondamentale a cui il prolifico filosofo francese Jean-Marc Ferry cerca di rispondere in L’éthique réconstructive, in un dialogo serrato con l’etica del discorso di Habermas. La sua proposta di un’identità e di un’etica ricostruttiva si fa erede e al contempo tenta di superare i limiti del proceduralismo habermasiano, ponendosi come una sorta di via mediana tra poli filosofici apparentemente inconciliabili: la narrazione che esprime “l’ideale sostanziale della vita buona” (p. 5) e l’argomentazione permeata dall’“idea procedurale della società giusta” (ibid.); la giustizia della politica e la giustizia della storia; il diritto e la religione.
La narrazione è la prima espressione linguistica che da forma all’identità. Nel racconto del proprio vissuto si comunica agli altri la propria individualità, chiedendone il riconoscimento. Sull’integrazione delle diverse “performances narrative”, sull’intreccio delle diverse storie individuali e collettive, sul loro raffronto e la loro interpretazione si basa una forma di identità narrativa, ancora largamente mitica e centrata sul punto di vista della prima persona che racconta. L’etica che vi è sottesa si fonda su un’idea sostanziale e positiva del bene e dell’agire umano, rispondente alla storia di vita del singolo o della comunità, alle sue esperienze, alla sua cultura. La narrazione è, dunque, un modo parziale di rappresentare il mondo e l’agire umano in esso, rivelandosi insufficiente di fronte alle esperienze di conflitto e di ingiustizia, che mettono in discussione l’identità costruita apologeticamente. Essa, infatti, esclude naturalmente chi non può raccontare la propria storia, chi è sopraffatto dall’ingiustizia del destino e non può narrare l’offesa subita, ma anche quei vinti la cui memoria frammentata impedisce di dare conto della propria tragedia, in quanto l’irreparabilità della violenza non può essere plasticamente rappresentata nel racconto storico coerente. La narrazione viene, dunque, più che mai messa alla prova dalle esperienze traumatiche che hanno caratterizzato il Novecento: l’olocausto, gli orrori dei totalitarismi, i crimini contro l’umanità. La parola si trova ostacolata dall’abisso squarciato da tali avvenimenti, non più ricomponibili sotto l’insegna del destino o della legge: “La semplice narrazione non basta più, perché diventa nient’altro che uno scontro di storie concorrenti che vogliono che venga riconosciuto il loro diritto per uno stesso luogo di commemorazione” (p. 36). Il registro narrativo diventa dogmatico e anziché promuovere l’identità oltre il conflitto, inasprisce il conflitto di identità allontanando la prospettiva del riconoscimento. Occorrerà, dunque, che le narrazioni accentrate sul punto di vista di chi racconta vengano decentrate mediante argomentazioni, che ne fluidifichino la prospettiva univoca, mettendo in campo più punti di vista.
Sembrerebbe, dunque, che la via discorsivo–argomentativa proposta da Habermas e Apel rappresenti l’alternativa alla chiusura foriera di conflitti propria di un’etica–identità narrativa, rispondendo all’esigenza di fuoriuscire dalla parzialità, dal particolarismo e dogmatismo del racconto in prima persona. La ragione argomentativa si esplica, infatti, come capacità analitica di discernimento dei vari ordini logici e concettuali, permettendo di esporre e spiegare i conflitti che sorgono tra narrazioni: “Argomentare: da una parte si contesta, dall’altra si difende giustificando razionalmente” (p. 41) L’etica discorsivo–argomentativa è procedurale: non delinea un’idea sostanziale del bene o della vita buona, non dice cos’è bene e giusto e cosa è sbagliato e immorale, ma ritiene rilevante solo “la procedura – discorsiva – di adozione della norma” (p. 59), limitandosi a definire le due condizioni formali di validità di un processo discorsivo, e cioè l’“apertura di principio della discussione pratica a tutti gli interessati” (p. 60) e la legge dell’argomento migliore, secondo cui l’intesa tra i partecipanti alla discussione deve poggiarsi sulle “ragioni ritenute migliori e non su motivi empirici derivanti da intimidazioni, manipolazioni, resistenze psicologiche e altre poste in gioco strategiche” (ibid.).
Ma quest’etica che schiude alla dimensione intersoggettiva sembra presentare secondo Ferry molte lacune, che diventano voragini nel momento in cui la procedura non riesce più nella sua astrattezza a coprire il bisogno di orientamenti assiologici sostanziali, non riesce a ricucire identità frammentate, a dar conto dell’ingiustizia subita. L’autore giunge quindi a mettere in crisi tanto i presupposti formali dell’etica del discorso habermasiana quanto la sua applicazione pratica e la sua capacità di far fronte alla dialettica di identità–conflitto–riconoscimento.
Ferry mostra che l’illimitata apertura del discorso e l’equa ripartizione delle chances comunicative risultano teoriche al limite dell’utopia. Da una parte, infatti, la procedura critico–analitica è espressione di un razionalismo troppo ristretto, che non tiene conto del fatto fondamentale che “non tutti accedono ugualmente all’argomentazione razionale” (p.64), e che motivi d’esperienza legati al vissuto troverebbero espressione migliore attraverso un registro narrativo o addirittura, come nel caso dell’Indicibile dell’Olocausto, attraverso elementi semiotici presimbolici, extra–discorsivi; dall’altra parte, è un dato indiscutibile che la possibilità di intervenire in un discorso, difendendo le proprie posizioni o contestando quelle altrui, non è realmente aperta a tutti gli interessati, ma ad esempio esclude gli animali, i bambini, gli embrioni, ponendo dunque la questione dell’effettiva legittimità della procedura.
Non sono più morbide le critiche rivolte alla legge dell’argomento migliore. Cos’è che decide che un argomento è migliore? Su cosa poggia la sua validità? Se l’argomento migliore è ciò che di volta in volta la comunità di discussione ritiene convenzionalmente valido, l’accordo sulle norme risulterà “eminentemente precario, instabile, fragile, aleatorio, se non addirittura arbitrario” (p.63); ma se al contrario se ne da un’interpretazione cognitivista, considerando l’argomento migliore come ciò che si può concordemente ritenere vero, si fa dipendere la giustezza procedurale che deve decidere della moralità, a sua volta da un senso comune contestuale e da una presupposta “Sittlichkeit non depravata” (ibid.), che però ovviamente non è garantita. Nel caso di un’eticità pervertita, l’argomento considerato migliore sarà altrettanto pervertito e come si può ancora considerarlo migliore? Si cade in un circolo vizioso: le norme morali dipendono dall’intesa tra soggetti in cui prevalga l’argomento migliore, che però, per essere riconosciuto tale, presuppone già quella moralità che doveva essere decisa dal discorso stesso.
Ma il vero limite di un’etica procedurale–argomentativa risiede nella sua applicazione. Il fine del discorso è produrre un’intesa con cui si stabilisca ciò che è vero e giusto in generale; ma quest’accordo annulla il conflitto con la pretesa “di ricominciare il mondo dimenticando che il mondo fu violento” (p. 40). Inoltre, il procedere argomentativo che isola le ragioni dai loro contesti “conduce la controparte a una conclusione totalmente al di fuori delle sue prospettive” (p. 42). In ciò è implicita una nuova forma di violenza, con cui l’intesa genera s’impone sulle parti e sulle motivazioni particolari, gettando nell’oblio “tutto il non–detto delle deformazioni, dislocazioni, repressioni, censure interne e violenze strutturali” (p. 48) che caratterizzano la comunicazione umana.
Se l’etica–identità narrativa risulta troppo accentrata e potenzialmente inasprisce i conflitti, mentre l’etica–identità argomentativa nella sua proceduralizzazione decentrante finisce per tendere a un accordo che non tiene conto della dimensione storica e della drammaticità dei conflitti, la via ricostruttiva proposta da Ferry si pone come una via di mezzo che decentra la narrazione in argomentazioni, al contempo riconnettendo la procedura discorsiva al vissuto che emerge nel racconto personale: “è questo il genio della ricostruzione: partire da una struttura per ricostituire il processo di cui quella struttura è il risultato, in modo da accedere a una comprensione propriamente storica della situazione data in presenza” (p. 10). La ricostruzione ha quale suo fine la riconciliazione, cioè la riunificazione di ciò che è stato separato. Riconciliare non significa aver dimenticato il torto e la colpa, ma significa farsi carico del passato, per ricomporre un’intesa spezzata. La riconciliazione non può, dunque, compiersi sul terreno della forma e della procedura, ma nei contenuti e nei valori, come una sorta di ricognizione storica, di ermeneutica del conflitto, che accoglie dal pathos della religione fondata sul perdono e l’amore universale, l’idea che il riconoscimento dell’identità possa darsi solo mediante la rinuncia di ciascuna parte in causa alla propria parzialità, per farsi altro–da–sé. Ciò è possibile in quanto l’identità ricostruttiva è un’identità negativa, fondata non sull’atto positivo di affermare sé stessi, ma sull’apertura alle rivendicazioni altrui, sul riconoscere come costitutiva della propria identità storica la storia degli altri. Solo ripercorrendo la propria storia e le storie altrui è possibile accettarci, è possibile creare uno spazio di condivisione.
In tal modo l’etica ricostruttiva si pone come via mediana non solo tra narrazione e argomentazione, ma anche tra religione e diritto. Se l’argomentazione del diritto interviene nella relazione di crimine e castigo, ma non riesce a riconciliare gli avversari, e la religione con l’amore e il perdono si eleva al di sopra dei rapporti giuridici, ma non ci dice come è possibile un’intesa tra esseri che non si amano, la ricostruzione “permette alle identità personali, individuali o collettive, di garantirsi di fronte alle altre una struttura coerente e significativa” (p. 22), mediante la raccolta di elementi storici, che permette di seguire il movimento stesso della vita ferita, attraverso le scissioni, i conflitti, le lacerazioni, i malintesi. Ricostruire significa fluidificare rapporti sclerotizzati che bloccano la comunicazione e portano al conflitto, mediante la riflessione, con cui a partire da una struttura data se ne porta a galla il processo genetico. Si tratta di uno sforzo ermeneutico, che diversamente dalle argomentazioni analitiche, si fonda su un sottile lavoro di decodificazione di tracce e indizi.
Con questa proposta che prende le mosse da una critica immanente al paradigma discorsivo habermasiano, Ferry sembra dunque collocarsi sul solco della prima teoria critica di Benjamin, cui l’autore fa esplicito riferimento, nel tentativo di indicare un modello di ragione, di identità e di agire che, riattivino quelle cariche utopiche tese a dare giustizia, non più soltanto politica ma storica, a coloro che sono privati della parola del racconto e del discorso.

Indice

Premessa
1.Che cos’è la ricostruzione?
2. L’etica del dibattito etico

L'autore

Jean-Marc Ferry, filosofo, professore all’Università Libera di Bruxelles. È autore di una quindicina di volumi che spaziano dalla filosofia della comunicazione alla filosofia politica. Si segnalano Les puissances de l’expérience (Paris, 1991), Philosophie de la communication (Paris 1994), La question de l’Etat européen (Paris 2000), Les grammaires de l’intelligence (Paris 2004). La sua opera filosofica è stata premiata due volte dall’Institut de France.

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