venerdì 27 ottobre 2006

Ferraris, Maurizio, Jackie Derrida. Ritratto a memoria.

Milano, Boringhieri, 2006, pp. 115, € 10,00, ISBN 88-339-1685-5.

Recensione di Maria Maistrini - 27/10/2006

Storia della filosofia (contemporanea)

“Primo: è stato l’uomo più innamorato della vita che io abbia mai conosciuto. Secondo: l’uomo, per come ho potuto conoscerlo, era all’altezza delle sue opere, il che, in effetti, è rarissimo” (p. 69).
Così, ben lungi dalla mera ricostruzione di stampo filologico di altri ritrattisti famosi (si pensi tanto per dire a un Vasari, che, pur nella sua grandezza indiscussa, di un Tiziano Vecellio poteva dirti anche a che ora era nato senza farti sapere quasi alcunché di quello che pensava), Maurizio Ferraris offre alle stampe una breve raccolta di suoi scritti su Derrida: in pratica tutto quello che serve, a studenti e studiosi, per avere sottomano una panoramica che completa il discorso di Ferraris su e con il grande francese, e soprattutto agli altri lettori, per venire a sapere – si spera con conforto – che anche in tempi di “magra etica” come i nostri, si può ancora trovare in Accademia un esempio (“innamorato della vita”) o un testimone (“era all’altezza delle sue opere”).
Gli scritti vanno da articoli del «Sole» (Scripta manent) e del «Manifesto» (Fratello Hitler;L’uomo del Café Flore e l’uomo del Lutétia), a saggi brevi per «Rivista di estetica» (Ontologia ansiosa), per «aut aut» (Il filosofo-figlio), a conversazioni inedite (Resistenze; Innamorato della vita), fino al discorso di conferimento della laurea honoris causa conferito a Derrida a Torino nel 1998, pronunciato dallo stesso Ferraris («Vous, Monsieur, qui êtes phénoménologue...»).
La “memoria” dell’autore, accompagnando il lettore nella vita e nell’opera di Derrida, scorre lieve tra fatti e pensieri, ricordi e riflessioni scientifiche che alla fine non si distinguono nemmeno più: traccia evidente di un’esistenza vissuta, almeno regolativamente, nell’ideale dell’autenticità.
I contenuti spaziano dall’invenzione della decostruzione al complicato rapporto di Derrida con il materialismo, ma anche con la politica (cfr. pp. 16 – 17), ovviamente con la scrittura, con Heidegger, con Husserl, etc., ma – e tale aspetto è forse più nuovo e intrigante - anche fino al rapporto di Derrida con la morte.
Della sua grande produzione sappiamo già, infatti, ma metterla in relazione con l’ansia e la paura di morire al punto di parlare di “ontologia ansiosa” è invenzione che va riconosciuta a Ferraris e gustata fra i molti aneddoti del libro (cfr. per es. p. 25), non come boutade, ma come vera e propria chiave di lettura: “La decostruzione è stato fare i conti con tutte queste ansie, e con tutte le ansie del mondo (…). Potremmo aver sbagliato tutto, ecco il punto” (pp. 37 - 38) .
Ed è forse questa la paura che ci costringe tutti - filosofi inclusi o anche per primi – a non liberarci mai dei nostri genitori? Sembra suggerirlo implicitamente, tra le altre provocazioni del libro, Il filosofo-figlio (da p. 41).
Ma la raccolta, sotto le spoglie di un’iniziativa editoriale in fondo di semplice struttura, mira a nostro avviso a un discorso ancora più complesso e innovativo, sebbene posto decisamente con toni low profile e soltanto nello scritto posto a mo’ di introduzione (“Parlandone da vivo”), e cioè a rispolverare senza retorica e senza esaltazione la bellezza e l’autenticità del rapporto fra Maestro (tale viene considerato da Ferraris l’a volte anche controverso Derrida) e allievo, di cui dopo Platone sentiamo parlare di solito, appunto, o in termini tutti esteriori (pseudogratitudine, incensamento gratuito, finanche servilismo); o - forse pure peggio - con toni da amiconi e pacche sulle spalle.
Invece laddove anche qui il nome “Jackie” dato al titolo per nominare Derrida avrebbe potuto far sorgere dubbi di quest’ultimo tipo, Maurizio Ferraris tiene a precisare che non si tratta di prendersi confidenze ingiustificate e fuor di pudore, ma solo di far conoscere il nome all’anagrafe del filosofo (p. 13), di solito non noto. Quello che rende complessa la questione è l’indagine, qui appena abbozzata, ma forse quanto basta – sul senso e sul significato più profondi della relazione medesima; mentre ciò che le conferisce, a nostro avviso, un carattere innovativo è il parlare della propria biografia.
Un aspetto, questo che si rivela essere in linea con lo spirito dei tempi che cambiano. Ad esempio, in Italia Romano Màdera ha da poco fondato a Milano una Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche la cui finalità si fonda sulla necessità di intrecciare biografia e produzioni scientifiche in modo non estrinseco, come in passato è stato fatto, anche abbastanza noiosamente (tipo psicoanalizzare l’opera, e amenità del genere). Una provocazione, questa, che come ricorda Ferraris, lo stesso Derrida aveva lanciato al mondo accademico, in occasione del ritiro del Premio Adorno, col cuore in mano e non timoroso di farsi dare eventualmente anche dell’imbecille o quanto meno del poco accorto dal lettore (“C’è stato dunque un periodo in cui credevo di essere a mille miglia da Jacques (…). Ma non era così, me ne sono reso conto nel 2004”, (p. 11 e p. 13)), pur di presentarsi come essere umano e non come professorone.
La relazione - “credo gliene importasse poco (…) aveva le spalle larghe”, (ivi) - è qui presentata in termini che dal punto di vista fenomenologico si potrebbero assumere come hegelianamente dialettici (“ho capito che proprio quando in apparenza credevo di essere più lontano stavo semplicemente rielaborando per conto mio quello che avevo imparato da lui”, p. 13), non per dare a tutti costi un’etichetta a quello che fluisce così facilmente e spontaneamente nel discorso del libro, ma per parlare di spirito, categoria del tutto formalmente assente dalla trattazione del libro, ma presente, secondo noi, nella sostanza, dalla prima all’ultima sillaba, sia perché Ferraris utilizza le parole con cui Hegel descrive il travaglio e l’esito del lavoro della famosissima coscienza infelice: osservazione questa che risulterebbe banale e superflua se non ci trovassimo contingentemente in tempi di eccesso di interpretazione, e perciò con un troppo di soggetto (Lacan avrebbe detto “di realtà”, nel senso che l’immaginario prende il posto della realtà stessa), che impedisce, alla fine, di scorgere proprio quella realtà che si vorrebbe intendere. Ed allora, forse, non è male ricordare che, volenti o nolenti, esiste anche un’oggettività . Detto altrimenti, a volte il singolo non fa altro che percorrere un percorso già tracciato, a dispetto della nostra vanità, nel quale incontra cose che già ci sono – per quanto sempre in un testo, magari. Ma questo sarebbe un altro discorso! Sia perché dopo tanta e tale cultura, l’opera successiva di Ferraris si occupa di religione – altra tappa ineludibile per chi nutra un sincero desiderio di sapere – e lo fa con un linguaggio leggero, segnale interessantissimo, questo, quando si pensi all’irrangiungibile Derrida, quando nel ‘74 parla di Hegel – aigle – l’aquila, proprio a proposito del rapporto maestro/allievo: “Allievo: è un termine che, al pari della cosa, assumo qui in tutti i sensi.- L’allievo. Cos’è allevare in generale? ([al]levamento, [e]levazione, [sol]levamento? Contro cosa si pratica un allievo? Di cosa si ri-leva? Cosa ri-leva? Cosa vuol dire rilevare un allievo? – C’è leggerezza in tutto ciò. Il sogno dell’aquila è di alleggerire. Ovunque ciò (in)(at)terra” (Glas, tr. it. Milano, Bompiani 2006, p. 106).
E Derrida ci credeva tanto profondamente, nella decostruzione, che il suo amico e allievo potrà narrare poi che, nel 2001, all’uscita de Il mondo esterno – niente di ermeneutico e ancor meno di programmaticamente decostruttivo -, “Jacques fece qualcosa che ritengo incredibile (…), estrasse (…) il mio libro e mi chiese di scrivergli la dedica”, (p. 11), lasciandosi a quanto pare tanto serenamente quanto leggermente superare e “decostruire” da lui.
Ma non troppo sorprendente, forse, per il vecchio Tedesco: recitava infatti la Fenomenologia nel 1807: “il vero è l’essere- ritornato nella semplicità”.
Concludendo: se è vero che la grandezza di un Maestro si misura (anche!) dalle spalle larghe, per continuare nel gioco hegeliano, a Maurizio Ferraris non resta che ritrovarsi alla fine, superato e felice, quantomeno con l’analisi del tema natale – e magari una bella lettura di tarocchi – nel libro di un allievo o di un’allieva. Noi glielo auguriamo con tutto il cuore.
Gli chiederà una dedica?

Indice

Parlandone da vivo
Scripta manent
Ontologia ansiosa
Innamorato della vita
Fratello Hitler
Resistenze
L’uomo del Café Flore e l’uomo del Lutétia
«Vous, Monsieur, qui êtes phénoménologue…»

L'autore

Maurizio Ferraris è professore ordinario di Filosofia teoretica a Torino, dove dirige il Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata. Ha scritto una trentina di libri, fra cui: Postille a Derrida (1990); «Il gusto del segreto» (1997); Storia dell’ermeneutica (1988), A Taste for the secret (con Derrida, 2001), Ontologia (2003), introduzione a Derrida (2003), Good bye Kant (2004), Dove sei?Ontologia del telefonino (2005), Babbo natale, Gesù adulto. In che cosa crede chi crede? (2006)

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Scuola superiore di Pratiche Filosofiche

4 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Una recensione così, fosse autentico sarcasmo o astiosità, non avvia ma svia ed in verità di tanto vuoto non se ne trova un senso eticamente accettabile perché non ci si rimedia un sofisma e neanche un suo fantasma. Fosse stato il lavoro recensito giudicato poco o affatto vuoto, non è sviando che si potrebbe avvertirne.

Evidentemente il recensore non si avvede che M. Ferraris consente coi suoi rapporti di precisare o ricostruire cronache entro una storia tutt'altro che banale, fatta di intrecci di politica, cultura e filosofia, con questa ultima non trascurabile parte nonostante per un periodo fosse stata in Europa Ovest sospesa nei sensi e paralizzata dal realizzare; sicuramente era stesso vuoto cinismo ad impedirne, eppure tutto si concluse.
Vi fosse nei rapporti di M. Ferraris vanagloria od anche trascurabilità, non si trova ragione filosofica ad inquadrarne per sottrarre il resto; e se tal sottrarre decisione pura di filosofia non ragione fosse, allora se ne riscontra fallimento e proprio in stessa razionale inconciliabile elencazione, evidente dello scritto recensorio di Maria Maistrini, di cui filosoficamente non se ne potrebbe trarre qualcosa perché decisività e razionalità di esso sono divisi in esso senza reale concludenza.

La filosofia francese del Secolo Ventesimo è stata rifiutata con quasi dileggio da ambienti soggetti a mòniti oscurantisti, assai attivi nella Italia degli intrighi vaticani, coi quali si è tentato un appello sbagliato, innanzitutto perché nato da esigenze altrui o diverse da quelle esprimibili senza esserne del tutto a parte: il ritorno agli Antichi, invocato per necessità umanamente vitale di sintesi e semplicità, non è stato il rifiuto delle complicatezze moderne, perché tal rifiuto era contro la Modernità e non ha senso l'appello agli altri se distinzione non v'è.

In Francia son state poste dalla filosofia politica non solo nazionale questioni tanto inessenziali quanto centrali per il futuro occidentale ed europeo e chi preferiva ad un prosequio solamente teorico della azione filosofica in politica dell'Occidente ha avuto od ha modo di verificare perché mai ciò non sia accaduto e non possa accadere; e tal modo consiste in un interesse reale e diretto per il destino del pensiero filosofico europeo ed occidentale.
Questo destino è fatto anche di sorti universitarie e vicende accademiche inoltre a causa della importanza politica della pratica filosofica occidentale ed europea non si può pretendere che tutto si svolga in termini di concordie né si ha diritto di proporre ad insaputa dei destinatari una distruzione di complessità che reca distruzione di maggior parte di cultura e politica e civiltà occidentali.

Non conviene dunque annebbiare gli intelletti o raddoppiare oscurità.
La fenomenologia di Hegel non era una fondazione di disciplina rigorosa ma solo di pensiero e non mostra inadeguatezza o eguaglianza della contemporanea; non si trova morale forte e trasgressiva in nessuna azione di Adolph Hitler ma involontariamente costui lasciò intender altra morale, solo omononima perché era di sua madre, di cui furon anche integerrime denunce contro il figlio, tardivamente ma non del tutto troppo tardi intese...

Non bisogna cercar tanto nel poco e chi troppo cerca altro trova di tanto ed altrove.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

La espressione del tutto non convenzionale in attuale italiano corrente 'e chi preferiva ad un prosequio' nondimeno è del tutto corretta in realtà ed io la pensavo e volevo così nell'istante dell'assenso e poi dell'invio.

'Preferire a' significa preferire un poco non tanto e non di più e non direttamente. Uso transitivo senza oggetto specificato e con complemento non oggetto.
Comunque invierò testo con espressione convezionale.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Reinvio di messaggio precedente con correzione:

La espressione del tutto non convenzionale in attuale italiano corrente 'e chi preferiva ad un prosequio' nondimeno è del tutto corretta in realtà ed io la pensavo e volevo così nell'istante dell'assenso e poi dell'invio.

'Preferire a' significa preferire un poco non tanto e non di più e non direttamente. Uso transitivo senza oggetto specificato e con complemento non oggetto.
Comunque invierò testo con espressione convenzionale.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Una recensione così, fosse autentico sarcasmo o astiosità, non avvia ma svia ed in verità di tanto vuoto non se ne trova un senso eticamente accettabile perché non ci si rimedia un sofisma e neanche un suo fantasma. Fosse stato il lavoro recensito giudicato poco o affatto vuoto, non è sviando che si potrebbe avvertirne.

Evidentemente il recensore non si avvede che M. Ferraris consente coi suoi rapporti di precisare o ricostruire cronache entro una storia tutt'altro che banale, fatta di intrecci di politica, cultura e filosofia, con questa ultima non trascurabile parte nonostante per un periodo fosse stata in Europa Ovest sospesa nei sensi e paralizzata dal realizzare; sicuramente era stesso vuoto cinismo ad impedirne, eppure tutto si concluse.
Vi fosse nei rapporti di M. Ferraris vanagloria od anche trascurabilità, non si trova ragione filosofica ad inquadrarne per sottrarre il resto; e se tal sottrarre decisione pura di filosofia non ragione fosse, allora se ne riscontra fallimento e proprio in stessa razionale inconciliabile elencazione, evidente dello scritto recensorio di Maria Maistrini, di cui filosoficamente non se ne potrebbe trarre qualcosa perché decisività e razionalità di esso sono divisi in esso senza reale concludenza.

La filosofia francese del Secolo Ventesimo è stata rifiutata con quasi dileggio da ambienti soggetti a mòniti oscurantisti, assai attivi nella Italia degli intrighi vaticani, coi quali si è tentato un appello sbagliato, innanzitutto perché nato da esigenze altrui o diverse da quelle esprimibili senza esserne del tutto a parte: il ritorno agli Antichi, invocato per necessità umanamente vitale di sintesi e semplicità, non è stato il rifiuto delle complicatezze moderne, perché tal rifiuto era contro la Modernità e non ha senso l'appello agli altri se distinzione non v'è.

In Francia son state poste dalla filosofia politica non solo nazionale questioni tanto inessenziali quanto centrali per il futuro occidentale ed europeo e chi aveva preferenza per prosequio solamente teorico della azione filosofica in politica dell'Occidente ha avuto od ha modo di verificare perché mai ciò non sia accaduto e non possa accadere; e tal modo consiste in un interesse reale e diretto per il destino del pensiero filosofico europeo ed occidentale.
Questo destino è fatto anche di sorti universitarie e vicende accademiche inoltre a causa della importanza politica della pratica filosofica occidentale ed europea non si può pretendere che tutto si svolga in termini di concordie né si ha diritto di proporre ad insaputa dei destinatari una distruzione di complessità che reca distruzione di maggior parte di cultura e politica e civiltà occidentali.

Non conviene dunque annebbiare gli intelletti o raddoppiare oscurità.
La fenomenologia di Hegel non era una fondazione di disciplina rigorosa ma solo di pensiero e non mostra inadeguatezza o eguaglianza della contemporanea; non si trova morale forte e trasgressiva in nessuna azione di Adolph Hitler ma involontariamente costui lasciò intender altra morale, solo omononima perché era di sua madre, di cui furon anche integerrime denunce contro il figlio, tardivamente ma non del tutto troppo tardi intese...

Non bisogna cercar tanto nel poco e chi troppo cerca altro trova di tanto ed altrove.

MAURO PASTORE