venerdì 23 febbraio 2007

Quinzio, Sergio, La croce e il nulla.

Milano, Adelphi, 2006 [2. ed], pp. 226, € 20, 00, ISBN 8845920577.

Recensione di Donatella Pagliacci - 23/02/2007

Ebraismo, cristianesimo, nichilismo

Ricordi, memorie legati a luoghi ed esperienze di vita da cui nascono meditazioni che si rincorrono e affiorando generano nostalgiche riflessioni filosofiche. Da qui una speculazione che si mostra e si ritrae disegnando un paesaggio a tinte forti, come forte sembra essere l’ontologia invocata dall’autore: “Ontologia forte, orrenda ontologia forte, alla quale non vedo altra alternativa che la croce, o il nulla” (p. 15).
Dal ricordo dei luoghi che evocano il passato, il pensiero giunge a interrogarsi sulla fine della vita che paradossalmente si impone come una domanda: vivere la morte? Questo interrogativo, inquietante e ineludibile, tende a porre uno di fronte all’altro i diversi approcci al tema della morte. Al di là di qualsivoglia convinzione una cosa è certa: all’uomo moderno sembra essere definitivamente preclusa la via dell’accettazione della morte. La morte è inaccettabile per i cristiani che si confrontano con la rivelazione di un Dio che, nonostante la sua infinita misericordia, è stato appeso a un patibolo ed è inammissibile per gli ebrei perché, come testimonia l’autobiografia di Elias Canetti, con essa si compie il fenomeno tragico della perdita e della cancellazione dei volti. Ma il segno della definitiva sconfitta dell’uomo di fronte alla morte riposa nella consapevolezza che lo stesso pensare la morte non fa altro che anticiparne il compimento. La sconfitta dinanzi all’evento ultimo del morire non vanifica il desiderio del poeta di ripensare dall’interno la religione ebraica per poter rileggere, con linguaggio odierno, i temi della verità, come del logos, del monoteismo, come della visione della storia, della teologia nonché del messianismo.
Le voci attorno alle quali si concentra la lezione di Quinzio sono molte e ad ognuna è riservata un’attenzione peculiare e discreta, capace di penetrare tra luci e ombre come nel caso della rilettura dell’opera di Simone Weil. Il suo pensiero sembra, almeno fino a un certo punto, confermare l’idea di una consistente e paradossale oscillazione tra tradizione ebraica e greca, ma le sue ultime parole e il rifiuto del battesimo cristiano sono la conferma più evidente del suo “ebraico identificarsi con l’abbassamento e l’esclusione” (p. 52). Più drammatico è il grido di Élie Wiesel che sembra voler inchiodare Dio di fronte alla propria impotenza.
Il cristianesimo viene poi osservato con sguardo attento, disincantato e soprattutto profondamente critico. La dimensione dell’attesa, che tiene uniti l’Antico e il Nuovo Testamento, è la realtà in cui vive il cristiano, quasi un tempo intermedio in cui, assistendo al progredire della storia, si misura incessantemente con la non sempre rassicurante prospettiva apocalittica.
Si ricercano nomi e volti capaci di proporre un non banale modello di rinnovamento, come nel caso di Cipriano, il quale, tra l’altro, ha pensato all’autentica salvezza solo come reale e sincero ritorno a Cristo. Ma il vero rinnovamento, che avrebbe dovuto accompagnarsi a un autentico mutamento spirituale, è rappresentato dal movimento ascetico, sorto grazie al moltiplicarsi di monaci, anacoreti ed eremiti. La sfida all’uomo passionale sottesa nell’ascetismo non ha, tuttavia, prodotto i risultati sperati, per cui alla fine il sogno di una vita angelicata risulta essere “infinitamente lontano dall’annuncio biblico della salvezza nel regno messianico, della resurrezione della carne” (p. 78).
Si profila allora un diverso modo di avvicinarsi a Dio che trova nella preghiera il proprio compimento. Di qui, di nuovo, uno scarto incolmabile e significativo tra ebraismo e cristianesimo; mentre la preghiera ebraica giunge a mutare il decreto già pronunciato da Dio, la preghiera cristiana non ha una vera necessità “è in definitiva un imbarazzante segno dell’irredenzione di una vita proclamata redenta” (p. 83).
Il confronto tra popolo cristiano e popolo ebreo, eletto e al contempo reietto, contribuisce a disegnare un’altra serie di scenari in cui l’autore ci guida nella rilettura di alcune fondamentali esperienze di fede. Così siamo chiamati a ripensare alle infinite contraddizioni che presenta la vasta opera del giovane convertito di Tagaste e vescovo di Ippona: Agostino, perché è in lui che si compie “la prima grande tappa del passaggio dall’orizzonte teoretico e apatico del pensiero antico, contemplatore delle eterne essenze, all’orizzonte della passione per la concreta esistenza e pena dell’uomo nella storia” (p. 92). Ma la vera novità teologica del cristianesimo è incarnata nella figura di Francesco di Assisi. Per lui la croce è tutto. In nome di questo abbandono alla croce Francesco si fa povero tra i poveri e opera quel rinnovamento radicale che trova nella parola-azione di ebraica memoria il proprio compimento.
Nel momento stesso in cui vengono ricercate continuità e discontinuità tra ebraismo e cristianesimo, Quinzio ama ricordare che, pur non potendo ridurre tutto al rabbinismo, la linea maestra del giudaismo è proprio il rabbinismo. Da qui la possibilità di rileggere l’intera storia del pensiero giudaico alla luce della polarità tra “teologia del Patto” e “teologia della Promessa”. Ed è proprio all’interno di quest’ultima polarità che si inscrive l’annuncio cristiano della redenzione in Gesù Cristo. Nel rifiuto di Lutero di accogliere questa verità fondamentale riposano le ragioni del suo progressivo, tragico e definitivo inasprimento fino alla disperazione. Perché è nell’immagine di Gesù Cristo morente in croce che viene svelata l’essenza del cristianesimo: qui si compie il fatale stravolgimento da realtà di regno a realtà di mondo, confermata dalla ferocia di quell’esecuzione capitale che spalanca le porte dell’abisso in cui si congiungono i due estremi della giustizia e dell’orrore.
Sulla scia della riflessione sulla religiosità russa, l’autore trova uno spiraglio per uscire allo scoperto e comunicare il proprio peculiare angolo visuale religioso: ovvero leggere “la storia della chiesa nella prospettiva della chenosi divina, che dopo la croce del Messia continua nei fraintendimenti del suo annuncio, i contrasti e poi i sincretismi, il dilagare della confusione fino al dissolvimento finale. È indubitabile che la chiesa cattolica sia la via maestra lungo questi millenni, la via maestra della chenosi” (p. 131). Da qui la denuncia dell’assurdità in cui cade una presunta teologia ateo-logica e a-teologica e la ridefinizione dello spazio che può effettivamente occupare la fede narrativa nell’attuale dibattito teologico. D’altra parte le ambiguità da sempre presenti nel cristianesimo sembrano oggi esplodere in un mondo dilaniato e tragicamente diviso tra religione storica e religione cosmica.
Per un altro verso si riflette su come la filosofia abbia realmente innervato il tessuto religioso della cristianità fin dall’età patristica. Questa presenza trova nella figura del nuovo filosofo il suo punto di massima espressività e approda a quel processo di modernizzazione e secolarizzazione in cui viene abbandonato l’“atteggiamento passivo di rispecchiamento della realtà (verità), per un impegno della volontà in direzione dell’imposizione di un senso al mondo” (p. 160). Da qui la modernità finisce per delinearsi come lo stravolgimento delle categorie ebraico-cristiane. L’imporsi della filosofia non è altro che la conferma del ruolo dominante dell’uomo nei confronti del mondo.
Una possibile via di fuga rispetto al circolo che lega l’astratta interpretazione filosofica alla realtà potrebbe essere quella delineata da Severino. Questi ha concentrato la sua attenzione sulla tutt’altro che astratta questione della tecnica, nella sua perversa pretesa generativa e distruttiva. Ma l’intento ‘rassicurante’ di Severino sembra non essere del tutto soddisfacente e l’autore preferisce rifugiarsi tra le provocatorie invettive di Nietzsche, che è un povero ma vero profeta cristiano, “come si può essere profeti quando da molti secoli la chiave delle parole di Dio è perduta” (p. 177). In verità ciò che diviene sempre più evidente è che tutto il corredo filosofico di ipotesi e congetture non può che arenarsi di fronte al fallimento totale che ha un nome tremendo e agghiacciante: Auschwitz. Naufragio del pensiero e perdita di sicurezza sono le sponde entro le quali si dibatte un’epoca che deve anche fare i conti con l’indebolimento operato dall’ermeneutica nei confronti dei testi sacri. Di fronte a questo colpo ulteriore non c’è che da decidersi tra gioco e tragedia.
Nel prendere coscienza che anche il linguaggio è una trappola, siamo ricondotti dinanzi al fondo abissale del nulla. Nel disegnare sentieri attraverso il nichilismo, l’autore riesce a cogliere nel relativo il vero bisogno dell’occidente. Questo nuovo luogo di salvezza dall’assoluto, diventa esso stesso un poco rassicurante assoluto. Il vero volto del cristianesimo è dunque tutto qui, nell’ avvento dell’assoluto che diventa relativo. La croce rappresenta quel certo momento della storia in cui il fondamento di tutte le cose che sono, abbandonata l’eterna necessità, decide per la sua spoliazione, il suo svuotamento. Su questa strada, dice Quinzio, il nichilismo svela storicamente il senso della croce.
L’intero percorso di Quinzio si chiude comunque con una parola, la sola che si possa ancora pronunciare sul destino del mondo contemporaneo, questa parola è speranza. Non una speranza qualunque ma una speranza apocalittica. Questa è l’unica, ci dice l’autore, che non illude, perché “non è modellata sulle nostre aspettative, dal momento che ciò che è per noi desiderabile coincide lì con ciò che per noi è terrificante” (p. 224).

Indice

Luoghi e morte
Ebraismo
Cristianesimo
In philosophos
Nichilismo


L'autore

Nato ad Alassio (Savona), il 5 maggio 1927, dopo aver prestato servizio per diversi anni nella Guardia di finanza, si è congedato e ha vissuto in ritiro per 14 anni, dedicandosi ad approfondire lo studio della Bibbia che è stato l’impegno costante della sua vita. Filosofo, teologo, saggista, e commentatore di temi religiosi, ha collaborato con La Stampa, il Corriere della sera, l’Espresso, unendo le sue doti di fine biblista e di efficace divulgatore culturale. È morto a Roma il 22 marzo 1996. tra le sue opere possono essere ricordate: Cristianesimo dell'inizio e della fine, Adelphi, Milano, 1967; Monoteismo ed ebraismo, Armando, Roma, 1975; La fede sepolta, Adelphi, Milano, 1978; Silenzio di Dio, Mondadori, Milano, 1982; La speranza nell'apocalisse, Ed. Paoline, Milano, 1984; La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1993; Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995.

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